La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7743 dell’8 aprile 2020, si è pronunciata in merito alla possibilità o meno, per i nipoti, di essere risarciti, iure proprio, del danno parentale causato dalla morte dei propri nonni, con specifico riferimento al caso in cui il decesso sia determinato da responsabilità medica.
Danno da lesione del rapporto parentale
Il risarcimento da perdita del rapporto parentale si configura come il ristoro per quel danno, di natura non patrimoniale (art. 2059 c.c.), riconosciuto ai parenti per la perdita del prossimo congiunto, a causa di un fatto illecito altrui.
Il danno parentale si realizza nella irreversibile perdita del godimento della presenza di quella persona alla quale si era legati da un rapporto di natura familiare e/o affettiva. Questo pregiudizio comporta uno sconvolgimento delle abitudini quotidiane e, quindi, si concreta nella preclusione delle reciproche relazioni interpersonali e di vita familiare del soggetto.
Nel caso di morte di un congiunto l’interesse fatto valere è quello dell’inviolabilità della sfera familiare e della vicendevole solidarietà nell’ambito degli affetti, dell’intangibilità della libera e piena esplicazione delle attività costituenti la persona umana, nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è riconducibile agli articoli 2, 29 e 30 della Costituzione[1].
Il caso in esame
Il caso oggetto della pronuncia della Cassazione riguarda il diritto dei nipoti non conviventi di una donna, morta a seguito di un errato intervento chirurgico che le aveva causato una perforazione intestinale, a vedersi riconosciuto il risarcimento del danno parentale iure proprio.
Decisione della Cassazione: sentenza n. 7743/2020
La Suprema Corte, con la sentenza in oggetto[2], si è pronunciata circa l’indispensabilità o meno della convivenza ai fini della prova della relazione parentale risarcibile. Anche in questo caso gli Ermellini, conformandosi ad altre sentenze della stessa Corte in merito a siffatta questione, hanno dato continuità al recente orientamento[3] secondo cui: “in caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, “da uccisione” proposta “iure proprio” dai congiunti dell’ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l’azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, non essendo condivisibile limitare la “società naturale”, cui fa riferimento l’art. 29 Cost., all’ambito ristretto della sola cd. “famiglia nucleare”, il rapporto nonni-nipoti non può essere ancorato alla convivenza, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, escludendo automaticamente, nel caso di non sussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto”[4].
La Corte di legittimità ha affermato che, se la nonna muore a causa di un errore medico, anche i nipoti hanno il diritto di essere risarciti iure proprio per il danno subìto a causa della perdita. Non è, quindi, necessaria la convivenza con la vittima ma è sufficiente la prova dell’effettività della relazione parentale e che il legame con il congiunto deceduto fosse essenziale nelle loro vite.
La Cassazione, con riferimento alla vicenda in esame, ha, pertanto, cassato la sentenza e rinviato la causa alla Corte d’Appello di Genova, per la definizione del quantum risarcitorio da riconoscere ai nipoti della vittima sulla base della disamina delle prove testimoniali circa il rapporto affettivo che li legava.
La liquidazione del danno parentale
Il risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale, trattandosi di danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., avviene “in base a valutazione equitativa che tenga conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore circostanza utile, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti ed ogni altra circostanza allegata[5]”.
Nel determinare la quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito deve valutare sia l’aspetto interiore del danno sofferto (c.d. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della paura) sia quello dinamico-relazionale (destinato ad incidere negativamente sulle relazioni di vita del soggetto).
Recentemente la Cassazione, richiamando orientamenti già presenti nella giurisprudenza della Terza sezione, si è pronunciata in merito al rapporto tra danno morale e componente legata al rapporto parentale. In particolare, sostiene la Suprema Corte, liquidare sia una somma a titolo di danno morale soggettivo, sia una somma a titolo di danno parentale, costituisce una duplicazione, in quanto viene concesso un risarcimento doppio per la lesione degli stessi interessi [6].
Infatti, la sentenza ha rammentato che la sofferenza patita nell’esatto momento della percezione della perdita e il dolore che accompagna la successiva esistenza dei congiunti della vittima, sono due componenti del medesimo pregiudizio che, pertanto, deve essere unitariamente ristorato[7].
[1] Cass. n. 26972 dell’11/11/2008
[2] Cass. n. 7743 del 08/04/2020
[3] Cass. n. 21230 del 20/10/2016
[4] Cass. n. 29332 del 07/12/2017
[5] Cass., ord. n. 907/2018
[6] Cass. n. 28989 dell’11.11.2019
[7] Sez. Un. n. 26972 dell’11.11.2008