Il mobbing nel lavoro: disciplina e giurisprudenza

in Giuricivile 2020, 4 (ISSN 2532-201X)

Le diverse condotte tenute dai datori di lavoro e dai lavoratori sui luoghi di lavoro, o più in generale, da tutti coloro all’interno dell’assetto produttivo nei confronti di altri soggetti, non sempre possono qualificarsi “lecite”: in alcuni casi, i comportamenti ripetuti e reiterati, quali causativi di effetti negativi nei confronti della vittima, possono configurare conseguenze sul piano giuridico.

Non scontata risulta l’individuazione dei fautori delle azioni di mobbing; se in molteplici casi si individuano mediante le condotte perpetrate dai datori di lavoro, in altri, siffatte azioni possono essere imputate agli stessi colleghi che magari, per “soddisfare e/o compiacere” il superiore gerarchico, concorrono al comportamento vessatorio [1].

Sommario:

1. Il mobbing: cenni introduttivi, fondamento comunitario e costituzionale.

2. Tipologie di Mobbing.

3. Tra requisiti e presupposti: ogni comportamento costituisce mobbing?

3.1. (Segue): condotte persecutorie: il c.d. straining.

4. Responsabilità civile contrattuale, extracontrattuale e onere della prova in materia di mobbing: mera scelta o possibilità di cumulo?

5. Note conclusive.

1. Il mobbing: cenni introduttivi, fondamento comunitario e costituzionale.

In materia di diritto del lavoro, le condotte illecite e ripetute dai lavoratori e/o dai datori di lavoro nei confronti di uno o più soggetti qualificati – solitamente nei confronti dei “soggetti più deboli” – possono, in presenza di determinati presupposti, dar luogo al c.d. fenomeno del mobbing; ma che cosa s’intende per mobbing?

Molti autori della dottrina giuslavorista prevalente lo definiscono come una “sindrome psicosociale multidimensionale” [2]. Tra le definizioni più diffuse (tra i tanti, Gilioli, Cassitto), questo fenomeno viene definito come una “forma di molestia o violenza psicologica esercitata quasi sempre con intenzionalità lesiva, ripetuta in modo iterativo, con modalità polimorfe”.

Provando a darne una definizione, sulla scia della oramai consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito – e tenendo in considerazione anche quanto previsto dal Codice delle Pari Opportunità, D. Lgs. dell’11 aprile 2006, n. 198 (in cui sono stati confluiti i Decreti Legislativi nn. 215 e 216 del Luglio 2003 riguardanti il divieto di discriminazione sul posto di lavoro) – per “mobbing” s’intende l’insieme di condotte vessatorie, di comportamenti ripetuti, reiterati e violenti, perpetrati da parte di soggetti nei confronti di altri, prolungati nel tempo, volti a screditare, discriminare la figura dell’individuo più debole al fine di emarginarlo, renderlo vulnerabile, lesive della dignità personale e professionale nonché della sua salute psico-fisica [3].

Se da un lato, siffatti comportamenti possono manifestarsi nelle “classiche” forme di aggressività esplicite, dall’altro possono materializzarsi in omissioni o strategie di isolamento. 

Più comuni però, risultano essere quelli atti ad umiliare ed offendere pubblicamente la vittima (ad esempio, tramite rimproveri e richiami in privato e/o in pubblico per banalità, l’esercizio di forme di controllo, l’esclusione reiterata del lavoratore) anche a mezzo la diffusione di notizie false [4]. Il più delle volte, tali condotte scaturiscono da invidie professionali o dal timore di perdere privilegi acquisiti con l’obiettivo, in talune ipotesi, di portare il dipendente al licenziamento (anche per il superamento del periodo di comporto, quale conseguenza del pregresso comportamento persecutorio nei suoi confronti tenuto) – o dimissioni volontarie, con il solo intento di aggirare quanto previsto dalla legge a garanzia del lavoratore sul luogo di lavoro.

Sul punto, una prima tutela può rinvenirsi nella normativa comunitaria: ci si limita a ricordare la Risoluzione del Parlamento Europeo A5-283 del 20 settembre 2001 intitolata “Mobbing sul posto di Lavoro”, la direttiva 2002/73/CE (modificativa della direttiva 76/207/CE) relativa al principio di parità di trattamento tra uomini e donne circa l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro nonché l’Accordo Quadro dell’8 ottobre 2004 sullo “stress da lavoro correlato (la cui finalità è quella di fornire al datore di lavoro e ai lavoratori un modello finalizzato alla prevenzione e alla gestione di problemi legati allo stress lavorativo) recepito dall’Italia a mezzo l’Accordo Interconfederale del 09 giugno 2008.

Sul piano Costituzionale invece, bisogna fare richiamo all’art. 2 (tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali), all’art. 32 (a riconoscimento e tutela del diritto alla salute), all’art. 35 (a tutela del diritto al lavoro in qualsiasi forma e applicazione) e all’art. 41 (a tutela dell’attività economica privata con il fine di evitare di arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana).

2. Tipologie di mobbing.

Quando si parla del fenomeno del mobbing, a seconda dell’autore materiale delle condotte vessatorie – ed in base alla destinazione ed intensità – diverse sono le tipologie che possono individuarsi, tra le quali merita menzione la più comune, impersonata nel c.d. mobbing orizzontale. Le condotte si collocano in questa tipologia di mobbing qualora vengono compiute da colleghi di pari grado alla vittima indirizzate a screditare la reputazione del lavoratore, così mettendo in crisi la sua posizione lavorativa [5].

Per mobbing verticale s’intende l’insieme di condotte vessatorie, reiterate e ripetute nei confronti del soggetto fragile poste in essere dai soggetti di grado superiore (come i capi reparto, i dirigenti ecc.). In tale tipologia però, secondo un orientamento minoritario, possono ricomprendersi anche condotte tenute dai soggetti di grado inferiore o da personale facente parte della medesima struttura lavorativa. Una caratteristica tipica di questa tipologia si individua sia nella sua efficacia, quanto nel suo passare inosservata [6].

Il mobbing trasversale è definito come una forma più complessa di violenza psicologica che può ricomprendere – anche – soggetti che si trovano al di fuori del contesto lavorativo. Il c.d. mobber (colui che persegue nel comportamento persecutorio), tiene condotte tali da isolare – rendendola vulnerabile – la vittima anche al di fuori dell’ambiente lavorativo, magari “alleandosi” con soggetti più vicini al mobbizzato, nei confronti dei quali il soggetto debole potrebbe trovare conforto o apprezzamento.

In contesti di grandi dimensioni, tipico è il c.d. Mobbing strategico [7].

Anche il Bossing è un’altra particolare forma di mobbing attuata dal diretto superiore o da coloro locati in posizioni apicali nel contesto aziendale, la cui finalità consiste nell’allontanare deliberatamente un certo soggetto dal luogo di lavoro [8].

Il fenomeno del mobbing può avvenire finanche con azioni vessatorie rivolte direttamente verso la vittima (c.d. diretto), oppure indirettamente, colpendo i soggetti frequentati dal soggetto debole (in particolare, coloro componenti il contesto familiare o la cerchia di amicizie). In quest’ultima ipotesi, ci troviamo di fronte al c.d. mobbing indiretto.

Infine, tra le principali tipologie è doveroso ricordare la differenza tra il c.d. mobbing leggero e il c.d. mobbing pesante. Nel primo caso, ci si trova di fronte a condotte costituite da gesti e comportamenti indiscreti, silenziosi compiuti dal mobber (tra le tipiche condotte si annovera l’isolamento progressivo del soggetto debole – con la conseguente esclusione dal gruppo dei colleghi – con la creazione di un’ambiente ostile). Nel secondo caso, invece, si assiste a condotte vessatorie evidenti, che spesso possono trasformarsi in vere e proprie violenze (tra le tante, si annoverano le aggressioni verbali o fisiche, i riferimenti alla vita privata e/o sessuale) estremamente invasive. 

3. Tra requisiti e presupposti: ogni comportamento costituisce mobbing?

Seppur il fenomeno del mobbing rappresenti un problema nell’ambiente lavorativo attuale, a danno, ogni anno, di un gran numero sempre maggiore di soggetti – è opportuno affermare che non tutte le condotte integrano il mobbing [9].

Fermo restando che non sussistono requisiti e/o criteri specifici ad hoc che individuano le azioni volte a configurare tale fenomeno, nel corso di questi anni la Cassazione, ha sempre cercato di delinearne alcuni.

In linea generale basti ricordare che, qualora il lavoratore riesca a provare il nesso di causalità fra il danno subito e le persecuzioni patite sul luogo di lavoro, ha diritto ad essere risarcito. Sul punto, assume rilievo ogni forma di angheria, turbamento, persecuzione perpetrata a danno del dipendente, quale “soggetto debole”, perdurante nel tempo.

Sulla base delle determinazioni di cui sopra, possiamo dire che tra i requisiti [10] per il suo riconoscimento, si annoverano:

  • l’intenzionalità lesiva (o elemento soggettivo), ovverosia l’intenzione di danneggiare il soggetto tramite la messa in atto di condotte vessatorie; le molestie assumono forme, modalità e intensità diverse (tra le tante, si ricordano la marginalizzazione del lavoratore, il demansionamento (art. 2103 c.c.) e/o forme di controllo eccessive);
  • Il danno arrecato;
  • l’arco temporale: tipicamente si parla di mobbing se gli episodi lesivi si protraggono in modo ripetuto, reiterato, sistematico e continuato nel tempo (almeno per mesi sei ed almeno due volte al mese – salvo eccezioni [11]) e con una frequenza perlomeno settimanale, preordinati ad un unico scopo;
  • il nesso di causalità tra la condotta datoriale e il pregiudizio all’integrità psico-fisica subito.

La Corte di Cassazione civile, Sez. Lav., con sent. del 27 gennaio 2017, n. 2142, ripercorrendo tale fenomeno, a conferma di quanto sin d’ora detto ricorda gli elementi fondamentali affinché si possa configurare; in particolare: “1. una serie di comportamenti di carattere persecutorio, seppur leciti ove considerati singolarmente, che siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, dal datore di lavoro o da suoi sottoposti; 2. una lesione della salute, della personalità e/o della dignità del dipendente; 3. una connessione causale fra i fatti sopra descritti e il pregiudizio subito dalla vittima; 4. l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante dei comportamenti lesivi” [12].

3.1. (Segue): condotte persecutorie: il c.d. straining.

Le situazioni di conflittualità all’interno dell’ambiente lavorativo possono, in alcuni casi, dare luogo a pressioni del datore di lavoro che, seppur caratterizzate da condotte persecutorie lesive della salute psico-fisica del dipendente-vittima, non configurano il mobbing.

L’ordinamento giuridico è quindi giunto a configurare fattispecie mutuate, cristallizzate anche a mezzo nuove teorie e fenomeni meritevoli di tutela. Ciò, spinto (altresì) dalla difficoltà per la parte debole di provare tutti gli elementi costitutivi del mobbing.

Tra tutte emerge il c.d. straining, fenomeno definibile come caratterizzato da “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione ostile e stressante” e la cui conseguenza si caratterizza in un “effetto negativo costante e permanente nell’ambiente lavorativo” [13].

In siffatte circostanze, la vittima si trova in una situazione di inferiorità rispetto all’autore (c.d. “strainer”).

Questo stato di “stress occupazionale”, se così si può impropriamente definire, richiede dei caratteri per potersi determinare, tra i quali, oltre ad uno stato di stress di rilevante entità, l’intenzionalità e la volontà discriminatoria da parte del superiore gerarchico. L’ordinario “stress” lavorativo non rileva ai fini della configurazione del comportamento qui descritto [14].

Sul punto, la Cassazione Civile del 10 luglio 2018, n. 18164, ripercorrendo i presupposti necessari affinché si possa addivenire a risarcimento del danno da straining – sul discrimen tra mobbing e straining – ha affermato come “i pregiudizi subiti dal lavoratore devono ritenersi risarcibili anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio” (ex multis, Cass. civ., sez. Lav., sent. 29/03/2018, n. 7844) [15].

4. Responsabilità civile contrattuale, extracontrattuale e onere della prova in materia di mobbing: mera scelta o possibilità di cumulo?   

Gli effetti del fenomeno sin ora rappresentato assumono rilevanza civilistica sotto un duplice profilo: quello risarcitorio e quello riparatorio/ripristinatorio.

La Suprema Corte individua nell’art. 2087 c.c. (ex multis: sentenze SS. UU. n. 15133/2002, 9385/2001, 291/1999 e in Sez. Lav., n. 16250/2003, 2357/2003, 3162/2002, 14469/2002, 5491/2002, 602/2000) l’elemento fondante la responsabilità contrattuale del datore di lavoro nel fenomeno fin qui descritto. Essa potrà essere invocata ogni qualvolta si ritenga che lo stesso non abbia adottato le cautele opportune “a tutela dell’integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro”.

L’operatività interviene anche nei casi in cui siano i lavoratori a tenere condotte vessatorie nei confronti del/i soggetto/i debole/i in quanto, come noto, il principale è tenuto – quale figura apicale nella “piramide aziendale” – a garantire un ambiente lavorativo sano ed equilibrato oltreché ad evitare, qualora le condotte vessatorie si fossero già verificate, la reiterazione dei comportamenti lesivi adottando tutti i provvedimenti più opportuni a tutela dell’integrità psico-fisica dei lavoratori. Tutto ciò in un’ottica di rispetto degli obblighi di protezione previsti dallo stesso art. 2087 c.c. nonché dei principi di correttezza e buona fede previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c. in combinato disposto alle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 2, 32 e 41, comma 2.

L’obbligo previsto ex art. 2087 c.c. però, secondo l’impostazione dottrinale e giurisprudenziale prevalente è più ampio di quello che possa sembrare: non termina rispettando gli obblighi previsti dalla legge in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, ma impone al datore di lavoro l’adozione di tutte le misure necessarie richieste in relazione alla particolarità del lavoro da svolgere (quindi finalizzate a prevenire sia i rischi insiti all’interno che quelli derivanti dall’esterno, attesa la rilevanza costituzionale della sicurezza dei lavoratori che gli impone di anteporre al proprio profitto la sicurezza di chi esegue la prestazione. Ciò (anche) in virtù e nel rispetto della più specifica tutela prevista dallo Statuto del Lavoratori – Legge 20 maggio 1970, n. 300 – che prevede tra le varie disposizioni, la salvaguardia del diritto alla salute e all’integrità fisica del dipendente – [art. 9], il divieto di declassamento a mansioni inferiori rispetto al livello d’inquadramento – [art. 13] nonché il divieto di discriminazione per motivi politici e/o religiosi – [art. 15]).

Sul punto, la Cassazione civile, Sez. Lav., con ord. del 18 giugno 2018, n. 16026 ha confermato come “il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., è tenuto a prevenire anche le condizioni di rischio insite nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia del lavoratore, dimostrando di aver messo in atto a tal dine ogni mezzo preventivo idoneo, con l’unico limite del c.d. rischio elettivo, da intendere come condotta personalissima del dipendente, intrapresa volontariamente e per motivazioni personali, al di fuori delle attività lavorative in modo da interrompere il nesso eziologico tra prestazione e attività assicurata.

Essendo quindi considerata secondo la giurisprudenza come ipotesi di responsabilità contrattuale (Cass. civ., SS. UU., n. 8438/2004) – sulla base della presunzione ex art. 1218 c.c.sarà onere del datore di lavoro provare l’assenza di colpa ovvero di aver adottato tutte le misure e cautele idonee a tutela del dipendente e aver fatto quanto necessario per la sua salute psico-fisica, la sua personalità morale e la sua sicurezza, nonché di aver adeguatamente vigilato sulla corretta attuazione delle stesse [16]. In altre parole,l’assenza di colpa, e dunque che gli atti e i comportamenti posti in essere siano conformi all’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c., che in ogni caso non siano tra loro collegati da un intento persecutorio o discriminatorio, ovvero che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione dipendente da causa a lui non imputabile” [17].

Invero, grava sul lavoratore l’onere di provare tutti gli elementi di fatto che connotano la condotta vessatoria, e quindi l’inadempimento e il nesso causale tra questo e il danno patito.

Nell’ipotesi di lesione di diritti personalissimi, il cumulo delle azioni esperibili risolve il problema della prevedibilità del danno, che deriva dall’applicazione in ambito contrattuale dell’art. 1225 c.c. che statuisce che “se l’inadempimento o il ritardo non dipende da dolo del debitore (danneggiante), il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione”, facendo venir meno il vincolo della prevedibilità.

In relazione a tale responsabilità è utile citare l’art. 1226 c.c. che, in materia di risarcimento danni da mobbing, pone il limite della risarcibilità ai soli danni prevedibili, salvo in caso di dolo: se provato, è finanche prevista la risarcibilità dei danni imprevedibili [18].

Si specifica altresì come, qualora si ravvisi una responsabilità con susseguente risarcimento del danno in favore del lavoratore, lo stesso sarà onerato a provvedere all’indennizzo che, nella molteplicità dei casi – anche in virtù di quanto previsto dalla nota sentenza n. 233/2003 della Corte Costituzionale – è soltanto di carattere non patrimoniale ex art. 2059 c.c. [19]

Qualora il datore di lavoro ricorra all’opera di terzi – e questi detengono condotte tali da arrecare pregiudizio – la  responsabilità civile che ne deriva rimarrà a suo carico ai sensi e per gli effetti dell’art. 1228 c.c. che afferma come “salva diversa volontà delle parti, il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi”, risponde anche dei fatti da loro commessi sia essi dolosi che colposi, in quanto delegati allo svolgimento di una determinata attività per suo conto.

A fronte della lesione alla salute e alla personalità morale del lavoratore, seguendo quanto previsto dal nostro ordinamento, si addiviene accanto all’art. 2087 c.c., anche alla configurabilità di una responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. intesa, a parere dello scrivente, quale “norma a carattere espansivo” volta in un certo qual modo ad obbligare l’azienda non solo al rispetto della normativa speciale (tra cui l’accordo europeo dell’8 ottobre 2004 e il noto D. Lgs. del 9 aprile 2008, n. 81, testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, coordinato con il D. Lgs. del 3 agosto 2009, n. 106) prevista, ma anche ad escludere e prevenire tutte quelle situazioni di rischio che in un’impresa possono verificarsi.

Quindi, in altre parole, la responsabilità ex art. 2087 c.c. [20] può concorrere, cumulandosi con quella prevista ex artt. 2043 c.c. e 2049 c.c. Tale cumulo potrà avvenire ogni qualvolta si ritenga che non siano fondamentali atti tipici del rapporto lavorativo affinché possa essere configurata la fattispecie del mobbing [21].

Ciò detto, trova il suo fondamento nel fatto che la condotta del datore di lavoro termina con il ledere un interesse tutelato non solo nel rapporto di lavoro, ma anche da norme quali l’art. 2043 c.c. (quale espressione del principio del neminem laedere) che si rivolgono alla totalità dei consociati. “A ciò si aggiunga che l’azione extracontrattuale è considerata risiedere direttamente nello stesso art. 2087 c.c., di fatto dotato di doppia natura” [22].

Sotto il profilo della responsabilità ex art. 2043 c.c. occorre fare richiamo – per il suo riconoscimento – alla Cassazione Civile in Sezioni Unite che, con sentenza del 22 luglio 1999, n. 550 ha ribadito come “ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante”.

In materia, l’azione viene esperita direttamente nei confronti dell’autore della condotta illecita e, ne consegue quindi, l’imprescindibile accertamento della sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa quale elemento essenziale tipico affinché possa sorgere siffatta responsabilità; in species, è necessario che venga dimostrata la sua finalità di svilire, nuocere e/o ledere la dignità personale e/o professionale della vittima. Ciò potrà essere dimostrato anche a mezzo presunzioni incentrate soprattutto sulla vessatorietà delle condotte subite [23] (sul punto, Cass. civ., Sez. Lav., n. 15027/2005; Cass. civ., Sez. Lav., n.  23918/2006).

L’art. 2049 c.c. presuppone una responsabilità in capo al datore di lavoro, per i danni arrecati dal fatto illecito commesso dai suoi dipendenti nell’esercizio delle attività esercitate.

In prima battuta è necessario evidenziare come la sua applicabilità non sia subordinata ad un rapporto di lavoro stabile tra il c.d. mobber e l’azienda; è sufficiente che lo stesso sia inserito nel contesto aziendale anche con un mero rapporto lavorativo occasionale.

Circa il fatto commesso dai propri dipendenti la Suprema Corte precisa come la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro – su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c. – ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo, dovendosi escludere la sufficienza di un mero (e tardivo) intervento pacificatore, non seguito da concrete misure e da vigilanza” (Cass. civ., sez. lav., sent. del 25/07/2013 n. 18093) [24].

Pertanto, atteso che il profilo della citata responsabilità si fondi su un rapporto di subordinazione (anche occasionale) con il datore di lavoro, egli – anche in virtù del principio del “cuius commoda eius et incommoda” – sarà considerato responsabile ex art. 2049 c.c. (responsabilità indiretta) [25] in tutti i casi in cui non si sia attivato al fine di prevenire ed evitare qualsiasi condotta pregiudizievole tenuta dai suoi dipendenti nell’esercizio del loro operato, sempreché e nel limite in cui l’autore del comportamento illecito abbia agito dolosamente e al di fuori del c.d. rapporto di occasionalità necessaria. In altre parole, quando l’evento lesivo si sia verificato nell’esercizio dell’attività lavorativa in via del tutto accidentale e casuale. Esso prescinde totalmente dal requisito della colpa (sia essa culpa in eligendo o in vigilando).

Sul punto, il Tribunale di Trapani, Sez. Lav., con sentenza del 19 agosto 2019 ha affermato come nel rapporto di lavoro subordinato il datore di lavoro risponde per inadempimento contrattuale degli obblighi nascenti dall’art. 2087 c.c., nel caso in cui siano accertate condotte di mobbing anche integralmente ascrivibili ai colleghi del lavoratore danneggiato (c.d. mobbing orizzontale)”.

In materia di riparto dell’onere della prova, quindi, il danneggiato avrà soltanto l’onere di dimostrare gli elementi costitutivi del comportamento illecito; spetterà al danneggiante provare l’assenza di dolo o colpa. Seguendo la disposizione normativa, “i padroni e i committenti” non hanno la possibilità di fornire la prova contraria, salvo che provino il caso fortuito, aspetto, quest’ultimo, ammesso dalla giurisprudenza (Cass. civ., sez. Lav, sent. del 25/07/2013 n° 18093 [26]; Cass. civ., sez. Lav., sent. del 9/09/2008, n. 22858).

Per mera completezza ci si limita a rammentare come il nostro ordinamento riconosce al lavoratore anche la possibilità, in tema di mobbing, di agire in giudizio avverso l’INAIL al fine di richiedere il risarcimento per il danno alla salute subito – considerato dall’istituto come malattia professionale indennizzabile ai sensi del D. Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38 rubricato Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali a norma dell’articolo 55, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144″ e della oramai costante giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. Lav., sent. del 17 agosto 2018, n. 20774).

Riassumendo [27], l’assenza di una normativa ad hoc ha permesso che la giurisprudenza ravvisasse nel mobbing sia ipotesi di responsabilità contrattuale (art. 2087 c.c.) che ipotesi di responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c.), spesso cumulate fra loro, dalle quali possono derivare a causa della loro violazione, due distinte azioni.

Nella responsabilità ex art. 2087 c.c. opererà la presunzione ex art. 1218 c.c. con conseguente risarcimento del danno limitato ai soli danni prevedibili al momento della nascita dell’obbligazione (salvo in caso di dolo ove vengono ricompresi anche i danni imprevedibili previa prova del soggetto danneggiato). Tale responsabilità è soggetta ad un termine prescrizionale decennale. 

Nella responsabilità ex art. 2043 c.c., invece, la prova della colpa o del dolo dell’autore della condotta lesiva è a carico del danneggiato; in tal caso, il danneggiante sarà tenuto al risarcimento di tutti i danni subiti dal danneggiato, compresi quelli non prevedibili [28]. “È esperibile solo sulla base di una mera capacità naturale da parte dell’attore ex art. 2046 c.c., a cui è imposta la triplice prova del fatto, del rapporto causa-effetto tra il primo e il danno derivatone, della colpa, e l’art. 2056 c.c. in relazione agli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c. [9]”. Tale responsabilità è soggetta ad un termine prescrizionale quinquennale.

È fatta possibilità per il lavoratore di agire in giudizio anche contro l’INAIL in quanto il mobbing, seppur non ricompreso nelle malattie professionali tabellari dall’istituto previste, è considerato, come da costante giurisprudenza di legittimità, nell’alveo delle malattie professionali indennizzabili.

5. Note conclusive.

Da questa breve disamina si è assistito, oggi come ieri, a come condotte vessatorie reiterate e ripetute nei confronti dei soggetti deboli facenti parte dell’assetto aziendale, possono comportare conseguenze sul piano civilistico e, qualora si riconoscano come particolarmente gravi, possono far sorgere anche conseguenze sotto il profilo penale (a titolo esemplificativo, si ricorda come tale fenomeno può dar luogo a fattispecie di reato tra le quali l’istigazione al suicidio (art. 580 c.p.), le lesioni personali (art. 582 c.p.), l’ingiuria e la diffamazione (artt. 594 e 595 c.p.), ad atti persecutori (art. 612-bis c.c.), a molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.) e a quant’altro ravvisabile.

Purtroppo, seppur diverse sono state le proposte di legge in materia, nessuna tuttora ha visto la luce; di conseguenza, allo stato attuale, non essendo presente una normativa specifica che disciplini siffatto fenomeno, nel nostro ordinamento ci si trova di fronte ad un grande vuoto normativo che, a parere dello scrivente, necessita al più presto di essere colmato al fine garantire una tutela piena ed effettiva nei luoghi di lavoro.


1 Cfr. Per approfondimenti si veda voce curata da A. Rosiello, “Mobbing, Danni – Tipologie di danno, Rapporto di lavoro – Svolgimento, Salute e sicurezza”, 29/08/2019, p. 2 in https://www.wikilabour.it/print.aspx?Page=Mobbing.

2 Cfr. Avv. V. Rossi, “La natura del mobbing in genere e varie tipologie di disagio lavorativo”.

3 Cass. civ., sez. Lav., Ord., 20/01/2020, n. 1109; Trib. Civitavecchia, Sez. Lav., sent., 22/01/2020; Trib. Roma, sez. Lav., sent., 21/01/2020; Cass. civ., sez. Lav., sent. del 21/05/2011, n. 12048, Pres. Miani Canevari Est. Filabozzi, in Lav., Giur. 2011, 844 e in Lav., Giur. 2011, 1025, con commento di N. Folla e in Riv. It., Dir. Lav. Ed. 2012, 59, con nota di N. Ghirardi, “La fattispecie di mobbing ancora al vaglio della Cassazione”;

4 Sempre più spesso si assiste a tale fenomeno, purtroppo non ancora a pieno riconosciuto con una normativa ad hoc, e sempre più accentuato e diffuso (anche) a causa dei social media che non permettono di arginarlo.

In situazioni di questo genere, la vittima è nella maggior parte dei casi sempre colei che si trova in una posizione di svantaggio, sia in quanto gerarchicamente sottordinata, oppure in quanto – pur al pari della pluralità degli autori delle condotte illecite – debba misurarsi con una pluralità di persone il cui obiettivo è quello di nuocerle.

5 In questo caso viene praticato verso un lavoratore non integrato nell’organizzazione lavorativa per motivi d’incompatibilità ambientale o caratteriale, ad es. per motivi etnici, religiosi, sessuali etc, o semplicemente con l’obiettivo di impedirgli di avanzare sulla scala gerarchica aziendale.

6 Il potere di un subalterno su un sottoposto, qualora utilizzato al fine di irrogare sanzioni disciplinari non necessarie, finalizzate a mascherare persecuzioni psicologiche, può rientrare nella categoria di mobbing ora menzionata.

Il Consiglio di Stato, Sez. VI del 15/10/2018, n. 5905 ha confermato quanto detto, affermando come sul tema in commento “L’elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi che, se posti in essere dai superiori, danno luogo al c.d. mobbing verticale mentre se posti in essere dai colleghi danno origine al c.d. mobbing orizzontale, comportamenti che possono anche essere formalmente legittimi ed assumono connotazione illecita allorquando aventi l’unico scopo di danneggiare il lavoratore nel suo ruolo e nella sua funzione lavorativa, così da determinare il suo isolamento (fisico, morale e psicologico), all’interno del contesto lavorativo”.

7 In luoghi di lavoro di questa tipologia, già l’esistenza di numerosi dipendenti, di diversi gradi e impiegati in diverse posizioni può generare instabilità, causa di continui cambiamenti che possono portare a riduzione e/o riqualificazione del personale (ricomprendendovi nel più ampio significato anche l’avanzamento di carriera di soggetti in posizioni intermedie), con la conseguenza di una possibile intenzionale esclusione. Proprio con tale esclusione che si perfeziona tale tipologia di mobbing: un mobbing voluto, atto ad allontanare dal mondo del lavoro soggetti non più ritenuti utili; solitamente ciò avviene nei confronti di coloro che sono collocati in reparti prossimi alla chiusura o nei confronti di lavoratori indesiderati.

Ovviamente, bisogna specificare che, nei confronti dei soggetti locati in reparti prossimi alla chiusura, a parere dello scrivente, prima di addivenire ad una forma di licenziamento, l’azienda deve adottare tutte le misure idonee previste dall’ordinamento a tutela del lavoratore tra cui vi rientra la sua ricollocazione all’interno della struttura stessa, (anche) in virtù e nel rispetto del c.d. obbligo di repêchage qui non oggetto di approfondimento.

8 Può essere ricompreso in questa categoria il comportamento volto ad estromettere il lavoratore dal contesto lavorativo, precludendogli la possibilità di avanzamento e/o di crescita professionale. L’obiettivo del Bossing consiste nel rendere inerme, impotente e “senza difese” il lavoratore al fine di permettere ad altri di andare avanti al posto suo. Secondo la giurisprudenza, tale tipologia di mobbing rientra nel c.d. mobbing strategico. Sul punto, il Tribunale di Lanciano, con sent. del 18/09/2008 ha confermato tale orientamento affermando come “tra le tipologie di mobbing […] si individua il c.d. “bossing”, che è una specie di mobbing strategico, essendo attuato dall’azienda al preciso fine di ridurre il personale o di eliminare una persona indesiderata; viene esercitato direttamente dal datore di lavoro e […] assurge a vera e propria strategia aziendale pianificata in modo peculiare, freddo e lucido. Tra le azioni mobbizzanti più frequenti negli ambienti di lavoro vi sono il demansionamento (ipotesi tipica di mobbing), la protratta inattività forzata del lavoratore, il licenziamento ingiurioso, le molestie sessuali ed il trasferimento del lavoratore […]”. Prosegue aggiungendo che “ex art. 2087 c.c. cod. civ., il datore di lavoro deve predisporre tassativamente tutte le misure che si rivelino idonee a tutelare l’integrità psichica del lavoratore; sul datore di lavoro grava inoltre il generale obbligo di “neminem laedere” espresso dall’art. 2043 cod. civ. il danno biologico (danno psichico), inteso come danno all’integrità psico-fisica della persona in sé considerato e risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito, è il tipico danno subito dalla vittima di un mobbing.

9 La Cass. civ. SS. UU. n. 8438/2004 ha ritenuto in tema di mobbing e giurisdizione, che debba sussistere il carattere sistematico e l’intento vessatorio del mobber.

10 Anche il Tribunale di Firenze si è espresso facendo il punto sui requisiti necessari ai fini della configurabilità del mobbing, ripercorrendo oramai quanto consolidato nella giurisprudenza prevalente ed in particolare: “ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, sono rilevanti a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio dell’integrità psicofisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio” (Trib. Firenze, 07/07/2016, Giud. Taiti, in Lav. Giur. 2016, 1133; ex multis, Trib. Milano, 17/04/2013, Giud. Scarzella, in Lav. Giur. 2014, 91; Cass. civ., sez. Lav., sent. del 02/04/2013, n. 7985, Pres. Lamorgese Rel. Napoletano, in Lav.  Giur. 2013, 612; Cass. civ., sent. del 28/08/2013, n. 19814, Pres. Roselli Est. Blasutto, in Riv. It. Dir. Lav. 2014, con nota di E. Pasqualetto, “Intenzionalità del mobbing e costrittività organizzativa”, 63).

11 Tra le tante, si ricorda il c.d. “quick mobbing” ove risultano sufficienti più condotte (sia esse attive e/o omissive) vessatorie, violente, particolarmente intense e frequenti (che quotidiane) atte a destabilizzare la vittima. In tal caso, vi è una deroga in materia temporale: la durata è ridotta tre mesi.

12 Cfr. Cass. civ., sez. Lav., sent. del 27/01/2017, n. 2142. La Cass. Civ., sez. Lav., sent. del 27/09/2018, n. 30673 ha – in tempa di connessione necessaria alla configurazione del mobbing – statuito la necessaria dimostrazione di una connessione teleologica delle azioni lesive datoriali avente unico fine vessatorio e persecutorio.

13 Il fenomeno del c.d. straining può comportare in alcune situazioni delle conseguenze sulla salute ben peggiori del mobbing in quanto si perfeziona in un unico episodio ove il lavoratore si trova inerme e nella conseguente impossibilità di opporre resistenza. Per approfondimenti si veda, H. Ege, “Oltre il mobbing. Mobbing, Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro”, Edizione Franco Angeli, luglio 2016; M. Lambrou, “Rapporto di lavoro e danni da straining” in approfondimenti, Diritto e Pratica del Lavoro 47-48/2018, p. 2855.

14 Come noto, al fine della sua configurabilità è sufficiente una sola condotta negativa nei confronti del lavoratore debole, di rilevante entità, con l’intento discriminatorio e tale da caratterizzare conseguenze sulla salute psico-fisica. Tra i comportamenti, senza dubbio possono ricomprendervi eventuali demansionamenti o trasferimenti illegittimi, attacchi a danno dell’altrui reputazione, minacce e violenza. Altresì, lesioni alla sfera psico-fisica possono provenire anche da comportamenti organizzativi. Cfr. M. Lambrou, “Rapporto di lavoro e danni da straining” in approfondimenti, Diritto e Pratica del Lavoro 47-48/2018, p. 2856.

15 Come noto, è sufficiente un’unica azione ostile e/o vessatoria per dar vita alla configurazione del c.d. Straining. Sul punto, giurisprudenza e dottrina sono addivenute, per caratteri simili, a definire siffatta fattispecie una “forma attenuata di mobbing che si differenzia in un comportamento produttivo di una situazione stressante che, in taluni casi può comportare disturbi psico-somatici, psico-fisici o psichici”. Cfr. Cass., sez. Lav., sent. del 19/02/2016, n.  3291; M. Lambrou, “Rapporto di lavoro e danni da straining” in approfondimenti, Diritto e Pratica del Lavoro 47-48/2018, p. 2857; Trib. Bergamo, sent. del 21/04/2005, n. 286. Si consiglia per approfondimento, P. Formini, “LO STRAINING”, in www.businessjus.com.

16 Facendo rientrare nel potere di vigilanza, a parere dello scrivente, anche il potere disciplinare del superiore gerarchico.

17 Cfr. M. Spataro, Mobbing o straining? Al lavoratore l’onere di provarli, in Altalex.com, 1 dicembre 2019, https://www.altalex.com/documents/news/2019/12/11/mobbing-o-straining-al-lavoratore-l-onere-di-provarli – Cass. civ., sez. Lav., ord. del 04/10/2019, n. 24883.

18 M. Meucci, Per risarcire il cd. mobbing è ultroneo il riscontro del requisito dell’intenzionalità. Nota a Corte di Cassazione – Sezione Lavoro, Sentenza 20 maggio 2008, n. 12735, in “Filodiritto” –www.filodiritto.it, ed. 2008.

19 Non si nega che ci possono essere casi in cui si rileva anche un danno di carattere patrimoniale subito dal lavoratore. Sul punto è oramai pacifico come i danni non patrimoniali vengono risarciti indipendentemente dalla violazione di una disposizione di legge specifica, purché vengano lesi beni meritevoli di tutela riconosciuti nella Carta Costituzionale. Cfr. G. Anastasio, Responsabilità civile e mobbing.

20 La Suprema Corte ha affermato la coesistenza di responsabilità contrattuale e extracontrattuale in capo al datore di lavoro, precisando che “in forza del principio del concorso tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, il lavoratore discriminato ha la scelta tra l’azionare l’una o l’altra forma di responsabilità facendo valere, nel primo caso, il diritto alla riparazione del pregiudizio arrecatogli dall’illecito, assumendo l’onere di fornire la prova della colpa o del dolo dell’autore della condotta lesiva, e, nel secondo, la violazione del diritto (di credito, in quanto di natura personale), che si fonda sulla presunzione di colpa stabilita dall’art. 1218 c.c., a non essere discriminato e la conseguente possibilità per danni, limitatamente a quelli prevedibili al momento della nascita dell’obbligazione” (Cass. Civ., Sez. Lav., sent. del 25 settembre 2002, n. 13942).

21 In tal caso, la responsabilità ex art. 2043 c.c. può avvenire ogni volta in cui “la vittima non invoca la violazione degli obblighi contrattuali e ogni volta che le condotte che impongono l’elemento oggettivo della fattispecie di mobbing sono solo quelle materiali atipiche.” Cfr. Pesce, “Mobbing e Risarcimento del danno”, in Riv. di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, Vol III, N. 1, Gennaio/Aprile 2009.

Si veda, Trib. Torino, sent. del 16 e del 30/11/1999; Trib. di Forlì, sent. del 15/05/2001; Trib. di Pisa, sent. del 7/10/2001 con le quali si è riconosciuto per la prima volta un cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale per danno da mobbing.

22 Cfr. Bona, M. Monateri, P.G. Oliva U., La responsabilità civile nel mobbing, Ed. Ipsoa, 2002, p. 61.

23 Molto spesso, i lavoratori si avvalgono dello strumento della prova documentale e testimoniale. Al fine di poter assumere ad un onere della prova soddisfacente ex art. 2697 c.c., si è data la possibilità di fare ricorso anche alla c.d. prova induttiva ex art. 2729 c.c. derivante da indizi gravi, precisi e concordanti, non ritenuta però vincolante per l’organo giudicante.

24 Cfr. Da ciò, la responsabilità del datore anche ove (pur in assenza d’un suo specifico intento lesivo) il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente. Anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può discendere, attraverso l’art. 2049 c.c., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo (in questi termini, Cass. civ., sez. Lav., 9 settembre 2008, n. 22858). In tale ipotesi si esige, tuttavia, l’intrinseca illiceità soggettiva ed oggettiva di tale diretto comportamento: Cass. 4 marzo 2005, n. 4742 – ed il rapporto di occasionalità necessaria fra attività lavorativa e danno subito: Cass. civ. del 6 marzo 2008, n. 6033)”. Per approfondimenti si veda C. Minella, Mobbing: datore risponde anche di atti vessatori compiuti da altro dipendente in Altalex.com, https://www.altalex.com/documents/news/2013/09/10/mobbing-datore-risponde-anche-di-atti-vessatori-compiuti-da-altro-dipendente.

25 La responsabilità del datore di lavoro in tale caso è di tipo oggettivo, finalizzata ad incentivare le misure di prevenzione da parte dello stesso. 

26 Cfr. https://www.altalex.com/documents/news/2013/09/10/mobbing-datore-risponde-anche-di-atti-vessatori-compiuti-da-altro-dipendente.

27 La Cassazione civile, Sez. Lavoro, con sentenza del 21 dicembre 1998, n. 12763, ha confermato come “Sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo di “neminem laedere” espresso dall’art. 2043 c.c. (la cui violazione è fonte di responsabilità̀ extracontrattuale) sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore sancito dall’art 2087 c.c. ad integrazione “ex lege” delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro (la cui violazione è fonte di responsabilità contrattuale). Conseguentemente il danno biologico – inteso come danno all’integrità psico-fisica della persona in sé considerato, a prescindere da ogni possibile rilevanza o conseguenza patrimoniale della lesione – può in astratto conseguire sia all’una, sia all’altra responsabilità”; Cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sent. 8/05/2007, n. 10441.

28 Cfr. R. Mazzarella, Responsabilità e danno da mobbing, in Salvis Juribus, 24 febbraio 2018.

29 R. Staiano, Mobbing e responsabilità civile: il vademecum dell’avvocato, 03 Maggio 2019 in https://www.altalex.com/documents/news/2019/05/09/il-mobbing, Wolters Kluwer.

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