Opposizione allo stato passivo e compensazione crediti: nuova domanda riconvenzionale o eccezione?

in Giuricivile.it, 2023, 5 (ISSN 2532-201X), nota a Cass. n. 15884 del 17.05.2022

Con la sentenza n. 15884 del 17.05.2022, la Cassazione ha affrontato in modo piuttosto lineare il tema della facoltà di proporre nuove domande in sede di opposizione allo stato passivo, stante la natura impugnatoria del rimedio. La lettura dell’art. 99 l. fall. non consente di qualificarlo anche come rimedio parificabile all’appello, non si applicano dunque le prescrizioni di cui all’art. 345 c.p.c. in merito al divieto di nuove produzioni probatorie e integrazioni.

In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto apprezzabile il motivo proposto dalla creditrice, laddove lamentava la pronuncia ultrapetita relativa alla compensazione del credito vantato con i saldi positivi di diversi rapporti di conto corrente. La compensazione viene quindi qualificata come eccezione e non come domanda riconvenzionale, ogni volta in cui non venga avanzata richiesta di condanna ma sia volta a paralizzare la pretesa della controparte.

Il caso in esame

Il caso all’origine della pronuncia può rapidamente sintetizzarsi: un creditore cessionario di una banca ricorre per Cassazione contro la decisione del Tribunale di approvazione dello stato passivo, da cui si era visto rigettare parzialmente la domanda di ammissione relativa a credito fondiario e per uno scoperto di conto corrente. La Corte, dopo aver dichiarato inammissibili il primo motivo di ricorso del creditore relativo alla violazione del contraddittorio per non aver valutato le integrazioni documentali proposte in sede di opposizione e il controricorso del curatore, esaminava il terzo motivo di ricorso del creditore, che lamentava una decisione ultrapetita da parte del Tribunale con riferimento all’eccezione di compensazione avanzata dal curatore rispetto ai saldi positivi dei conto corrente intestati alla fallita, accogliendolo parzialmente. La sentenza, nonostante le argomentazioni espresse in forma molto sintetica, fornisce un’occasione per ribadire la natura impugnatoria ma autonoma rispetto all’appello, del giudizio di opposizione in sede fallimentare e la distinzione fra eccezioni e nova in appello con particolare riferimento all’eccezione di compensazione, nonché la loro ammissibilità.

La natura del giudizio di opposizione allo stato passivo

Le questioni affrontate dalla pronuncia in commento sono strettamente correlate alla natura impugnatoria del procedimento di opposizione allo stato passivo. Il giudizio di impugnazione dello stato passivo fallimentare[1] si propone davanti al tribunale che ha dichiarato il fallimento in una delle forme previste dall’art. 98 L. fall., due delle quali considerate strumenti di impugnazione, mentre l’ultima si ritiene sia mezzo straordinario.

Prima della riforma della L. fall. degli anni 2000 la dottrina maggioritaria riteneva che il procedimento di accertamento del passivo fallimentare dinanzi al giudice delegato fosse legato alla successiva fase impugnatoria da un criterio di sommarietà, secondo alcuni molto lontana dal potergli riconoscere dignità decisoria. La cognizione piena, veniva dopo, e solo in caso di contestazione da parte dei creditori, aprendo l’unica vera fase processuale.
Il procedimento di verificazione post riforma, regolato dagli artt. 93 ss. L. fall., ha oggi sicura natura giurisdizionale e decisoria secondo le interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali, con gli adattamenti imposti dal carattere speciale della cognizione nell’ambito fallimentare; di detto procedimento il giudizio di impugnazione costituisce l’eventuale sviluppo in sede contenziosa, ai fini dell’accertamento dell’esistenza e dell’efficacia, nei confronti del fallito, del credito di cui si chiede l’ammissione.

La riconosciuta natura impugnatoria, tuttavia non può portare a ritenere il giudizio di opposizione allo stato passivo strumento assimilabile all’appello.
È un problema di corretta interpretazione – appare quasi superfluo sottolinearlo – la verificazione della possibilità di applicare direttamente la disciplina del codice di rito in tema di impugnazioni in generale, quando non addirittura anche le previsioni in materia di appello.

L’impugnazione, nei suoi termini essenziali è un giudizio di riesame, avverso la decisione di “altra” autorità, con caratteristica di necessità, perché se non impugnato il provvedimento diviene irretrattabile.

Gli elementi sistematici e testuali a favore della non congruenza fra rimedi impugnatori e appello sono individuabili schematicamente:

  • nella terminologia utilizzata dal legislatore all’art. 99 L. fall.[2],
  • nel carattere devolutivo, anche se con riferimento alle sole questioni effettivamente impugnate, pertanto non opera il principio di devoluzione integrale,
  • nella possibilità di proporre questioni di rito e di merito, si tratta dunque di gravame a forma libera,
  • nell’ esclusione del giudice delegato dal collegio giudicante sull’impugnazione, al fine di garantire la terzietà dell’organo decidente, dal momento che oggetto dell’impugnazione è la sua decisione sulla singola insinuazione al passivo,
  • nella inappellabilità del decreto del Tribunale, ricorribile solo per cassazione,
  • difesa tecnica nel giudizio di verificazione solo eventuale.

La complessità si canalizza nella definizione dei limiti e caratteri di questo rimedio, per via della cognizione piena sui generis. L’analisi della giurisprudenza della Suprema Corte, in particolare da alcuni arresti del 2015, permette comunque di chiarirsi le idee, ricostruendo il regime specifico di questa fattispecie dell’art. 98 L. fall. senza riprendere tout court i caratteri, i principi e le norme di dettaglio dell’appello. Se si prende a esempio la facoltatività della difesa tecnica e per i creditori e per il curatore, unitamente alla sommarietà del rito e dell’attività istruttoria, emerge chiaramente come sarebbe fortemente compressivo del diritto di difesa delle parti ritenere applicabili le preclusioni e le decadenze tipiche dell’appello.

La dottrina ritiene che siano proprio queste singolarità a giustificare la scelta del legislatore di dettare per le impugnazioni una disciplina caratterizzata comunque da marcata specialità, ed in particolare da un sistema di preclusioni che viene ad operare in modo pieno all’interno della fase delle impugnazioni stesse[3]. Allo stesso tempo si deve fare attenzione a qualificarlo come giudizio a cognizione piena, o quasi piena, perché la tipicità del contenuto del ricorso come descritto dall’art. 99 L. fall., infatti, conferma la stabilizzazione dei profili della decisione del giudice relatore non oggetto di specifica impugnazione. Tale meccanismo è coessenziale a una pronuncia che si caratterizza per il fatto di essere un decisum, multa petita: con l’unico decreto di verificazione, il giudice decide dell’ammissione dei crediti di diversi soggetti, una decisione “collettiva” che spiega efficacia solo nell’ambito del processo fallimentare e ben si pone in linea con gli obiettivi che esso si pone di esecuzione e tutela della par condicio creditorum, senza che i singoli rapporti sfumino fino a confondersi fra loro. Al contrario, uno stesso creditore può avere differenti pretese nei confronti del fallimento e azionarle con più domande di insinuazioni al passivo e altrettante opposizioni in caso di contestazione. Ciò che non è possibile fare, ovviamente, è proporre più domande per lo stesso petitum, frazionandolo, né nel giudizio di verificazione né in quello di impugnazione. In quest’ultimo caso, l’unica possibilità per il creditore di proporre più opposizioni per il medesimo credito è quando voglia, con la seconda domanda, porre rimedio a errori della precedente che condurrebbero il giudice a dover concludere per l’inammissibilità.

Non si applicano, allora, le regole stringenti dell’appello ma si applicano i principi del codice di rito e dell’ordinamento. A fronte del riconoscimento natura di vera e propria impugnazione a carattere speciale, vi sono alcune innegabili peculiarità come la possibilità di estendere la materia del contendere ad eccezioni nuove, seppure non illimitatamente, oppure l’ammissibilità di nuovi mezzi istruttori, così come vedremo nel prosieguo.

La giurisprudenza, in linea con la dottrina, attribuisce alle opposizioni allo stato passivo natura impugnatoria ed esclude che possano essere equiparate all’appello, traendo da questi presupposti diverse conclusioni di sicuro interesse, che ripercorreremo brevemente, sulle conseguenze dei vizi della costituzione o della comparizione delle parti. Il problema si pone marcatamente ed è pertinente con la pronuncia in commento, anche con riferimento alla individuazione dei limiti all’introduzione di nova[4] nella fase successiva all’esecutività dello stato passivo.

Onere probatorio e decadenze nell’impugnazione ex art. 99 L. Fall.

Secondo il noto principio per cui onus probandi incumbit ei qui dicit, il creditore che chiede di insinuarsi ha l’onere di individuare il petitum e di allegare i documenti dimostrativi a fondamento della domanda[5].

Sempre al fine di evidenziare le differenze di regime rispetto al giudizio di appello e le peculiarità del procedimento ex art. 99 L. fall., l’orientamento prevalente della giurisprudenza è nel senso che i documenti depositati nella fase della verifica sommaria non sono acquisiti di diritto al giudizio di opposizione, proprio al contrario di quanto avviene ordinariamente nell’appello, di conseguenza si ritiene che vi sia un vero onere di riallegazione, dal momento che ove non siano nuovamente depositati, degli stessi il giudice dell’opposizione non potrà tenere conto né vi è alcuna possibilità di rimessione in termini[6]. Per la stessa ragione, non trova applicazione il divieto di cui all’art. 345 c.p.c., versandosi in un giudizio diverso da quello ordinario di cognizione e di appello. L’opposizione, infatti, mira a rimuovere un provvedimento emesso sulla base di una cognizione sommaria segnando solo gli atti introduttivi ex artt. 98 e 99 della citata legge, il termine preclusivo per l’articolazione dei mezzi di prova. A questa interpretazione è allineata pienamente anche la recente pronuncia in commento, che rigetta le allegazioni del creditore intervenute dopo la costituzione del curatore senza allegare anche la prova dell’impossibilità di adempiere entro i termini.

È logico concludere che, stante l’inapplicabilità dell’art. 345 c.p.c. per via della sommarietà e dell’informalità di cui abbiamo già discusso con riferimento alla verificazione dello stato passivo, non vi sia alcuna preclusione di indicare nuovi mezzi di prova, non dedotti nella fase sommaria, né di produrre nuovi documenti o documenti a integrazione della fase precedente. Il fondamento testuale riposa sulla stessa previsione dell’art. 99, comma 2, n.4 L. fall., a tenore del quale parte opponente ha l’onere di formulare “l’indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti prodotti”[7] di cui intende valersi, disposizione che può avere l’unico significato che possono indicarsi nuovi mezzi di prova, ulteriori rispetto a quelli già dedotti; anzi, al contrario, s’intende che l’espressa specificazione e produzione dei mezzi di prova e dei documenti di cui la parte intende avvalersi impone di considerare tale disposizione preclusiva di ulteriori istanze probatorie. La mera allegazione di impedimenti tecnici non può essere considerata prova sufficiente della totale impossibilità di adempiere al proprio onere processuale, che fra l’latro sussiste indipendentemente da qualsiasi eccezione la controparte possa sollevare, che eventualmente darà origine alla possibilità di una ulteriore integrazione e contraddittorio fra le parti.

Natura di giudicato endofallimentare dello stato passivo

L’art. 52 L. fall., deve essere interpretato nel senso dell’obbligatorietà e dell’esclusività del procedimento di verifica del passivo, il cui fondamento deriva direttamente dalla sentenza dichiarativa di fallimento. La sua funzione è quella di definire la specialità del rito, con la conseguente improponibilità di una domanda eventualmente formulata dal creditore in sede di giudizio ordinario. Dopo il deposito dello stato passivo, il creditore il cui credito sia stato escluso dal commissario liquidatore, ha l’onere di proporre opposizione, mentre il creditore il cui credito non sia stato preso in considerazione dovrà proporre domanda di insinuazione tardiva.

Di qui, qualora il ricorso ex art. 99 L. fall. investa una o alcune delle statuizioni, parte minoritaria della dottrina e giurisprudenza ritengono che rispetto alle altre si realizzi l’acquiescenza ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c., con conseguente definitività, in parte qua, del provvedimento del giudice delegato. Si tratta di un nuovo spazio applicativo per l’art. 329 c.p.c., giacché in questo caso la mancata impugnazione di detta decisione comporterà il determinarsi di un giudicato cd. endofallimentare.

Alle stesse conclusioni in merito alla formazione di un giudicato endofallimentare, giungono i sostenitori dell’applicabilità del principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. Tale principio trova applicazione anche nel procedimento di opposizione, sia sulla base della considerazione generale per cui si tratta di procedimento contenzioso a contraddittorio pieno nel quale vige il principio dispositivo; sia perché, se è onere dell’opponente, nell’atto introduttivo del procedimento formulare l’esposizione dei fatti e l’indicazione dei mezzi di prova, ugualmente l’opposto dovrà assolvere al proprio simmetrico onere formulando le eccezioni e indicando i mezzi di prova, per un principio di parità delle armi e perché anche nei suoi confronti andranno altrimenti a consolidarsi le decisioni assunte dal giudice delegato. Non può ritenersi, infatti, che in un procedimento sommario si applichi già l’art. 115 c.p.c. con tutte le sue conseguenze, pertanto deve necessariamente essere consentito nel giudizio di opposizione contestare le circostanze di fatto dedotte nella fase precedente e non fatte oggetto di critica, anche in virtù dell’inesigibilità del rispetto di oneri processuali incompatibili con un rito “minimalista” come quello di accertamento del passivo. Questa seconda impostazione sembra in effetti più in linea con la natura impugnatoria ma non interamente assimilabile all’appello dello strumento in esame, di cui si è detto nel primo paragrafo.

Certo è, che il decreto che rende esecutivo lo stato passivo è immediatamente efficace e determina il consolidarsi del giudicato endofallimentare[8] intorno al credito (ovvero al diritto mobiliare o immobiliare) ammesso o escluso totalmente o parzialmente, essendo idoneo a determinare effetti preclusivi, seppure soltanto nell’ambito della procedura fallimentare, così come stabilito dall’art 96, ultimo comma L. fall., che rappresenta il dato testuale a sostegno dell’argomentazione prima riportata. E non solo quest’ultima norma è utile a ricostruire l’accertamento dello stato passivo come unica fase utile a determinare la massa dei creditori e l’ordine e quantità della loro soddisfazione sul fallimento, ma sono diverse le norme della Legge fallimentare che espressamente riferiscono la propria operatività solo all’interno della procedura concorsuale. Si pensi anche all’art. 55 L. fall. con riferimento ai debiti scaduti e al decorso degli interessi, all’art. 56 L. fall. rispetto alla compensazione definita da alcuni “speciale” perché introduce anche l’elemento dell’ordine temporale o l’art. 120 L. fall., in merito al valore di prova scritta del credito ammesso al fallimento ai soli effetti dell’art. 634 c.p.c. Tutto il disegno normativo risponde perfettamente a quelli che sono riconosciuti come i principi generali della procedura fallimentare, che equipara la sentenza dichiarativa di fallimento al pignoramento e devolve alla procedura il compito di destinare il patrimonio del fallito alla soddisfazione dei creditori, pur facendo salvo il riacquisto del libero esercizio delle azioni nei confronti del debitore per la parte di credito eventualmente rimasta insoddisfatta o mantenuta estranea allo stato passivo con la prosecuzione delle azioni extra fallimento (si veda l’art. 120 L. fall. in proposito).

La giurisprudenza fa continua applicazione del concetto di giudicato endofallimentare dell’approvazione dello stato passivo, stabilendo che i fatti su cui non vi sia stata impugnazione, o eccezione da parte del curatore, non possano più essere rivalutati ex officio dal giudice. In un caso in cui il creditore ammesso in collocazione chirografaria, aveva opposto il decreto di esecutività per il mancato riconoscimento del privilegio senza che, nel giudizio di opposizione, il curatore si sia costituito ed abbia contestato l’ammissibilità stessa del credito, la Cassazione ha ritenuto che il collegio non possa, ex officio, considerare nuovamente la questione relativa all’ammissione del credito[9].

Si può, infine, precisare che l’efficacia di giudicato endofallimentare del decreto, che rende esecutivo lo stato passivo, è identica tanto che la decisione sul credito sia assunta dal giudice delegato, quanto dal tribunale in sede di impugnazione ex art. 99 L. fall., a seguito della quale le statuizioni circa il credito controverso diverranno esecutive e definitive all’interno della procedura concorsuale.

Eccezioni e introduzione di nova nel giudizio di impugnazione dello stato passivo

Stante la natura giurisdizionale, anche se sommaria e regolata da rito sommario, dell’accertamento dello stato passivo, il giudice deve rispettare il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato (art. 112 c.p.c.), e non pronunziare d’ufficio su domande e questioni che possono essere sollevate soltanto dalle parti.

Il curatore opposto deve, a pena di decadenza, formulare le eccezioni in senso stretto e le eccezioni c.d. revocatorie, ed è altresì legittimato alle impugnazioni dei crediti ammessi, in linea con il suo ruolo di parte processuale in senso stretto.

Abbiamo già riferito che non trova applicazione lo speciale regime del divieto dei nova così come nell’art. 345 c.p.c[10] sarebbe previsto in appello; in particolare, non sussiste alcun divieto di sollevare nuove eccezioni, processuali o di merito, anche non rilevabili d’ufficio, poiché è insito nella verifica sommaria che non vi si possa rinvenire alcun onere di proporre tutte le eccezioni possibili. Si applica necessariamente l’opposto principio per cui le decadenze, importando limitazioni al diritto di difesa, debbono essere desumibili da norme specifiche o almeno da principi generali inderogabili e non possono ricavarsi in via interpretativa. Sarà il Collegio che giudica sull’opposizione ad assicurare, in caso di proposizione di nuove eccezioni, il rispetto del contraddittorio.

È la incontestata natura impugnatoria del mezzo a precludere, però, la possibilità di proporre domande nuove e in particolare domande riconvenzionali, escludendo la mutabilità del thema dispuntandum[11].

Come sempre, ci si muove sulla scorta dell’elemento letterale dell’art. 99 L. fall., che conferma il dato interpretativo, dell’ampio riconoscimento che la norma attribuisce alla parte di proporre eccezioni in senso stretto, di formulare istanze istruttorie, di produrre documenti, quale contenuti anche necessari dell’opposizione. Dalla medesima premessa interpretativa e letterale, la giurisprudenza giunge a conclusioni opposte relativamente all’ammissibilità di nuove domande. Se l’art. 99 L. fall. vigente qualifica il giudizio di opposizione allo stato passivo in senso inequivocabilmente impugnatorio, si esclude l’ammissibilità di domande non proposte nel grado precedente, quali le domande riconvenzionali, che non sono previste dalla disposizione tra i contenuti della memoria difensiva del resistente, nella quale invece vanno indicate, a pena di decadenza, le eccezioni e le prove; dunque, le domande nuove eventualmente proposte, anche in via riconvenzionale, vanno dichiarate inammissibili[12]. In concreto, sono state considerate domande nuove inammissibili, in quanto costituenti una mutatio libelli: nuova indicazione, il mutamento o la specificazione ex novo del titolo del privilegio del credito, effettuate in sede di opposizione ma non nel giudizio di accertamento dello stato passivo, dal momento che si tratta non di qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio, ma sono elementi che costituiscono parte integrante della causa petendi della domanda di ammissione[13].

Relativamente alla sentenza in commento, va segnalato che i giudici confermano l’impostazione anche recente della Suprema Corte, per la quale il curatore che intenda contestare l’accertamento del giudice delegato relativamente a un credito ammesso al passivo, deve impugnarlo nel termine di rito, non essendo sufficiente la proposizione di una mera eccezione sul punto[14]. E così nella pronuncia viene rigettato il motivo proposto dal curatore con il controricorso relativo alla nullità del credito vantato dalla società ricorrente.

In conclusione il giudice dell’impugnazione del passivo deve esercitare i propri poteri, anche ex officio, al fine di accertare la fondatezza della domanda in fatto e in diritto e non incorre in violazione dell’art. 112 c.p.c. il giudice che rigetti l’opposizione allo stato passivo proposta dal creditore, poiché l’accertamento sull’esistenza del titolo dedotto in giudizio dia esito negativo in base alla risultanze probatorie correttamente acquisite e nei limiti in cui tale rilievo non sia impedito o precluso da apposite regole processuali[15]. Così la Corte, nel caso in studio, conferma il motivo di ricorso proposto dalla società creditrice relativamente alla decisione ultrapetita assunta dal Tribunale in sede di opposizione relativamente alla supposta compensazione dei crediti fatti valere, con i saldi passivi di alcuni conto corrente intestati alla fallita, in quanto lo stesso curatore non li aveva eccepiti in compensazione, in quanto ancora sub iudice in altro procedimento ordinario e sui quali la curatela si era riservata ogni facoltà di agire in giudizio.

Compensazione e il suo ruolo nel procedimento fallimentare, eccezione o domanda riconvenzionale

La Suprema Corte, nella pronuncia in esame, si sofferma sulla natura della eccezione di compensazione e sui limiti entro i quali non può essere considerata domanda riconvenzionale, ovvero quando il fallimento propone anche domanda di condanna o quando il fatto presupposto è contestato. Gli elementi in analisi non possono che essere sia i presupposti fattuali e di diritto della compensazione nel procedimento fallimentare sia le questioni processuali connesse al tema.

L’art. 56 L. fall., che ammette la compensazione come istituto estintivo dell’obbligazione in seno al procedimento fallimentare, ha suscitato alcune questioni fra gli studiosi della materia. Secondo alcuni l’effetto che produce è di alterare la par condicio creditorum con un risultato di favore per alcuni di essi, trattandosi di soluzione satisfattoria, seppur non solutoria[16], del rapporto di credito. La norma avrebbe finalità di garanzia, sia pure in senso lato, in quanto la sua operatività evita il rischio di adempiere nei confronti di un insolvente e allo stesso tempo si ottiene una soddisfazione separata e autonoma nei confronti degli altri creditori. L’effetto previsto dalla normativa speciale si aggiunge e amplia quanto previsto in seno al codice civile, considerato strumento di economia processuale e giuridica in generale, vantaggioso per le parti e per l’ordinamento giuridico in generale. L’apparente trattamento di favore per alcuni creditori che si trovano in determinate condizioni di fatto, tuttavia, è riequilibrato da previsioni che sono volte a limitare eventuali atteggiamenti abusivi nei confronti della norma quando il debitore già presenti segni di sofferenza.

Il presupposto ordinario è che i crediti opposti in compensazione devono essere certi, liquidi, esigibili e sorti in capo al fallito prima della dichiarazione di fallimento. L’art. 56 L. fall. aggiunge testualmente che i creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il fallito i crediti che essi vantano verso lo stesso, ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento[17]. Sono ritenuti crediti compensabili e opponibili al fallimento, pertanto in base ai principi stabiliti dagli artt. 55 e 59 L. fall., anche quelli anche non scaduti per i quali tale effetto deriva direttamente dalla sentenza dichiarativa di fallimento. Si sono superate ormai tutte le questioni relative a crediti condizionati, illiquidi e non fungibili anche se con alcune precisazioni. Sarà compensabile il credito illiquido il cui ammontare viene determinato in sede di accertamento dello stato passivo poiché la sentenza dichiarativa di fallimento non può determinare alcun effetto automatico se non quello di ritenerlo “scaduto”. Così come rimarranno operative tutte le ipotesi di compensazione cd. ordinarie ex art. 1241 c.c. e non previste espressamente dalla legge fallimentare. È l’elemento temporale ad essere effettivamente determinante, ovvero l’accertamento dell’esistenza del rapporto di credito-debito prima della sentenza di fallimento. La compensazione non ha luogo se il creditore ha acquistato il credito per atto tra vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell’anno anteriore e ciò al fine di evitare cessioni fraudolente dei crediti vantati verso il fallito da parte dei creditori ad altri creditori, che abbiano il solo scopo di alterare la par condicio creditorum, che rimane il principio generale su cui si fonda la procedura fallimentare.

Sotto il profilo procedurale va rilevato che l’effetto estintivo dipende, comunque, da un atto volontario del debitore. Non essendo rilevabile d’ufficio, non si potrà considerare esaurita la fattispecie compensativa nel fatto oggettivo della coesistenza dei due debiti, che costituisce il solo presupposto dell’istituto. Il ruolo da attribuire all’eccezione è essenziale e caratterizza la struttura procedimentale della compensazione al fine di determinarne l’efficacia giuridica. È un diritto potestativo del titolare del rapporto di credito-debito al fine di garantirsi una soluzione satisfattoria, ma è evidente che il sistema giuridico delle obbligazioni ruota attorno all’onere di adempimento delle stesse, che non può essere sempre sostituito in automatico da un mezzo non solutorio. Non è necessario che si adottino né formule sacramentali né che si manifesti la volontà all’interno di un giudizio, ma tale elemento deve quanto meno emergere chiaramente dagli atti riversati in causa e così, infatti, stabilisce anche la Corte Suprema nella propria pronuncia[18].

La sinteticità della sentenza in commento sulla natura della compensazione nel giudizio fallimentare, è la conferma dell’esito ormai stabilizzato del precedente dibattito, soprattutto dottrinale, con riferimento alla natura di eccezione o domanda, tanto che alcuni la definiscono ancora eccezione riconvenzionale, mentre gli ordinamenti europei spesso chiariscono la sua proponibilità o meno anche in appello al fine di elidere tutte le eventuali questioni in merito. Il giudice, nel decidere sulla questione della compensazione, non può che aprire una cognizione endoprocedimentale in riferimento al credito contro eccepito, che potrà sfociare anche in una condanna al pagamento e comunque consuma l’accertamento in ordine al rapporto di credito-debito. Per questo motivo la Corte Suprema richiama l’accertamento già effettuato in sede di approvazione dello stato passivo e di opposizione in merito alla parte del credito vantato rispetto alla quale nessuna contestazione era stata mossa dal creditore, evidenziando come fosse già emersa fin dalla prima fase e abbia ormai efficacia di giudicato all’interno della procedura fallimentare.


[1] Per una panoramica, anche in chiave critica, delle posizioni giurisprudenziali con riguardo alle specialità dell’impugnazione del passivo fallimentare, v. M. Montanari, Ulteriori svolgimenti della riflessione del giudice di legittimità in tema di opposizione allo stato passivo, in Fallimento, 2012, 1330 ss.

[2] Cfr. anche U. De Crescienzo, sub artt. 98, 99, in G. Lo Cascio, Codice commentato del fallimento, 2017, 1217

[3] Cass., 4 giugno 2012, n. 8929 in www.ilfallimento.it

[4] Sulla non applicabilità della disciplina di cui all’art. 345, commi 2 e 3, c.p.c., nel giudizio di opposizione al passivo, concorda la maggioranza della dottrina: cfr., ex multis, M. Montanari, Le impugnazioni dello stato passivo, in V. Buonocore – A. Bassi, Trattato di diritto fallimentare, III, Padova, 2011, 88 ss. e 221 ss.; C. Ferri, La formazione dello stato passivo nel fallimento: procedimento di primo grado e impugnazioni, in Riv. dir. proc., 2007, 1271 ss.; G. Costantino, sub artt. 98-99, in A. Nigro – M. Sandulli – V. Santoro (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma, II, Torino, 2010, 1264 s.

[5] Cass. 25 febbraio 2011, n. 4708, in Fallimento, 2011, 1244

[6] Cass., 9 giugno 2014, n 12988: “Nei giudizi di opposizione allo stato passivo, infatti, si applica il disposto dell’art. 99 L.F. comma 2 n. 4 il quale prevede che, a pena di decadenza, il ricorso deve contenere le eccezioni processuali e di merito non rilevabili di ufficio nonché l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti.”

[7] Onere probatorio dell’opponente: decadenza in caso di mancato rispetto dei termini, ma possibile l’integrazione documentale con il deposito del ricorso (cfr. Cass., Sez. VI, 6 marzo 2017, n. 5596 in www.unijuris.it)

[8] La natura di giudicato endofallimentare del decreto di esecutorietà dello stato passivo: divieto di proporre nuove domande sia per il creditore opponente sia per il curatore (Cass., 22 marzo 2010, n. 6900, Cass., 5 marzo 2004, n. 4522 www.italgiure.it), anche se nella forma dell’erronea valutazione delle prove (cfr. Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020, n. 20867; Cass., 9 giugno 2021, n. 16016; Cass., 27 dicembre 2016, n. 27000 www.italgiure.it)

[9] Cass. 14 marzo 2017, n. 6524, in Pluris

[10] Costante è la posizione della Cassazione nel negare ingresso all’applicazione dell’art. 345 c.p.c., con conseguente riconoscimento al curatore della facoltà di proporre nuove eccezioni (cfr. Cass. 6 ottobre 2020, n. 21490; Cass. 4 dicembre 2020, n. 27902; Cass. 31 luglio 2017, n. 19003 www.italgiure.it).

[11] In dottrina sullo specifico tema si vedano i recenti contributi di: M. Montanari, Regime dei nova e testimonianza dei creditori nel giudizio di opposizione al passivo, in Fallimento, 2012, 1323; M. Del Linz, Il diritto al contraddittorio per le nuove eccezioni in senso stretto sollevate dall’organo della procedura in sede di opposizione allo stato passivo, in Dir. fall., 2014, II, 748.

[12] Cass. 22 marzo 2010, n. 6900, in Foro it., 2010, I, 1414; Trib. Milano 4 novembre 2017, n. 11065, in Pluris

[13] Cass. 19 gennaio 2017, n. 1331, in Pluris; Cass. 15 luglio 2011, n. 15702, in Foro it., 2011, I, 3000, che ha ritenuto inammissibile la richiesta effettuata dal creditore, dopo il deposito del progetto di stato passivo, di collocazione privilegiata del proprio credito originariamente preteso in via chirografaria.

[14] Cass. 20 aprile 2018, n. 9928, in Pluris.

[15] Cass. 6 novembre 2013, n. 24972, che aveva rilevato, in difetto di eccezione del curatore, la mancata prova del rapporto di lavoro subordinato; Cass. 19 settembre 2013, n. 21482, in Pluris, riguardante l’insufficienza della documentazione originariamente allegata a fondamento di un credito professionale; per l’affermazione, in generale, del principio presupposto e riferita all’appello, v.: Cass., SS.UU., 7 maggio 2013, n. 10531, in Pluris.

[16] Perlingieri, Modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, 274; contra, Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, 495.

[17] Pajardi-Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, 2008, 354; Rosapepe, in Buonocore-Bassi, Trattato di diritto fallimentare, II, Padova, 2010, 313.; Inzitari, Effetti del fallimento per i creditori, 170.

[18] Sulla compensazione ex art. 1853 c.c.: Cass., Sez. III, 4 luglio 2019, n. 17914, Cass., Sez. III, 24 luglio 2019, n. 11196; 14 febbraio 2019, n. 4313; Cass., 4 dicembre 2018, n. 31359 in www.italgiure.it.

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