Omessa informazione dell’avvenuto concepimento: condotta risarcibile?

in Giuricivile, 9, 2021 (ISSN 2532-201X), nota a Cass. civ., Sez. III, Sent. 05.05.2020, n. 8459

La terza sezione civile della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8459 del 5 maggio 2020, sulla domanda proposta per l’accertamento dello status di figlio naturale, ha affermato che l’omessa informazione dell’avvenuto concepimento da parte della donna consapevole della paternità seppur non supportata da alcun obbligo in tal senso, può estrinsecarsi  in una condotta “non iure” in quanto possa  determinare un pregiudizio all’interesse del padre naturale che voglia affermare la sua identità genitoriale, qualificabile come danno ingiusto e come tale integrante la fattispecie di cui all’art. 2043 cod. civ.

Il caso in esame

Durante il matrimonio una donna dà alla luce due figli (uno dei quali concepito prima delle nozze, nel corso del fidanzamento col futuro marito). Dopo diversi anni, il marito scopre che la moglie, sin da epoca anteriore al matrimonio, intratteneva una relazione con un altro uomo, e, all’esito del test biologico, scopre di non essere il vero padre dei figli (il maggiore dei quali ha ormai vent’anni). Dopo aver ottenuto la separazione con addebito, conviene in giudizio l’ex moglie, invocando il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dalla sua “grave violazione dei doveri coniugali”.

Il giudice ritiene integrata la fattispecie di responsabilità civile, avendo la donna leso la “dignità” dell’attore e il suo “diritto di autodeterminazione con riferimento al proprio ruolo di genitore”, mediante una condotta che lo aveva indotto “a credere di essere il padre biologico” dei figli “e ad instaurare con loro un rapporto affettivo, unico ed esclusivo quale è il rapporto che in genere si instaura tra padre e figli”. Esclusa la ricorrenza di un danno biologico (“in quanto ciò che viene in rilievo è la chiara violazione del diritto di autodeterminazione in ordine al proprio ruolo di genitore”), il danno non patrimoniale viene equitativamente quantificato in euro 150.000,00.

Questa è, in realtà, una scena da “non matrimonio”, dal momento che – per quanto è dato evincere dagli scarni cenni alla fattispecie concreta, contenuti nella sentenza di legittimità – il concepimento del figlio era avvenuto nell’ambito di una relazione estemporanea, ridottasi a “un unico incontro senza che seguisse non solo una convivenza di fatto ma neppure una relazione di tipo sentimentale” (la donna era poi convolata a nozze con un’altra persona). Dopo molti anni, il figlio aveva agito per la dichiarazione giudiziale della paternità, e il convenuto, in via riconvenzionale, aveva domandato la condanna dello stesso figlio e della madre al risarcimento dei danni conseguenti al “doloso occultamento della procreazione con conseguente ingiusta privazione per il padre del rapporto di filiazione”. Il rigetto di quest’ultima domanda, da parte del giudice d’appello, era stato motivato “avuto riguardo alla condotta del [padre] ostinatamente volta a contestare di aver intrattenuto una relazione con [la madre] e la propria paternità naturale [del figlio]”. La Cassazione conferma la pronuncia di merito, pur evidenziando l’astratta configurabilità, nel comportamento omissivo della donna, di un illecito extracontrattuale lesivo del diritto all’identità personale/genitoriale, enucleabile dagli artt. 2 e 30, comma 4, Cost. Nel caso di specie, tuttavia, non risultava acquisita alcuna evidenza “in ordine alle circostanze di fatto idonee a qualificare come riprovevole il comportamento della madre naturale”, posto che non era emerso se ella, “quando venne a constatare di essere rimasta incinta, fosse certa o invece dubitasse di chi fosse il padre del nascituro”; né era stata raggiunta la prova che il padre effettivamente ignorasse la circostanza della nascita del figlio. Sul versante del danno risarcibile, viene giudicata immune da vizi la decisione di secondo grado, nella parte in cui aveva “rilevato la mancata allegazione di indizi idonei a consentire il riconoscimento di una effettiva perdita di occasione, non essendo emersi dalla istruttoria elementi tali da presumere la ricerca e l’intenzione del padre di realizzare l’aspirazione alla genitorialità”.

Il danno endofamiliare tra coniugi

La cornice entro cui s’inscrive il ragionamento dei giudici è quella del c.d. illecito endofamiliare, che (limitando in questa sede il discorso ai rapporti tra coniugi) si verifica quando la violazione degli obblighi di cui all’art. 143 c.c. (nei casi di specie, quello di fedeltà), per le modalità con cui è perpetrata, determina la lesione di un diritto inviolabile della vittima. Elemento caratterizzante della fattispecie è, dunque, la possibilità di una concorrente qualificazione del comportamento del coniuge, oltre che quale presupposto per l’attivazione dei rimedi tipici del diritto di famiglia (artt. 129-bis, 151, comma 2, 342-ter c.c.; 709-ter c.p.c.), alla stregua di illecito civile produttivo di un danno risarcibile ex art. 2059 c.c.. Il concetto viene generalmente espresso mediante formule che pongono in evidenza l’insufficienza del non iure endofamiliare, e la necessità che ad esso si affianchi un contra jus “costituzionalmente qualificato”. Così, nella pronuncia del Tribunale di Reggio Emilia il quid pluris rispetto alla coltivazione di una relazione extraconiugale viene individuato nella “diversa e distinta situazione di nascondere al marito che la gravidanza era dovuta al rapporto con un altro uomo”; in quella del Tribunale di Perugia, nell’avere la convenuta “concepito due figli fuori dal matrimonio, l’aver avuto la consapevolezza che i figli non fossero stati concepiti con il marito e nonostante ciò [l’aver] portato avanti le gravidanze celando al marito dette circostanze (…)”.

Consacrato, nella giurisprudenza di legittimità, dalla sentenza n. 9801 del 2005[1], l’illecito endofamiliare è stato successivamente “adeguato” alla sistemazione teorica del danno non patrimoniale, risultante dalle sentenze di San Martino del 2008[2]. Cass. Civ. 15 settembre 2011, n. 18853[3], ha quindi ribadito che, per dischiudere le porte alla tutela risarcitoria, l’infedeltà deve aver determinato una lesione della salute, ovvero, per le sue modalità, “trasmodato in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell’offesa di per sé insita nella violazione dell’obbligo in questione, si siano concretizzati in atti specificamente lesivi della dignità della persona, costituente bene costituzionalmente protetto”[4]. Da ultimo, Cass. Civ. 7 marzo 2019, n. 6598[5], ha statuito che “i doveri che derivano dal matrimonio non costituiscono (…) in capo a ciascun coniuge e nei confronti dell’altro coniuge automaticamente altrettanti diritti, costituzionalmente protetti, la cui violazione è di per sé fonte di responsabilità aquiliana per il contravventore, ma la violazione di essi può rilevare, oltre che in ambito familiare, come presupposto di fatto della responsabilità aquiliana, qualora ne discenda la violazione di diritti costituzionalmente protetti, che si elevi oltre la soglia della tollerabilità e possa essere in tal modo fonte di danno non patrimoniale”. Nella costruzione fatta propria dalla Cassazione si riscontrano, invero, i presupposti di risarcibilità del “nuovo” danno non patrimoniale (lesione di un diritto inviolabile della persona costituzionalmente garantito[6], gravità dell’offesa e serietà del pregiudizio), i quali peraltro richiedono di essere adattati al contesto di riferimento.

Come noto, il concetto di inviolabilità implica l’afferenza della posizione giuridica considerata al nucleo essenziale della dignità della persona, sia dal punto di vista generale e astratto (nel senso che richiama il catalogo delle libertà fondamentali e dei diritti della personalità morale dell’individuo), sia, sotto il profilo concreto, in relazione all’intensità del coinvolgimento del diritto nella specifica vicenda giuridica in esame. Si tratta di un requisito che involge il piano dell’ingiustizia del danno, trovando il proprio terreno di coltura nel giudizio di bilanciamento tra gli interessi in conflitto. Ad esso è, in certa misura, consustanziale l’attributo della gravità, che però – secondo l’impostazione delle Sezioni unite – necessita di essere vagliato anche a valle del giudizio di bilanciamento, richiedendosi che la situazione giuridica violata venga “incisa oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio”[7]. Con riguardo al c.d. danno endofamiliare, è necessario indagare in che modo sullo schema delineato dalle Sezioni unite incida la preesistenza di una relazione coniugale (o di stabile convivenza). La peculiarità della fattispecie risiede, infatti, nella circostanza che l’illecito civile si innesta sulla violazione di obblighi reciprocamente gravanti sulle parti. Se, infatti, la lesione del diritto inviolabile risultasse perpetrata in maniera del tutto sganciata dalla suddetta violazione, in nulla la fattispecie differirebbe dall’ordinaria dinamica risarcitoria tra soggetti “estranei”[8]. Invero, il modello normativo delinea, per i coniugi, un rapporto improntato alla reciproca collaborazione, fiducia e lealtà, che colloca gli obblighi di cui all’art. 143 c.c. in un contesto eminentemente solidaristico. In un quadro siffatto, lo sviluppo della personalità individuale incontra il proprio fisiologico contraltare nell’impegno assunto per la realizzazione di un progetto di vita comune, che, in quanto tale, non deve mortificare le eguali aspirazioni di realizzazione dell’altro[9]. Il particolare atteggiarsi di questi obblighi fa sì, dunque, che essi non siano funzionalmente preordinati alla tutela delle posizioni soggettive del singolo coniuge, riguardato come “controparte” di un rapporto obbligatorio, sicché dalla loro violazione non può sic et simpliciter inferirsi la lesione di tali prerogative.

All'”antigiuridicità endofamiliare” (suscettibile di attivare una tutela, per così dire, in forma specifica, ovvero funzionale al riequilibrio, in chiave sanzionatoria, del rapporto turbato) deve aggiungersi, allora, l’ingiustizia costituzionalmente qualificata. Un’ingiustizia che può ritenersi integrata all’esito di un giudizio di bilanciamento idealmente snodantesi in due fasi progressive: la prima, funzionale a far emergere i perturbamenti del rapporto alla soglia del giuridicamente rilevante (non potendosi tener conto di quei “comportamenti di minima efficacia lesiva, suscettibili di trovare composizione all’interno della famiglia in forza di quello spirito di comprensione e tolleranza che è parte del dovere di reciproca assistenza”[10]); la seconda, preordinata alla verifica – alla stregua del canone della correttezza – del superamento del punto di rottura tra le antinomiche istanze di libera manifestazione della personalità individuale, da un lato, e della solidarietà coniugale dall’altro. La possibilità che un contegno obiettivamente posto in essere in violazione dei doveri coniugali rappresenti la libera manifestazione della personalità del coniuge rende ragione della necessità del concreto apprezzamento di una vis lesiva che, esorbitando dalla dimensione patologica tipica della dimensione familiare, si proietti verso l’aggressione dell’altrui sfera giuridica, coinvolgendone il nucleo inviolabile[11]. Il ricorso alla responsabilità rappresenta, dunque, “un modo per garantire che l’appagamento del bisogno di realizzazione come individuo, anche quando implichi la fine della comunità, avvenga nel rispetto degli altri membri, e quindi in maniera tale da non incidere, se non nei limiti di quanto è inevitabile, sull’integrità della loro sfera giuridica”[12]. Il risarcimento del danno non patrimoniale non attribuisce quindi – a ben vedere – una tutela più intensa ai diritti dei coniugi (già presidiati dai rimedi tipici del sistema giusfamiliare), ma ne garantisce l’eguale trattamento (come individui) rispetto alle lesioni “extrafamiliari”, evitando che ad essi sia riservato qualcosa in meno, in termini di tutela, per il sol fatto che vengano a trovarsi calati nella trama delle relazioni familiari.

È agevole comprendere, a questo punto, la centralità che viene ad assumere il requisito della gravità dell’offesa, non solo ai fini dell’apprezzamento delle conseguenze pregiudizievoli, ma in primis quale criterio selettivo della rilevanza aquiliana di comportamenti posti in essere in un contesto relazionale dominato dalla solidarietà e dalla tolleranza[13]. L’enfatizzazione, nell’argomentare dei giudici, della particolare riprovevolezza del contegno del coniuge (anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, essenzialmente polarizzato sul dolo o sulla colpa grave) è, infatti, sintomatica di una ricostruzione dell’illecito come necessariamente compartecipe – per la sua stessa configurabilità – di una dimensione di gravità, la quale inevitabilmente reagisce nel senso di una connotazione anche sanzionatorio-deterrente del risarcimento[14]. Vi è, peraltro, il rischio che, al di là delle declamazioni formali, la “grave” violazione degli obblighi familiari, lungi dal costituire (nient’altro che) il punto di partenza del ragionamento, finisca per far premio sul rigoroso accertamento degli interessi incisi (e dei conseguenti pregiudizi), come se recasse con sé una sorta di presunzione di esistenza del danno non patrimoniale risarcibile. Una traiettoria, questa, non dissimile, negli esiti, da quella seguita dalla teorica del danno esistenziale, nella quale la risarcibilità veniva giustificata dalla generica afferenza delle conseguenze pregiudizievoli alla dimensione personale-esistenziale della vittima, di per sé in grado di evocare (se del caso attraverso il medio logico di posizioni soggettive create alla bisogna) i valori di cui all’art. 2 Cost.. Nel caso del danno endofamiliare, il rischio di una deriva “panrisarcitoria” è legato alla sopravvalutazione, a fini risarcitori, dei pregiudizi (morali e/o dinamico-relazionali) normalmente indotti dalla rottura dell’equilibrio coniugale; pregiudizi che, in quanto afferenti all’area dei rapporti familiari, non sarebbe difficile ammantare del crisma di un diritto o valore personalistico (di sicuro rilievo costituzionale: artt. 29 e 2 Cost.), di cui postulare la lesione[15].

Il ruolo dell’omissione informativa

Una volta sinteticamente delineato il quadro generale di riferimento, si può passare ad esaminare la fattispecie con la quale si sono misurate le corti di merito nelle sentenze in epigrafe. Sotto il profilo della violazione dei doveri coniugali, entrambi i giudici mostrano di aver chiaro che a venire in rilievo non è l’adulterio in sé e per sé considerato, e neppure la conseguente gravidanza, bensì l’aver omesso di comunicare la circostanza al marito, consolidando in lui la convinzione di essere il padre (anche biologico) dei figli. Manca qualsivoglia approfondimento circa la pertinenza di tale obbligo informativo all’area dei doveri ex art. 143 c.c., ma in senso positivo sembrerebbe deporre la moderna concezione dell’obbligo di fedeltà, declinata in termini di lealtà, nella quale si fa comunemente rientrare il dovere di informare il coniuge “di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è rivolto”[16].

Non può trascurarsi di notare, peraltro, che (come meglio si vedrà appresso) entrambi gli attori avevano lamentato un danno specificamente attinente alla proiezione della propria personalità nella dimensione della relazione padre-figlio; un danno, cioè, che non rappresenta diretta concretizzazione della violazione dell’obbligo considerato, nel rapporto tra i soggetti che ne sono parte (ovvero i coniugi)[17]. In effetti, in un caso analogo, nel quale la (ex) moglie aveva eccepito la liceità della propria condotta, in quanto la relazione extraconiugale era sempre rimasta incognita, “non avendo concretamente leso la dignità del coniuge”, il Tribunale di Arezzo[18] aveva affermato che, “sebbene tale osservazione si riveli potenzialmente ostativa alla configurabilità del danno derivante dalla stretta violazione dell’obbligo coniugale di fedeltà, non appare altrettanto idonea ad escludere la configurabilità del pregiudizio legato al silenzio circa il difetto di paternità in capo all’attore” (non chiarendo, peraltro, esplicitamente, se si tratti di obbligo distinto da quello di fedeltà)[19]. Resta da vedere, quindi, se il concetto di fedeltà possa essere dilatato, in funzione di protezione dell’identità personale del coniuge, e segnatamente delle prerogative, facenti capo a quest’ultima, che intersecano l’ambito dei rapporti familiari (intesi in senso ampio, e dunque non limitati a quello fra coniugi). La soluzione positiva è stata (condivisibilmente) sostenuta dal Tribunale di Bologna[20], che, nel caso di un uomo il quale era stato indotto dalla convivente more uxorio a riconoscere come proprio il figlio nato, invece, da una relazione con un altro uomo (circostanza che l’attore aveva scoperto sette anni dopo), muove dall’assunto che “la violazione di doveri di lealtà e correttezza tra conviventi nei suoi riflessi sulla libertà di autodeterminazione e sulla assunzione di responsabilità genitoriale può provocare un danno ingiusto”.

Se, nel contesto di una relazione matrimoniale (o di stabile convivenza more uxorio, o di fidanzamento prodromico alle nozze) è possibile ricollegare il dovere di comunicare la verità all’obbligo di lealtà (moderna declinazione della fedeltà di cui all’art. 143 c.c.), bisogna chiedersi quale sia la fonte dell’illecito nell’ambito di una relazione de facto precaria, siccome non caratterizzata da stabile convivenza (e neppure da progetti matrimoniali); ovvero in assenza di qualsivoglia relazione degna di questo nome (come nel caso affrontato dalla sentenza di legittimità in epigrafe).

Con riguardo al primo caso, il Tribunale di Firenze[21] ha qualificato come illecito, ai sensi dell’art. 2043 c.c., il comportamento della madre che, quindici mesi dopo la nascita della figlia, aveva rivelato all’ex fidanzato che non era sua, successivamente impugnando il riconoscimento da questi effettuato. Nell’impossibilità di richiamare gli obblighi ex art. 143 c.c., l’omissione imputabile alla donna viene innestata sull’obbligo di corretta informazione discendente dal fatto stesso della filiazione, che farebbe scattare “il generale precetto del neminem laedere“, in conseguenza della “messa in pericolo” dei diritti fondamentali del terzo, indotto a fare affidamento su una situazione non corrispondente alla realtà. Pur precisando che “non si tratta di responsabilità da contatto sociale” – dal momento che la convenuta “non ricopre una peculiare posizione di garanzia e/o di controllo” nei confronti dell’attore, il giudice parla di “specifica relazione qualificata dal fatto che dalla loro relazione fosse nata – non solo nella percezione del sig. N.R. ma anche dall’accettazione del riconoscimento da esso operato – una figlia”[22].

Per quel che riguarda, invece, il caso giunto all’attenzione della Terza Sezione nella sentenza Cass. Civ. n. 8459/2020, esso (come la stessa Corte ha cura di sottolineare) “diverge nettamente” da quelli sopra esaminati, dal momento che “la condotta omissiva informativa della donna gravida non si inscrive (…) nella violazione di obblighi derivanti da un rapporto giuridico precostituito tra le parti”. Il ragionamento viene condotto, quindi, nella logica extracontrattuale pura, ipotizzando che l’omissione in discorso possa tradursi in una condotta non jure, “pure in assenza di una specifica prescrizione normativa impositiva di tale obbligo di condotta”.

Orbene, la responsabilità omissiva presuppone, per sua stessa natura, la preesistenza di un obbligo giuridico di evitare l’evento dannoso; senonché l’orientamento della giurisprudenza di legittimità è andato evolvendosi nel senso che tale obbligo può derivare non solo “da una norma ovvero da uno specifico rapporto negoziale o di altra natura intercorrente tra il titolare dell’interesse leso e il soggetto chiamato a rispondere della lesione”, ma anche “in base a principi desumibili dall’ordinamento positivo, non espresso, quindi, in forme specifiche, con conseguente dovere di agire e di comportamento attivo”[23].

Nel caso di specie, si potrebbe affermare che, in capo alla madre che sia (o possa agevolmente venire) a conoscenza della paternità biologica del figlio partorito, sorga, in virtù del generale principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., un dovere di comunicazione funzionale alla tutela del diritto all’identità personale del padre. In questa ricostruzione si scorge, tuttavia, un elemento distonico, che sta nell’incidentale, usata dalla Corte, per cui l’omissione potrebbe tradursi in una condotta non jure “ove non risulti giustificata da un oggettivo apprezzabile interesse del nascituro”. Tale affermazione è la spia che, in realtà, l'”obbligo” di comunicare al padre la circostanza della nascita del figlio riposa su una finalità di prioritaria tutela dell’interesse di quest’ultimo; interesse che rappresenta il “controlimite” alla possibilità di tenere in considerazione le aspirazioni genitoriali di colui che contribuì all’estemporaneo concepimento (aspirazioni – si noti – del tutto eventuali e neppure conosciute dalla madre, che, nell’ipotesi qui in esame, con lui non ebbe mai ad intrattenere una relazione che andasse oltre l’episodico atto sessuale). Cosa accadrebbe, allora, se il concepimento fosse frutto di una violenza carnale? La madre dovrebbe forse andare alla ricerca dello stupratore per garantirgli la possibilità di sviluppare la propria identità personale nel rapporto con il figlio? Qui a far premio potrebbe essere l’interesse del minore di non venire a conoscenza delle circostanze del concepimento (interesse che potrebbe impedire il riconoscimento ex art. 250, comma 4, c.c.[24]). Senza dire che, ove il figlio fosse nato durante il matrimonio della madre con un terzo (e risultasse, pertanto, figlio di costui, ai sensi dell’art. 231 c.c.), ritenere che la madre sia comunque tenuta a comunicare la circostanza al padre biologico significherebbe postulare l’indefettibile conformità all’interesse del nascituro di un perturbamento dello status quo, in contrasto – tra l’altro – con l’impossibilità del riconoscimento da parte del suddetto padre biologico (ai sensi dell’art. 253 c.c.). In definitiva, la madre (la quale – non lo si dimentichi -, ricorrendone i presupposti, potrebbe in ipotesi interrompere la gravidanza nonostante qualsiasi opposizione del padre) si troverebbe a dover effettuare un bilanciamento tra l’interesse (e, in definitiva, il diritto all’identità personale) del nascituro e il diritto all’identità personale di un padre con il quale nulla ha condiviso e del quale nulla sa (e che, a sua volta, potrebbe non aver fatto alcunché per accertarsi della possibile gravidanza conseguente all’atto sessuale). Con la conseguenza che la rilevanza giuridica – in senso aquiliano – della sua omissione potrebbe essere apprezzata solo ex post dal giudice investito della domanda risarcitoria.

Ad ogni modo, si può convenire – in linea di massima – che, al di là di questi casi limite, la rinnovata centralità del rapporto di filiazione nell’ambito delle relazioni familiari, di cui alla riforma del 2012, non può non tradursi nella reciproca “responsabilizzazione” dei genitori, al fine di favorire la costituzione di un rapporto con il figlio che “vede gli stessi genitori congiuntamente coinvolti in una responsabilità nei suoi confronti che si basa esclusivamente sulla generazione e prescinde totalmente dalla tipologia di unione che li lega, dalla sua stabilità e dalla creazione di unioni nuove”[25]. Resta il fatto che l’orizzonte entro il quale tale “obbligo” si situa è pur sempre quello dell’interesse del minore, e quest’ultimo ben potrebbe non coincidere con quello allo sviluppo della propria identità personale del padre biologico.

L’ingiustizia del danno e la lesione del diritto inviolabile del padre

Venendo a trattare dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, nella sentenza del Tribunale di Reggio Emilia il punto rimane assorbito dalla “ragione più liquida” rappresentata dalla mancata prova dell’elemento soggettivo, sicché nella motivazione resta traccia solo della generica prospettazione dell’attore di un “comportamento violativo di un [non meglio precisato, N.d.A.] diritto fondamentale della persona”. Nella pronuncia perugina, invece, si fa riferimento alla lesione della dignità e del “diritto di autodeterminazione con riferimento al proprio ruolo di genitore”[26]. In un altro precedente di merito[27], si parla di “diritto a realizzare la genitorialità”, “diritto alla formazione della famiglia con propri figli, inteso quale espressione della libertà di autodeterminarsi ex artt. 2, 3 e 31 Cost., con riflessi anche sul diritto alla salute, comprensivo della salute psichica, ex art. 32 Cost.”. Nella sentenza della Cassazione, come s’è visto, al centro dell’attenzione viene posto il diritto all’identità personale “ancorato all’art. 2 e all’art. 30, comma 4, Cost.”.

Ebbene, quanto alla dignità personale, essa non costituisce un’autonoma posizione soggettiva, ma rappresenta il valore fondante dell’intera categoria dei diritti riconducibili all’art. 2 Cost., attorno al quale si raccorda il concetto stesso di inviolabilità, intesa come valutazione di immanenza al nucleo primario ed essenziale dell’individuo[28]. Un principio che opera in funzione di chiusura del sistema, e che, dunque, appare impropriamente evocato come valore di per sé in grado di fondare l’ingiustizia del danno non patrimoniale, allorquando siano individuabili specifici diritti della persona involti dall’illecito (come appunto, per restare al caso in esame, il diritto alla salute, alla reputazione, all’identità personale, all’autodeterminazione). Il rischio è, allora, di stemperare, nel generico riferimento alla dignità, il rigoroso accertamento della (grave) lesione di uno specifico diritto inviolabile, spostando il baricentro dell’illecito sulle modalità del contegno non jure tenuto dal danneggiante (con tutto ciò che ne consegue in termini di accentuazione della componente sanzionatorio-deterrente del rimedio aquiliano).

Quanto al diritto all’autodeterminazione, esso, per quanto autonomo, è ontologicamente strumentale al consapevole esercizio di opzioni che incidono su altri diritti. È evidente, quindi, che la qualità di diritto inviolabile gli compete in ragione del rango della prerogativa soggettiva cui è collegato. Nell’ambito della responsabilità sanitaria, per esempio, il diritto di autodeterminazione si traduce nella libertà di prendere decisioni consapevoli in ordine ai trattamenti sanitari che incidono sulla propria salute, integrando il consenso informato legittimazione e fondamento dell’atto medico[29]. Nelle fattispecie che si stanno esaminando, il termine “autodeterminazione” si deve intendere, allora, come interfaccia di quel particolare aspetto del diritto all’identità personale che si esprime nell’instaurazione di una relazione padre/figlio; aspetto che si inserisce armonicamente nel tessuto dei rapporti familiari determinato dal pregresso matrimonio (o dalla stabile convivenza), e che invece acquisisce una connotazione eminentemente individualistica (fatte salve le interferenze con l’interesse del minore, di cui s’è detto), ove riferito al “padre casuale” di cui alla sentenza di legittimità Cass. Civ. n. 8459/2020.

L’elemento soggettivo

Si è già anticipato come, per la configurabilità dell’illecito in questione, è necessario che la donna conosca (ovvero sia in grado di conoscere, usando l’ordinaria diligenza) l’identità del padre del bambino che partorisce. Proprio intorno a questo elemento ruota il rigetto della domanda da parte del Tribunale di Reggio Emilia, che, a fronte della deduzione della propria ignoranza, da parte della convenuta, circa la non riconducibilità al marito della gravidanza, rileva che, benché “onerato di tale onere probatorio ex art. 2697 c.c., l’attore non ha fornito alcun elemento che possa far ritenere provato, o quantomeno lumeggiato da un principio di prova, l’esistenza in capo alla convenuta di tale consapevolezza”. Nella sentenza perugina viene ascritto, invece, a colpa grave della madre l’aver intrattenuto per molti anni (sin da epoca anteriore al matrimonio) una relazione extraconiugale, senza farsi sfiorare dall’idea che i figli potessero essere stati concepiti fuori dal matrimonio.

Per escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo, è necessario sussistano, dunque, obiettive circostanze idonee a indurre nella donna la ragionevole certezza che padre del neonato sia il marito. Per contro, la colpa può scattare anche al cospetto del semplice dubbio, se non seguito dagli accertamenti necessari a dissiparlo. Di fatto, sembra essere sufficiente la circostanza che, nel periodo del concepimento, la donna avesse avuto rapporti sessuali con una persona diversa dal marito (secondo il Tribunale di Torino[30], anche se si sia trattato di rapporti protetti, essendosi al cospetto di una possibilità “anche se remota, ma comunque sussistente”)[31]. In Trib. Firenze 2 febbraio 2015, la madre aveva promosso un giudizio di impugnazione del riconoscimento precedentemente effettuato dal marito (ai sensi dell’art. 263 c.c.), una volta resasi conto della somiglianza della figlia con il padre biologico: tale circostanza è stata dal tribunale ritenuta idonea a escludere il dolo, ma non la colpa della donna, comunque ben consapevole di aver intrattenuto una relazione con altro uomo nel periodo del concepimento[32].

Evidentemente diverso lo scenario giunto all’esame della Cassazione: qui la madre, una volta accortasi della gravidanza, potrebbe financo non sapere dove rintracciare il padre per comunicarglielo. La prova dell’elemento soggettivo, quindi, passa attraverso la dimostrazione delle circostanze di fatto che, contestualizzando i contatti tra le parti, consentano di ritenere che la madre avesse la concreta possibilità di metterlo a parte della notizia. E infatti, nella sentenza in commento si mette in luce la carenza probatoria, non solo circa il fatto se la madre “quando venne a constatare di essere rimasta incinta fosse certa o invece dubitasse di chi fosse il padre del nascituro e se in quello stesso periodo si [fosse] o meno intrattenuta con altri uomini”, ma anche “circa l’insorgenza e la durata dei rapporti sentimentali o meno” con la donna, “né in ordine al luogo ed al tempo in cui i due ebbero una relazione, se abbiano convissuto o meno, le ragioni che portarono all’allontanamento dei due partners; se vi siano stati o meno successivi contatti tra i due”.

Resta da indagare il ruolo che può rivestire l’atteggiamento soggettivo del marito. Se questi ha elementi per dubitare di essere il padre del figlio concepito dalla moglie, è tenuto, a sua volta, ad attivarsi per scoprire la verità? E, se non lo fa, la responsabilità della moglie può essere esclusa o ridotta ex art. 1227 c.c.? L’ipotesi è quella in cui il marito abbia motivo di sospettare di non essere co-autore del concepimento (perché, per esempio, nel periodo in cui questo è avvenuto, non ha intrattenuto rapporti sessuali con la moglie, o comunque è venuto a conoscenza della relazione extraconiugale della moglie); ovvero, in caso di rapporto estemporaneo, quella in cui egli abbia concreti elementi, in primo luogo per accorgersi della gravidanza della donna, e in secondo luogo per sospettare di potervi essere implicato.

Nell’altra tipologia classica di danno endofamiliare (quello richiesto dal figlio, a seguito dell’accertamento della paternità naturale, per la mancanza dell’apporto affettivo ed educativo del padre), la Corte di cassazione ha escluso “il concorso colposo nella produzione del danno, ex art. 1227 c. c., in ipotesi di inerzia dei figli in ordine al momento prescelto per l’iniziativa giudiziale, in quanto liberamente e legittimamente determinabile da parte dei titolari del diritto, oltre che del tutto ininfluente rispetto alla configurazione e determinazione del danno non patrimoniale riconosciuto”[33]. A far premio, in questo caso, è, da un lato, la circostanza che il danno si produce, per il figlio, sin dal momento della nascita, e dall’altro che la legge gli consente di agire per la dichiarazione giudiziale di paternità senza limiti di tempo (art. 270, comma 1, c.c.).

Nel danno endofamiliare conseguente all’ignoranza circa la reale paternità biologica del figlio, invece, se – come detto – l’evento lesivo è dato dalla omissione informativa imputabile alla donna, la possibilità di (autonoma) conoscenza da parte dell’attore sembra effettivamente rivestire il ruolo di concausa, secondo lo schema del primo comma dell’art. 1227 c.c. Non si può negare, infatti, che il padre il quale, avendone gli elementi, non indaga se il figlio registrato all’anagrafe come suo lo sia effettivamente dal punto di vista biologico (o, nell’altra fattispecie, non si accerti che il – sia pur occasionale – rapporto con la partner sia esitato in una gravidanza) contribuisce a creare il pregiudizio discendente dall’impossibilità di determinarsi nelle proprie scelte genitoriali, sulla base di una corretta rappresentazione della realtà. Questa impostazione sembra emergere fra le righe della sentenza di legittimità in epigrafe, laddove afferma che “la mancata dimostrazione della pregressa comunicazione al [padre] della nascita del figlio (…) non si converte per ciò stesso nella prova opposta (…) del fatto negativo della omessa conoscenza, la cui dimostrazione è invece richiesta a fondamento della distinta domanda risarcitoria, proposta dal padre]”. Dunque, non solo il giudice potrebbe valutare d’ufficio la conoscenza (o conoscibilità) del fatto da parte del padre, in funzione escludente della responsabilità della madre (secondo lo schema dell’art. 1227, comma 1, c.c.[34]), ma addirittura la mancata conoscenza rappresenterebbe un elemento costitutivo della domanda risarcitoria, la cui mancata dimostrazione ne precluderebbe in radice l’accoglimento (indipendentemente – si deve ritenere – dall’indagine circa il comportamento della donna).

Il risarcimento del danno e il rapporto con le azioni di stato

Come tutti i pregiudizi non patrimoniali, quello in discorso, lungi dall’essere un danno in re ipsa (automaticamente discendente, cioè, dalla lesione dell’interesse inviolabile del danneggiato), è dato dalle conseguenze che si determinano nella sfera soggettiva della vittima, nella duplice dimensione emotiva interiore e dinamico-relazionale: conseguenze che devono essere ritualmente allegate e provate in giudizio[35]. In mancanza di un danno biologico in senso stretto (per il quale, grazie all’apporto della scienza medico-legale, è possibile convertire il dato descrittivo della patologia in un valore cardinale convenzionale, espresso dalla percentuale di invalidità), l’accertamento del danno si gioverà principalmente della prova presuntiva, venendo desunta l’entità del pregiudizio dal tipo e dall’intensità dell’offesa, in rapporto alle condizioni soggettive del danneggiato. Ove connotato da dolo o colpa grave, il comportamento del danneggiante acquisterà, a sua volta, rilevanza in una (concorrente) ottica individual-deterrente.

Per il padre “legittimo” che si scopra non essere padre biologico appare sicuramente configurabile un danno morale, inteso come turbamento interiore legato allo sgomento, all’angoscia, all’inquietudine inevitabilmente conseguenti alla presa di coscienza di avere costruito il rapporto col figlio sulla base del falso convincimento circa la sua paternità (anche) biologica. Posto dinanzi a questa dolorosa scissione tra realtà e apparenza (se si vuole, tra forma e sostanza), il marito ingannato potrebbe volere troncare ogni rapporto con colui che pure – ad ogni effetto di legge – appare suo figlio; oppure, al contrario, insistere nel coltivare una relazione rivelatasi per lui appagante. La prima strada era stata seguita dall’attore della causa decisa dal Tribunale di Reggio Emilia, il quale, allo scopo di riallineare le risultanze formali alla sostanza delle cose, prima di agire per il risarcimento del danno aveva proposto una domanda di disconoscimento della paternità, conclusasi però – come già anticipato – con una declaratoria di inammissibilità per intervenuta decadenza. La consulenza tecnica con esame del DNA, svolta in quella causa, era stata quindi utilizzata quale “prova atipica” a supporto della successiva domanda risarcitoria, la quale – a ragione – non è stata ritenuta preclusa in virtù di un rapporto di pregiudizialità-dipendenza rispetto all’azione di stato[36]. A venire in rilievo, nel giudizio risarcitorio, sono, infatti, i pregiudizi di fatto occorsi al marito, a prescindere dalla “cristallizzazione” del suo status formale di padre, che anzi può contribuire ad acuirli, esacerbando il contrasto tra la permanenza degli obblighi genitoriali e l’intimo desiderio di sciogliersene, in ossequio a un fondamentale canone di verità (almeno fino a quando non sia il figlio stesso, eventualmente, ad agire per il disconoscimento)[37].

Pur non costituendo condizione essenziale per domandare il risarcimento del danno, la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità potrà nondimeno rilevare quale elemento presuntivo per l’accertamento del danno (dinamico-relazionale, ma anche morale in senso stretto) lamentato dall’attore. Nella logica “controfattuale” tipica del giudizio di causalità giuridica, infatti, bisogna domandarsi cosa sarebbe accaduto se il marito tradito avesse tempestivamente saputo che quello partorito dalla moglie non era suo figlio. La quantificazione (e, in limine, la stessa sussistenza) del danno non può che passare attraverso la dimostrazione che, in tale evenienza, l’attore avrebbe preferito non instaurare alcun rapporto con chi era risultato non essere “sangue del suo sangue”. Per vero, anche l’allegazione di uno scenario di questo tipo sembra in certa misura incompatibile con la configurabilità di un danno, per lo meno tutte le volte in cui sia possibile dimostrare che, fino al disvelamento della verità, il rapporto si fosse felicemente dipanato negli stetti termini di quello tra un padre e un figlio “veri”. La sempre maggiore attenzione riservata dall’ordinamento alle relazioni affettive “di fatto” non consente, infatti, di scorgere sostanziali differenze tra il genitore c.d. “sociale” (vale a dire il convivente more uxorio della madre) e il genitore “formale”, per il sol fatto che costui, a differenza del primo, abbia intessuto il medesimo rapporto interpersonale sulla base di un’erronea convinzione circa la sua reale paternità. Un rapporto che – quale che ne fosse la ragione – sia stato sereno e arricchente per il padre, non può diventare un fattore penalizzante per la sua personalità in virtù della scoperta ex post del presupposto fallace su cui era fondato.

Discorso diverso deve farsi, naturalmente, per il (danno) futuro. In questo caso, appare verosimile che la scoperta fatta dal marito modifichi in pejus il rapporto con il figlio (incidendo negativamente, più in generale, su tutto il coacervo delle relazioni familiari), di modo che il danno indotto dalla radicale “riconsiderazione” del proprio ruolo genitoriale è di più agevole individuazione. Ecco, quindi, che la proposizione dell’azione ex art. 243-bis c.c. può rivestire funzione “indiziaria”, quale spia della netta “discontinuità” che il padre intende imprimere al modo di rapportarsi al figlio. La conclusione, tuttavia, non è obbligata, sì che potrebbero darsi casi in cui il padre, nonostante il “colpo di scena”, intenda tener fede al suo ruolo, per come costruito nel corso del tempo. In una sentenza del Tribunale di Torino[38], per esempio, l’attore non aveva promosso il giudizio di disconoscimento della paternità, dichiarando anzi espressamente di avere intenzione di coltivare nel futuro il rapporto con la figlia. Il pregiudizio non sta, allora, nell’avere intessuto un legame che mai si sarebbe voluto instaurare, ma nel non aver potuto scegliere di coltivarlo sulla base di una veritiera rappresentazione della realtà, dunque in piena consapevolezza. Volendo tracciare un parallelo con la responsabilità sanitaria, siamo al cospetto di un danno da lesione del diritto di autodeterminazione “puro”, senza alcun riflesso sull’altro diritto (lì la salute, qui il diritto allo sviluppo del rapporto familiare col figlio), rispetto al cui esercizio la scelta consapevole era preordinata. Correttamente, pertanto, il Tribunale di Torino, nel caso menzionato, ha risarcito (unicamente) la “sofferenza patita a causa della notizia appresa”, e per l’incertezza circa la reazione che la bambina avrebbe potuto avere, allorquando fosse stata informata della realtà: in sostanza, un danno essenzialmente “morale”. La risarcibilità del danno dinamico-relazionale avrebbe richiesto, infatti, la dimostrazione che, ove tempestivamente informato, l’attore non avrebbe riconosciuto la figlia e si sarebbe astenuto dall’instaurare qualsivoglia rapporto con lei.

Da una prospettiva analoga (ma, in certo senso, speculare) dev’essere esaminato, invece, il danno invocato nella sentenza della Cassazione n. 8459. In questo caso era stato il figlio ad agire per la dichiarazione giudiziale di paternità, mentre il convenuto (successivamente deceduto nel corso del processo) “aveva sempre ostinatamente negato qualsiasi possibilità di una sua paternità rispetto [all’attore], avendo costantemente negato di avere avuto rapporti intimi con [la madre]”. Il pregiudizio sul quale la Cassazione era chiamata a pronunciarsi era, allora, circoscritto “all’effetto pregiudizievole conseguente al ‘ritardato’ accertamento dello status di figlio, avendo assunto [il padre] di non avere avuto la occasione di potere godere nel tempo anteriore della relazione affettiva e di esercitare i compiti genitoriali”[39]. Dunque, mentre nei casi giunti all’attenzione delle corti di merito la prova del danno richiedeva la dimostrazione della mancata instaurazione del rapporto, qui – all’opposto – per vedersi accogliere la domanda il padre avrebbe dovuto convincere il giudice che, se avesse saputo per tempo di avere un figlio, lo avrebbe trattato come tale, cogliendo nel rapporto con lui un’opportunità di sviluppo della propria personalità individuale. Al di là dell’improvvida qualificazione di tale pregiudizio come “danno da perdita di chances[40]– della quale si coglie l’eco nel riferimento alla (necessità di dimostrare la) “effettiva consistenza dell’occasione perduta” -, la Corte mostra di condividere il ragionamento del giudice d’appello, il quale non solo non aveva ritenuto fossero emersi “elementi tali da presumere la ricerca e l’intenzione del [padre] di realizzare l’aspirazione alla genitorialità”, ma anzi ne aveva rilevato di contrari, segnatamente nell’atteggiamento processuale del ricorrente, “contestativo del riconoscimento del figlio naturale” (persino dopo l’esperimento della c.t.u. tecnica). È chiaro, infatti, che, a fronte dell’iniziativa presa dal figlio per farne dichiarare la paternità, intrinsecamente contraddittorio si mostrava il contegno di colui che si opponeva alla (definitiva) consacrazione di un rapporto, del cui mancato godimento contemporaneamente si doleva per il passato. Dalla sentenza emerge che la madre si era successivamente sposata con altro uomo (il quale – si deve ritenere – non aveva riconosciuto il figlio della moglie). Se la nascita fosse avvenuta, invece, in costanza di matrimonio (con un terzo), il padre si sarebbe potuto trovare in posizione esattamente speculare a quella degli attori delle cause di Reggio Emilia e Perugia. Pertanto, la madre che, da un lato, non avesse comunicato al padre biologico che aveva concepito un figlio con lui, e dall’altro non avesse detto al marito di non avere concepito con lui (bensì con altro uomo) il figlio che egli credeva suo, si sarebbe potuta trovare esposta a una duplice domanda risarcitoria, con conseguente necessità di valutare (ai fini della prova presuntiva del danno), le iniziative eventualmente poste in essere dai due padri in ordine allo status filiationis[41].

La liquidazione del danno

Il pregiudizio di cui si discute – lo si è già anticipato – può atteggiarsi, in concreto, in guisa di sofferenza interiore (danno morale), ovvero di contrazione delle abitudini e delle attività afferenti alla sfera dinamico-relazionale dell’individuo (se si vuole, descrittivamente, danno “esistenziale”). Non è escluso, naturalmente, che il turbamento psichico indotto dalla notizia della insussistenza della paternità “presunta” (o, a seconda dei casi, della sussistenza di quella ignorata) sfoci in una compromissione dell’integrità psico-fisica nosograficamente accertabile, vale a dire in un danno biologico in senso proprio. In quest’ultimo caso, la liquidazione del danno si gioverà, quale criterio trainante, del parametro tabellare del punto variabile, il quale, oltre a un valore monetario standard idoneo a riflettere le conseguenze pregiudizievoli normalmente discendenti da una determinata percentuale di invalidità (in un soggetto avente una determinata età), contempla percentuali di incremento per la c.d. personalizzazione del risarcimento, al cospetto di profili di compromissione speciali e ulteriori, legati alle peculiarità del caso concreto[42]. D’altra parte, non si può trascurare di osservare che il criterio tabellare (nonostante la personalizzazione) potrebbe rivelarsi, nel caso concreto, insoddisfacente nonostante la personalizzazione, tenuto conto delle particolari caratteristiche del pregiudizio in discorso, connesso a valori personalistici fondamentali, che connotano il modo d’essere della dignità della persona nell’essenza dei suoi rapporti più intimi e qualificanti. In tale evenienza, la natura eminentemente equitativa della liquidazione consentirà al giudice di superare i suddetti importi, ferma restando la necessità di dar conto, nella motivazione, degli elementi concretamente presi in considerazione, con riferimento a quegli indici ricorrenti in grado di orientarlo nella valutazione dell’effettiva incidenza del pregiudizio nella sfera esistenziale della vittima (tipologia dell’interesse leso, gravità dell’offesa, condizioni soggettive della vittima)[43].

La stessa metodologia deve – a maggior ragione – orientare la liquidazione equitativa in assenza di danno biologico. Con riguardo al contesto dei rapporti coniugali (o di convivenza), bisogna ancora una volta ribadire la necessità di concentrare l’esame sul contegno omissivo relativo all’informazione circa la paternità del figlio, concettualmente autonomo rispetto alla violazione dell’obbligo di fedeltà che ne è alla base. Potranno incidere, allora, le modalità del fatto e l’atteggiamento soggettivo della moglie, essendo ben più grave il comportamento di colei che, ad esempio, dopo aver voluto un figlio dal proprio amante, abbia lucidamente ingannato il marito, rispetto a quello di chi, di fronte a una situazione obiettivamente incerta, abbia imprudentemente coltivato la “certezza” che il figlio fosse stato concepito col marito, per non rovinare il rapporto con lui. Sul versante del danneggiato, potranno essere presi in considerazione la durata del matrimonio (o della relazione); il peso che il desiderio di paternità rivestiva nel menage familiare; l’impatto che la nascita abbia avuto sulla vita (personale e relazionale) del marito; la presenza di altri figli nati nel matrimonio; il tempo trascorso dalla nascita alla scoperta di non essere il padre biologico del figlio; l’intensità e l’eventuale affievolimento del rapporto con quest’ultimo, prima di tale momento; la reazione del figlio, cui la verità sia stata pure comunicata; la successiva evoluzione del rapporto, nel senso dell’interruzione (con eventuale proposizione dell’azione di disconoscimento), ovvero della “ri-programmazione” in funzione della sua conservazione.

Per quel che riguarda, invece, l’ignaro padre biologico, una qualche rilevanza (benché sicuramente minore) rivestiranno pur sempre le caratteristiche (e la durata) della relazione (per quanto estemporanea) con la madre, che ha dato occasione al concepimento. Importanza centrale avranno, poi, sicuramente tutti quegli indici della personalità del soggetto (educazione, religiosità, stile di vita, esperienza con altri eventuali figli), dai quali sia possibile desumere presuntivamente che, alla notizia di avere un figlio, egli si sarebbe determinato a costruire un rapporto con lui, organizzando di conseguenza la propria vita. Un importante banco di prova sarà costituito dalla verifica dell’atteggiamento successivo all’acquisizione della notizia, se improntato a sostanziale disinteresse ovvero alla ricerca di un contatto e all’instaurazione di un rapporto (se del caso, anche attraverso la proposizione dell’azione di riconoscimento).

Infine, sul piano della traduzione in valori monetari del pregiudizio, dev’essere considerata con cautela la soluzione (applicata dalla giurisprudenza, per vero, soprattutto per i casi di violazione degli obblighi genitoriali nei confronti dei figli) dell’applicazione – sia pure con gli opportuni adattamenti – delle tabelle milanesi per il danno da perdita del congiunto. Esistono, infatti, differenze sostanziali tra il definitivo annichilimento del rapporto familiare, in conseguenza dell’illecito di un terzo, e il tipo di pregiudizio che viene in questione nelle fattispecie in esame, in primis per l’assenza del carattere dell’irreparabilità. Il marito che viene a sapere di non essere padre biologico del figlio nato in costanza di matrimonio, non necessariamente lo perde; il soggetto che viene a sapere di avere generato un figlio con una donna cui non è mai stato legato, potrebbe ancora avere occasione di costituire con lui un rapporto. Per il passato, a neutralizzare l’ipotetico danno vale l’inconsapevolezza (che, per il primo dei due casi, consente anzi al marito di guadagnare un rapporto del quale, forse, si sarebbe privato), sicché il pensiero di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato incide – a ben vedere – sul grado di afflizione interiore con cui il danneggiato si troverà a convivere nel periodo successivo all’apprendimento della verità.

In mancanza di parametri più precisi, per scongiurare la “anarchia risarcitoria”[44] non resta, peraltro, che affidarsi all’esame ponderato dei precedenti giurisprudenziali relativi a fattispecie analoghe, che consenta di valorizzare, da un lato, gli elementi ricorrenti in funzione di una tendenziale omogeneità liquidativa di base, e dall’altro le specificità proprie del caso di specie, ai fini dell’adattamento del risarcimento alla concreta realtà di riferimento[45].


[1] Cass. Civ. 10 maggio 2005, n. 9801, in Foro.it, 2005, 365, con nota di Facci, L’illecito endofamiliare al vaglio della Cassazione.

[2] Cass. Civ., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26972; Cass. Civ., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26973; Cass. Civ., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26974 e Cass. Civ., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26975, in Foro it., 2009, I, 120, con note di Palmieri – Pardolesi – Simone – Ponzanelli – Navarretta, e in Foro.it, 2009, 113, con nota di Facci.

[3] In Foro.it, 2012, 251, con nota di Facci.

[4] Cass. Civ. 17 gennaio 2012, n. 610, in Foro.it, 2012, 254, con nota di Facci e Cass. Civ. 1° giugno 2012, n. 8862, in Foro.it, 2013, 123, con nota di Facci.

[5] In Foro.it, 2019, 532 e in Foro it., 2019, I, 1581, con nota di C. Bona. Si veda anche Cass. Civ. 6 agosto 2020, n. 16740, in CED, 2020.

[6] A questo criterio di tipizzazione si aggiunge, secondo le regole generali, quello del reato, la cui (astratta) ricorrenza nel comportamento del coniuge rende sempre risarcibile il conseguente danno non patrimoniale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.

[7] Sono parole delle sentenze di San Martino del 2008. Afferma, al riguardo, Navarretta, Diritti inviolabili e responsabilità civile, in Enc. dir., Ann., VII, Milano, 2013, 361: “la nozione di inviolabilità si traduce in un accertamento che l’offesa alla persona presenti un rilievo sufficiente ad invocare la concreta essenza del valore insito nel diritto, ossia l’inviolabilità orizzontale, legata al dictum di una tutela rafforzata, il che certamente non si riscontra per offese bagatellari, schermabili dietro la definizione astratta dell’ampio contenuto dei diritti ma in concreto inidonee a coinvolgere l’essenza del loro valore”.

[8] Si pensi a un incidente automobilistico in cui un coniuge investa l’altro, ovvero a una diffamazione a mezzo stampa, perpetrata da un giornalista nei confronti del proprio coniuge. Ma non sembra allontanarsi troppo da questo schema neppure la fattispecie esaminata da Trib. Venezia 3 luglio 2006, in Fam. pers. succ., 2007, 85, riguardante il caso di un marito che, sorpreso dalla moglie in compagnia dell’amante, l’aveva aggredita, procurandole lesioni personali. La lesione del diritto alla salute polarizza, infatti, su di sé l’ingiustizia costituzionalmente qualificata, relegando sullo sfondo la violazione del dovere di fedeltà (che, al più, potrà incidere in termini di personalizzazione del risarcimento).

[9] Favilli, La responsabilità adeguata alla famiglia, Torino, 2015, 387, che “l’adempimento del dovere, d’altro canto, non è strumentale alla realizzazione dell’altrui diritto, ma è diretto a soddisfare al contempo l’interesse proprio (allo svolgimento della personalità) e quello comune (favorire o non ostacolare lo svolgimento della personalità altrui), in prospettiva ‘solidaristica’ anziché ‘conflittuale'”.

[10] Sono parole di Cass. Civ. 10 maggio 2005, n. 9801, cit.

[11] Afferma Favilli, Infedeltà coniugale e lesione di diritti inviolabili, in Nuova giur. civ. comm., 2012, 1085, che “I filtri selettivi della serietà della lesione e della gravità del danno impongono la tolleranza, laddove non è più in grado di operare spontaneamente, e permettono di tracciare un confine tra le conseguenze meritevoli di tutela risarcitoria e le implicazioni negative che restano affidate a rimedi distinti interni al diritto di famiglia”.

[12] Favilli, La responsabilità adeguata alla famiglia, cit., 297 s.

[13] Afferma efficacemente Favilli, Danno non patrimoniale nell’illecito tra familiari, in Navarretta (a cura di), Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, Milano, 2010, 468, che “la solidarietà familiare e la tolleranza continuano ad operare, pertanto, come filtri naturali della tort litigation tra familiari, determinando l’avvio del percorso giudiziale solamente nei casi in cui la ‘ferita’ inferta alla relazione non è in grado di rimarginarsi spontaneamente perché è la causa o l’effetto di irrimediabili tensioni nel rapporto”.

[14]  Facci, Violazione dei doveri coniugali e risarcimento del danno, in Foro.it, 2009, 1158 ss. Per il ruolo qualificante che il dolo può rivestire nel settore in discorso, ai fini della risarcibilità aquiliana dei danni endofamiliari, si veda Camilleri, Illeciti endofamiliari e sistema della responsabilità civile nella prospettiva dell’European tort law, cit., par. 9, e Facci, Il danno da adulterio, in Cendon (a cura di), Famiglia e responsabilità civile, Milano, 2014, 562 s.

[15] Cass. Civ. n. 8862 del 2012, cit., fa riferimento, per esempio, alla lesione (oltre che della salute, della privacy, della reputazione) dei “rapporti relazionali”; Cass. Civ. n. 9801 del 2005 parla di lesione del diritto fondamentale “a realizzarsi pienamente nella famiglia e nella società come donna, come moglie ed eventualmente come madre”; Cass. Civ. 10 aprile 2012, n. 5652, in Danno e resp., 2012, 868, con nota di Amram – Oliari, rinviene, nella violazione degli obblighi ex art. 147 c.c. nei confronti del figlio, “un vulnus (…) a quei diritti che, scaturendo dal rapporto di filiazione, trovano nella carta costituzionale (in part., artt. 2 e 30) e nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento, un elevato grado di riconoscimento e di tutela”. Ma si veda, ora, Cass. Civ. n. 6598 del 2019, cit., secondo la quale “i doveri che derivano dal matrimonio non costituiscono però in capo a ciascun coniuge e nei confronti dell’altro coniuge automaticamente altrettanti diritti, costituzionalmente protetti, la cui violazione è di per sé fonte di responsabilità aquiliana per il contravventore”.

[16] Tommasini, sub art. 143, in Gabrielli (a cura di), Comm. cod. civ.Della famiglia, I, a cura di Balestra, Torino, 431, richiamandosi al dictum di Cass. Civ. 10 maggio 2005, n. 9801, cit.

[17] Come era accaduto, invece, nel caso affrontato da Cass. Civ. 10 maggio 2005, n. 9801, cit., in cui l’illecito consisteva nell’avere il promesso sposo taciuto alla futura moglie la propria impotenza. Da tale omissione era stata fatta discendere la lesione del “diritto alla sessualità” dell’attrice, sul presupposto che la donna, ove messa al corrente della circostanza, avrebbe rinunciato al matrimonio. Si veda anche Trib. Catania 21 luglio 2015, in www.ilfamiliarista.it, 11 dicembre 2015, in cui la circostanza che dalla relazione extraconiugale del marito erano nati due figli è stata valorizzata (insieme ad altre circostanze di fatto) per ritenere che la violazione dell’obbligo di fedeltà avesse determinato una lesione dell’onore e decoro dell’attrice, con conseguente configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile. Casi simili sono stati affrontati dal Trib. Trento 22 giugno 2007, in Resp. civ. prev., 2009, 378, con nota di Facci (in cui l’attore aveva formato un altro nucleo familiare all’estero), e, di recente, dal Trib. Bari 18 marzo 2019, in Foro.it, 2020, 49, con nota di Parini (ove, dopo essersi consensualmente separata dal marito, la moglie gli aveva rivelato che i due figli nati in costanza di matrimonio erano il frutto di una sua relazione extraconiugale).

[18]  Trib. Arezzo 23 giugno 2016, in DeJure.

[19] Sovrappone il profilo della violazione dell’obbligo di fedeltà (inteso in senso stretto) con quello dell’occultamento della natura extraconiugale del concepimento dei due figli, Trib. Bari 18 marzo 2019, cit., il quale, da un lato sembra concentrare la valutazione di ingiustizia del danno sulle modalità particolarmente sconvenienti con cui la donna aveva intrattenuto la relazione extraconiugale (così violando “l’onore e la dignità” del marito); dall’altro incentra la liquidazione del danno sulle conseguenze derivanti dalla scoperta della verità relativa ai figli (in relazione alla quale, quindi, non viene enucleata un’omissione informativa suscettibile di autonoma rilevanza aquiliana, tanto che la domanda risarcitoria a tale titolo avanzata dai “presunti” nonni della bambina viene rigettata, sul presupposto che non fossero “titolari di specifici diritti nascenti dal vincolo matrimoniale della cui lesione (…) si discute”).

[20] Trib. Bologna 16 dicembre 2014, in DeJure.

[21]  Trib. Firenze 2 febbraio 2015, in Corti fiorentine, 2015, 37 ss., con nota Nazzaro.

[22] Tuttavia – come esattamente nota Nazzaro, Danno endofamiliare e danni nei rapporti tra “familiari”, in www.giustiziacivile.com, 4, 2016 -, nonostante le affermazioni di principio contenute nella sentenza, “in quest’ottica siamo ben lontani dal dovere di neminem laedere, richiedendosi invece un comportamento positivo che, a rigore, deve ancora trovare la sua fonte”.

[23] Così Cass. Civ. 23 maggio 2006, n. 12111, in Danno e resp., 2007, 163, con nota di Guerreschi. V. anche Cass. Civ. 8 novembre 2005, n. 21641, in Banca, borsa, tit. cred., 2007, 2, 1, con nota di Tucci; Cass. Civ. 29 luglio 2004, n. 14484, in www.leggiditalia.it e Cass. Civ. 1° dicembre 2004, n. 22588, in Foro it., 2005, I, 3144. In senso più restrittivo, invece, Cass. Civ. 28 giugno 2005, n. 13892, in www.leggiditalia.it; Cass. Civ. 30 giugno 2005, n. 13957, in www.leggiditalia.it. Sui presupposti della responsabilità civile omissiva, si vedano Barcellona, Trattato della responsabilità civile, Torino, 2011, 253 ss., il quale la riscontra propriamente solo nel caso in cui l’obbligo di attivarsi per evitare l’evento sia previsto (direttamente o indirettamente) dalla legge, e concerna un rischio creato da terzi e, pertanto, estraneo alla sfera di dominio dell’agente; Salvi, La responsabilità civile, II ed., Milano, 2019, 173 ss., che individua un criterio di contemperamento tra i principi della libertà individuale e della solidarietà sociale in “un peculiare grado di colpevolezza, fondato sulla sproporzione tra l’entità dello sforzo richiesto per evitare il danno e l’entità del pericolo (…)”; Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2017, 36 ss.; Franzoni, Fatti illeciti, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993, 151 ss.; Alpa, Il problema della atipicità dell’illecito, Napoli, 1979, 127 ss., che a sua volta conclude nel senso che, in forza del combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 2 Cost., si può “chiedere al singolo di sacrificare la propria libertà di astensione in tutti i casi nei quali il danno poteva essere prevenuto ed evitato da una persona di normale diligenza con un comportamento positivo e senza suo rischio”.

[24] In Cass. Civ. 16 novembre 2005, n. 23074, in www.leggiditalia.it, per esempio, è stato ravvisato un pregiudizio per il minore nel riconoscimento da parte del padre, “inserito nell’ambiente della criminalità organizzata ed attualmente detenuto per gravi reati”.

[25] Al Mureden, La responsabilità genitoriale tra condizione unica del figlio e pluralità di modelli familiari, in Foro.it, 2014, 479.

[26] Negli stessi termini, Trib. Firenze 2 febbraio 2015, cit.

[27] Trib. Torino 24 aprile 2018, in www.ilfamiliarista.it, 20 settembre 2018, relativa a un caso in cui il marito aveva scoperto che la figlia non era propria dieci anni dopo la sua nascita, convenendo in giudizio la moglie per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali.

[28] Osserva Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996, 65, che il concetto di dignità “non configura un presunto diritto generale, ma esprime un valore giuridico che pervade i diversi interessi, rendendoli compatibili con la dimensione pluralistica e con la dialettica fra diritti inviolabili e doveri inderogabili”.

[29] Ex multis, Cass. Civ. 15 maggio 2018, n. 11749, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 1652, con nota di Pizzimenti; Cass. Civ. 11 novembre 2019, n. 28985, in Danno e resp., 2020, 11, con nota di Cacace, che, citando Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 438, sottolinea che “la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 Cost. pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, 2° comma, Cost.”.

[30] Trib. Torino 24 aprile 2018, cit.

[31] Trib. Bologna 16 dicembre 2014, cit., ha ritenuto sussistente la colpa in capo a una “venticinquenne, laureata” la quale, “ben consapevole di aver avuto, al di fuori della relazione col convivente, rapporti sessuali non protetti che potevano dunque condurre ad una gravidanza (…) ben avrebbe potuto rappresentarsi, quanto meno a livello di possibilità se non di elevata probabilità”, l’ipotesi che l’attore non fosse il padre biologico della figlia, tanto più se si considera che, prima del concepimento, “il rapporto col convivente si era raffreddato e che vi era stata una interruzione nei rapporti sessuali”.

[32] È chiaro che non bisogna confondere il dolo rispetto alla violazione dell’obbligo di fedeltà con quello imperniato sulla piena consapevolezza della derivazione della gravidanza dal rapporto adulterino. Colei che intraprenda una relazione extraconiugale, se da un lato non può che violare consapevolmente l’obbligo di fedeltà, dall’altro potrebbe anche non sapere (o non sapere con sicurezza) chi è il padre del figlio concepito durante il matrimonio.

[33] Cass. Civ. 22 novembre 2013, n. 26205, in Danno e resp., 2014, 716, con note di Amram e di Tassone. Di contrario avviso è andato, di recente, il Trib. Vicenza 24 ottobre 2019, in Foro.it, 2020, 939, con nota di Farolfi, che, con riguardo alla domanda risarcitoria avanzata da un trentanovenne, ha affermato che “la scelta di ottenersi un padre affettivo e, comunque, sostentativo, non può neppure essere differita nel tempo con la grave conseguenza di accrescere per sé le conseguenze della mancanza del padre, ed anche l’entità del ristoro, a detrimento quindi sia del figlio che del padre”, così configurando un concorso colposo dell’attore “al prodursi dell’evento lesivo, ex art. 1227 c.c.”.

[34] È pacifico, infatti, che il giudice debba “procedere d’ufficio all’indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato, sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa concorrente, sul piano causale, dello stesso” (in tal senso, da ultimo, Cass. Civ. 19 luglio 2018, n. 19218, in www.leggiditalia.it.).

[35] Pertanto, “non è risarcibile il danno patrimoniale ed il danno non patrimoniale in conseguenza della scoperta dell’adulterio della moglie e della conseguente nascita – dalla relazione extraconiugale – di un figlio, allorché l’istante proponga la domanda senza allegare alcun pregiudizio concreto effettivamente subito e meritevole di ristoro, limitandosi ad affermazioni di stile svuotate di un effettivo contenuto, oltre che non corroborate da alcun elemento probatorio a sostegno del complessivo assunto” (Trib. Sant’Angelo dei Lombardi 26 gennaio 2011, in Resp. civ. prev., 2011, 634). La stessa pronuncia di legittimità in commento, al par. 6, sottolinea con nettezza come, “avuto riguardo a[lle] incertezze e lacune allegatorie nella descrizione dei fatti rilevanti, la mera asserzione [del ricorrente] di avere dovuto rinunciare a godere della relazione con il [figlio] a causa del comportamento illecito della madre, si risolve tautologicamente nel mero vanto del diritto al risarcimento del danno, che fonda la condizione di ammissibilità dell’azione ma non assolve alla prova dei fatti costitutivi della pretesa”.

[36] Nel caso del Trib. Bologna 16 dicembre 2014, cit., il convivente more uxorio della madre aveva riconosciuto la figlia, ed era stata la madre, dopo la separazione tra i due, a prendere l’iniziativa dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex art. 263 c.c., sicché lo status di figlia naturale riconosciuta era stato rimosso con sentenza passata in giudicato.

[37]  La distinzione tra i due piani è ben colta dalla sentenza Cass. Civ. n. 8459/2020, laddove (al punto 5.8 della motivazione) si osserva che “la questione del danno risarcibile non viene tuttavia posta nella presente controversia con riferimento alla lesione del diritto alla identità genitoriale (ossia al ristabilimento della verità inerente [a]l rapporto di filiazione e nell’acquisizione formale del relativo status), trattandosi di interesse in tesi soddisfatto dalla pronuncia giudiziale che ha accolto la domanda [di dichiarazione giudiziale di paternità, N.d.A.] svolta [dall’attore] (…)”.

[38] Trib. Torino 24 aprile 2018, cit.

[39] Non si poneva un problema di danno futuro, anche perché – come s’è accennato – il convenuto (e attore in riconvenzionale) era deceduto nel corso del processo, sicché la domanda era stata coltivata dal suo erede, costituitosi ex art. 110 c.p.c.

[40] Per una teorizzazione dell’inutilità della categoria della perdita di chances a designare, nel campo del danno non patrimoniale, una particolare tipologia di danno, diversa da quella individuata dal combinato disposto degli artt. 1223, 1226, 2043 e 2059 c.c., sia consentito il rinvio a La Battaglia, Il danno da perdita di chance, in Danno e resp., 2019, 349, nonché, con particolare riguardo al settore della responsabilità sanitaria, a Id., La responsabilità del medico e l’insostenibile incertezza della chance perduta, in Foro it., Gli speciali, 2020, 1, 98.

[41] Così, per esempio, il padre biologico potrebbe compiere un riconoscimento del figlio che, per quanto inefficace ex art. 253 c.c., potrebbe acquistare efficacia ex tunc a seguito del vittorioso esperimento dell’azione di disconoscimento della paternità esperito dallo stesso figlio (in tal senso, Cass. Civ. 5 novembre 1997, n. 10838, in Dir. fam., 1998, 549, con nota di Lo Basso); ovvero sollecitare il P.M. a promuovere l’azione di disconoscimento della paternità del figlio infraquattordicenne, ai sensi dell’art. 244, comma 6, c.c.; ovvero ancora, dopo che lo status del figlio sia stato rimosso su iniziativa di altri, procedere al riconoscimento. Il marito della madre potrebbe agire, da parte sua, per il disconoscimento, se del caso (ove decaduto) chiedendo al giudice la nomina di un curatore speciale ex art 244, comma 6, c.c.

[42]  In Trib. Bari 18 marzo 2019, cit., per esempio, viene liquidata, a titolo di “danni fisici e morali”, la somma di euro 208.566,00 (corrispondente all’importo previsto dalla tabella di Milano per un’invalidità permanente del 35% in capo a un soggetto di 34 anni), oltre a euro 8.000,00 a titolo di danno non patrimoniale per la lesione dei “diritti costituzionalmente protetti” (euro 3.000,00 per ciascun anno in cui l’attore aveva rivestito, di fatto, il ruolo paterno nei confronti dei minori, rivelatisi figlio biologici di altro uomo).

[43] La Battaglia, La Cassazione e il danno da perdita del rapporto parentale (o della commedia degli equivoci), in Foro it., 2020, I, 2727.

[44]  D’Angelo, La liquidazione del danno da illecito endofamiliare, in Danno e resp., 2016, 553, a seguito della comparazione dei due precedenti di merito rappresentati da Trib. Firenze 2 febbraio 2015, cit. (che quantifica il pregiudizio non patrimoniale in euro 5.000,00, in un caso nel quale la scoperta di non essere il padre biologico della minore era avvenuto dopo quindi mesi dalla sua nascita), e Trib. Taranto 22 gennaio 2015, inedita (che liquida, invece, euro 10.000,00 all’attore che aveva creduto – per ben quindi anni – di essere padre biologico di un figlio generato dalla moglie).

[45] Navarretta, I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, Milano, 2004, 45 ss. e 175.

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