Le mansioni nel pubblico impiego

in Giuricivile, 2018, 9 (ISSN 2532-201X)

1 La precedente disciplina del lavoratore

Nell’impiego pubblico[1] l’inquadramento è stato prevalentemente reputato il principale parametro di definizione della posizione del dipendente nell’istituzione: la classificazione delle carriere, contenuta nell’art. 1 del testo unico delle disposizioni concernente lo statuto degli impiegati civili dello Stato, introdotto con il D.P.R. del 10.01.1957. n. 3, acquistò il valore, paradigmatico, di un modo razionale di concepire l’organizzazione dell’amministrazione affidato a schemi burocratici assunti interamente nella legge[2], un sistema caratterizzato dalla preferenza dell’inquadramento alle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore.

Sommario: 1 la precedente disciplina delle mansioni 1.1 la preferenza delle mansioni sulla qualifica; 1.2 il profilo professionale come meccanismo di inquadramento; 2 il processo di privatizzazione; 2.1. la tutela della professionalità del dipendente pubblico; 2.2 l’esercizio flessibile del potere direttivo; 3 le novità apportate dal Testo unico del pubblico impiego; 3.1 le novità nelle mansioni; 4 l’uniformazione normativa; 5 la regola dell’equivalenza; 6 il ruolo dei contratti collettivi di lavoro nelle mansioni

L’articolo 31 del testo unico degli impiegati civili nello Stato prevedeva il diritto all’esercizio delle funzioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza, poteva essere adibito a mansioni di un’altra qualifica, l’adibizione doveva essere temporanea e giustificata da esigenze di servizio e doveva essere predisposto nel livello di inquadramento. La legge n. 93 del 1983 ha introdotto il sistema di qualifiche funzionali legate alla qualità della prestazione ed alla responsabilità dei lavoratori, nelle qualifiche venivano istituiti i profili professionali fondati sulla prestazione lavorativa, ha attribuito alla contrattazione collettiva la funzione di intervenire nelle materie non disciplinate dalla legge.

Tra il T.U. n. 3 del 1957 e la legge n. 93 del 1983 è stata talora ravvisata, sebbene non in modo del tutto persuasivo, una comune propensione ad accentuare il rilievo dei moduli di inquadramento a scapito di una più compiuta e consapevole valorizzazione del significato sistematico della prestazione e delle mansioni che la compongono, nonostante  gli elementi innovativi della legge n. 93 del 1983.[3] La tesi della priorità delle qualifiche sulle mansioni può essere fatta risalire ai principi del D.P.R. n. 3 del 1957; affondava, tuttavia, le sue radici nella riflessione e nella normativa antecedenti, specialmente del periodo liberale.[4]

Questi orientamenti sminuiscono l’essenza lavoristica del rapporto di servizio, per riproporre l’organizzazione del lavoro come un combinarsi di qualifiche, e non un integrarsi di attività e di prestazioni professionali. Le tesi diffuse propense a ripensare al rapporto di lavoro in funzione dell’inquadramento sono state influenzate dall’impostazione prescelta sulla dibattuta questione del diritto alla qualifica,[5] la questione emerse in riferimento all’esperienza del lavoro privato, ma fu inevitabile la trasposizione delle soluzioni elaborate in questa area anche in quella pubblica, poiché, anche il rapporto di impiego pubblico, sia pure a fronte di profili autoritativi, si impernia sullo scambio tra retribuzione e collaborazione subordinata, con un paragone che condusse alla constatazione di una divaricazione tra il valore delle qualifiche nei due settori; nel rapporto di lavoro pubblico si attribuì all’inquadramento il ruolo di meccanismo di identificazione della posizione del dipendente e della estensione dei suoi obblighi.

Nell’area privata, con l’inserzione del rapporto individuale nei vari modelli di classificazione elaborati dalla contrattazione collettiva o proposti dalla legge, si riconducono i compiti determinati convenzionalmente a moduli astratti, per cogliere le norme riferibili e desumere il trattamento, la qualifica designa quali principi riguardino ciascun dipendente, che, senza essere titolare di un diritto alla qualifica, può pretendere solo il trattamento conseguente. Se l’inquadramento è operazione logica di paragone fra il generale e il particolare, fra le singole opzioni negoziali e gli schemi di classificazione predisposti, non vi dovrebbe essere spazio per un diritto alla qualifica; questa coordina solamente l’ambito di efficacia delle disposizioni legislative e della contrattazione collettiva rispetto ai tanti contratti di lavoro in cui, invece, il consenso identifica le mansioni.

La concezione della qualifica come oggetto di un autonomo diritto e come bene con una sua specificità, riconosciuta dalla legge, ha rappresentato il supporto per rivedere l’intero lavoro pubblico alla luce di una marcata sovraordinazione dell’inquadramento sulle mansioni. In particolare, l’inquadramento era chiamato a definire il contenuto della prestazione, che sembrava quasi non fosse in funzione di apposite manifestazioni di volontà dell’amministrazione, dovevano essere utilizzate le qualifiche astratte, per il bando di concorso, per descrivere il contributo professionale e l’apporto lavorativo pretesi. Se si evinceva l’estensione dell’obbligo di facere in virtù dell’inquadramento, il nesso tra mansioni e qualifica proprio del settore privato era sovvertito in quello pubblico, nel quale le prime non erano più l’esperienza particolare da rivedere e raggruppare in schemi classificatori più ampi; nel comparto pubblico, la categoria acquisì il ruolo di forma di designazione dei compiti richiesti dall’ente e dovuti dall’impiegato.

Le qualifiche [6] individuate dalla legge non potevano essere lo strumento per designare le mansioni da espletare, ma dovevano svolgere una funzione meramente descrittiva. In giurisprudenza si è affermata, sia pure a fatica, e con forti contrasti, una impostazione, non precisa, ma ricostruibile, volta a ravvisare anche nel lavoro pubblico la priorità delle mansioni sulle qualifiche. La legge n. 93 del 1983 e la contrattazione collettiva manifestavano una propensione a non sovraccaricare di implicazione gli schemi e il processo di inquadramento. Era necessario creare una idea di qualifica come modello classificatorio in cui annoverare i rapporti in ragione del loro contenuto, stabilito, però, con la diretta identificazione delle mansioni. La volontà viene formata sui compiti, e l’atto di nomina, in primo luogo, seleziona l’oggetto della prestazione, cioè le mansioni, che sono utilizzate per poi procedere all’inquadramento del lavoratore.

1.1 La preferenza delle mansioni alla qualifica

Nella legge n. 93 del 1983 le qualifiche funzionali e i profili professionali costituivano dei modelli astratti di riferimento, per catalogare una articolata esperienza pratica, secondo linee uniformi nei vari comparti. Rispetto alla normativa antecedente, la legge-quadro testimonia, in grado maggiore che nel passato, l’intento di fare dell’inquadramento uno strumento per la selezione delle disposizioni vigenti sul rapporto individuale. I fini classificatori si impongono con decisione, perché le qualifiche della legge n. 93 del 1983 accentuavano gli elementi di generalità e si discostavano consapevolmente dalla specificità del rapporto di lavoro, per assurgere a profili riassuntivi. Il conferimento dell’inquadramento era necessario per stabilire il trattamento, grazie alla previa definizione delle norme riferibili alla posizione del dipendente pubblico.[7]

La lettura complessiva del senso dell’inquadramento, nella legge quadro, avrebbe dovuto acuire il distacco tra il piano della singola relazione di lavoro e quello del suo riesame, per la sua sussunzione nei modelli di raggruppamento prefissati. Tuttavia, le amministrazioni dimostravano una scarsa propensione ad inserire nelle nomine, o comunque nei provvedimenti incidenti sui rapporti di impiego, indicazioni univoche e concludenti sulle mansioni; almeno nella prassi, nella sussunzione e nel protrarsi del rapporto restava una sensibile predominanza della qualifica, come meccanismo di determinazione della professionalità e dei suoi sviluppi nella istituzione.

La giurisprudenza che aveva rivendicato, sia pure in modo non limpido, l’autonomia delle mansioni aveva enunciato la necessità, per gli enti pubblici, di dotarsi di atti appositi e formali, di fatto scarsamente diffusi, che dovrebbero stabilire per ciascun rapporto i compiti da eseguire. La tesi propensa a fare prevalere la qualifica ed a trarvi l’enucleazione dell’attività dovuta mantiene vigore, almeno nelle contingenti scelte operative, nelle quali spesso era dedotta convinzione secondo cui spetterebbe all’inquadramento chiarire la posizione del dipendente nella istituzione e nella sua organizzazione del lavoro. Peraltro, non era sempre agevole desumere dalla configurazione del rapporto e dei provvedimenti che potevano incidere come prestazioni siano richieste. Sovente, il problema principale era sondare le relazioni tra l’ente e l’impiegato, al di là delle indicazioni, normalmente scarne, degli atti formali, per decifrare a quale facere sia impegnato il lavoratore. La ricostruzione della volontà dell’amministrazione, nella quale dovevano essere privilegiate anche i momenti attuativi, e non solo provvedimenti scritti, era prodromica all’inquadramento, avendo come presupposto le mansioni definite ed affidate.

Nel paragone tra il particolare e i criteri classificatori, i maggiori margini di incertezza vengono attribuiti ai compiti assegnati, per le ambiguità cui spesso si abbandona il soggetto pubblico. Pertanto, stabilito quale poteva essere l’oggetto della prestazione, viene trovato il materiale per impostare il giudizio di inquadramento, secondo le declaratorie sviluppate soprattutto negli accordi collettivi. Come nell’area privata, le qualifiche funzionali hanno garantito la regolamentazione del rapporto di lavoro ed il trattamento retributivo. Nell’impiego privato erano ridimensionate le implicazioni gerarchiche dell’inquadramento; la classificazione dei livelli di per sé, non è considerata assolutamente indicativa (seppure non priva di rilievo a questo fine) della progressione all’interno della struttura imprenditoriale. Nell’area pubblica, dove la componente gerarchica è ancora più avvertita, il nesso con l’inquadramento è stringente. Vi è da chiedersi se cessi con la riproposizione delle mansioni come concetto autonomo e prioritario rispetto alle qualifiche, cui, tra l’altro, sono connesse componenti morali e di prestigio personale, oltre che professionale, secondo le indicazioni dell’art. 31 del T.U. del 1957. La demarcazione più limpida tra mansioni ed inquadramento non modificava la rilevanza del prestigio del lavoratore che restava notevole.[8]

Alla nomina e alla costituzione della relazione doveva, comunque, accompagnarsi o seguire, immediatamente, una valutazione sull’inquadramento. La priorità delle mansioni non riteneva superflua la designazione della qualifica. Al contrario, questa restava indispensabile; se l’ente non avesse potuto ricorrere dell’inquadramento, avrebbe potuto risalire al trattamento dovuto. Non viene meno il raccordo fra il contenuto della prestazione e la sussunzione negli schemi classificatori, ma variava soltanto nella scansione, perché dai doveri e dall’attività richiesta veniva costruita la qualifica. Posto che per l’attuazione del rapporto e per il calcolo delle retribuzioni occorreva procedere all’inquadramento, l’amministrazione era tenuta doveva manifestare le sue conclusioni sulla qualifica Le connesse implicazioni gerarchiche possono essere conservate, il principio dell’art. 96 disposizioni att. Cod. Civ. sul lavoro privato vige anche in quello pubblico, con l’obbligo per l’ente di comunicare le sue valutazioni sulla qualifica. Tuttavia, questa, nell’area pubblica, è quasi sempre nota fino dalla nomina, se non altro perché i concorsi sono sovente banditi ed espletati con la precisazione della posizione di inquadramento, l’amministrazione ha l’obbligo di comunicare la qualifica.

1.2 Il profilo professionale come meccanismo di inquadramento

Nel sistema ordito dalla legge n. 93 del 1983, oltre alla figura della qualifica funzionale, i meccanismi di inquadramento si fondavano sull’ulteriore schema del profilo professionale, la qualifica era la “sintesi di più profili professionali allineati orizzontalmente su di uno stesso livello retribuito”, mentre i profili costituivano “il momento fondamentale dell’intera costruzione della qualifica funzionale (in quanto è attraverso la loro definizione che vengono in rilievo le mansioni realmente svolte) e potevano raffigurarsi segmenti di una medesima linea orizzontale che raffigurava la qualifica funzionale. La progressione economica veniva effettuata nella stessa qualifica, la progressione giuridica necessitava di un concorso per la collocazione in un’altra qualifica.[9]

Le mansioni erano individuate attraverso i profili professionali, veniva controllato il contenuto delle prestazioni lavorative, i requisiti culturali, il sistema per accedere, il livello di autonomia, la mobilità ammissibile. Nell’impianto complesso della legge-quadro, la qualifica doveva formare raggruppamenti omogenei in cui annoverare una varia ed ampia tipologia di prestazioni e nei quali riassumere, perciò, molteplici ipotesi di collaborazione, in ambiti differenti dell’organizzazione del singolo ente e, ancor più, secondo linee tendenzialmente uniformi nelle tante strutture pubbliche, alla qualifica funzionale dovevano afferire mansioni classificabili al medesimo livello, ma espressioni di più dimensioni professionali.[10]

Nella qualifica e nelle sue declaratorie non si discerneva, in realtà, il facere di chi era inserito, tale carattere, del resto, era in sintonia con l’idea stessa di qualifica funzionale, designata a catalogare apporti resi in aree diverse dell’organizzazione pubblica, e in cui si contemplavano prestazioni con caratteristiche differenti, come dedotto dalle stesse esperienze degli accordi economici collettivi, il modello di classificazione riconduceva ad unità apporti di diversa natura, che concernevano tutti gli aspetti della struttura del lavoro, nelle aree in cui si scompone. Dunque, la qualifica si articolava in profili, o meglio in profili omogenei corrispondenti alla stessa qualifica, poiché questi, come era possibile dedurre dall’art. 18 della legge n. 93 del 1983, designava il valore professionale del contributo lavorativo, per raggruppare i rapporti con riguardo, in modo più stretto ed evidente, all’area in cui era inserito l’impiegato, pertanto per i caratteri empirici del suo facere. Mediante la definizione dei profili “erano in rilievo le mansioni realmente svolte”: se la qualifica ricomponeva le relazioni di servizio di dipendenti presenti in molti settori e con tipologie di compiti variegati, sia pure al medesimo livello di impegno, il profilo era ricondotto nelle componenti professionali e, con riferimento a ciascuna, predisponeva un meccanismo di inquadramento.

In particolare, dall’art. 18 della legge n. 93 del 1983 emergeva la priorità dell’atto di volontà proteso a determinare le mansioni; il profilo professionale non mostrava il novero dei doveri del dipendente, ma era un modulo per il ripensamento e la suddivisione delle professioni diffuse ed esercitate nella istituzione, considerate nella loro specificità. L’art. 18 riservava largo spazio alla successiva contrattazione collettiva, ed era prevalentemente rivolto ad orientarla e guidarla, con la semplice enunciazione di indirizzi di massima, vincolanti, però, per la funzione di organizzazione del lavoro, specialmente nei suoi sviluppi di confronto sindacale. Tuttavia, l’autonomia collettiva non era riuscita a modificare il meccanismo di inquadramento come mezzo per estendere le prestazioni lavorative da attribuire al lavoratore. Nell’impiego privato, l’espressione “qualifica”, nella sua pluralità di significati, se era spesso utilizzata per designare i raggruppamenti di rapporti omogenei al fine di definire il trattamento, acquista anche tra l’altro, e forse più consueto, valore di sinonimo di mansioni. Emergeva la questione se il profilo professionale potesse essere reputato non una categoria di classificazione, ma una “variante semantica” dei compiti assegnati, dell’oggetto della prestazione.[11]

Nell’art. 18 della legge-quadro era previsto che il profilo professionale si imponeva come un modello per riassumere in insiemi uniformi le relazioni di servizio affini per il contenuto del facere, pertanto il profilo professionale non avrebbe dovuto corrispondere alla qualifica in senso oggettivo, ma piuttosto ad uno schema di inquadramento, di classificazione delle prestazioni lavorative, per assegnare a ciascuno un trattamento secondo gruppi omogenei. Questi principi sono, in larga parte, asseverati nella esperienza, tuttavia talora frastagliata, della contrattazione collettiva: come la qualifica funzionale, anche il profilo dell’art. 18 era una forma di inquadramento, e non canone di designazione dell’attività dovuta, con la derivazione, e non con la priorità, rispetto alla delimitazione dell’ambito dei compiti assegnati, sebbene questo principio non traspaia, ad esempio, dal D.P.R. n. 1219 del 1984. Il profilo non è una “variante semantica” delle mansioni, alle quali è contrapposto. La contrattazione collettiva non è sempre riuscita a superare la tradizionale concezione dell’inquadramento come meccanismo di determinazione dell’estensione dell’obbligo di facere, nonostante, almeno in questa prospettiva, gli art. 17 e 18 avessero introdotto o lasciato trasparire modifiche al T.U. n. 3 del 1957; il risultato della ridotta originalità degli accordi economici, solamente in parte giustificata dagli enunciati degli art. 17 e 18, era stato il mantenimento di una forte rigidità nella suddivisione del lavoro, i contratti collettivi conservavano la propensione a fondare sulla predeterminazione di astratti organigrammi una razionale gestione del lavoro che avrebbe dovuto fare riferimento soprattutto alle mansioni ed è stata, invece, progettata ancora con riguardo all’inquadramento. In conclusione, gli esiti insoddisfacenti della riforma della legge-quadro, se risalgono al suo stesso impianto, possono essere addebitati anche agli accordi economici e alla prassi dell’amministrazione.

Gli art. 17 e 18 avevano prefigurato spunti, sia pure non limpidi ed univoci, che avrebbero meritato una più originale elaborazione, tentativi più fermi e risoluti per cogliere le il tema del nesso fra legge ed accordi economici collettivi appare particolarmente significativo nella materia dell’inquadramento, nella quale l’integrazione o comunque il collegamento tra le due fonti dovrebbero essere potenzialità insite, o forse implicite, nell’impianto legislativo: in particolare, l’occasione di rivalutare le mansioni e la concreta volontà dell’amministrazione non è stata sfruttata appieno dalla contrattazione collettiva, e non si sono introdotti quegli elementi di maggiore flessibilità che si sarebbero potuti correlare ad una convinta riproposizione della prestazione come cardine del rapporto di servizio. Le potenzialità di cambiamento degli art. 17 e 18 non avevano avuto piena valorizzazione anche per la carenza di chiarezza del disegno normativo. L’istituto del profilo professionale era stato, forse, ancora più sacrificato della qualifica funzionale, per la sua peculiarità di essere un modulo di inquadramento legato, a differenza dell’altro, alla sostanza professionale del facere. L’idea del profilo era di creare nelle qualifiche gruppi più ristretti, in ragione dell’area di attività, per consentire all’inquadramento di aderire maggiormente al lavoro e di coglierne le molteplici valenze; invece, poiché, in parte, gli accordi collettivi non avevano conferito alla qualifica il dovuto risalto, la scansione con il profilo ha perso di linearità. Questo era il quadro d’insieme, prospettato, prima dell’entrata in vigore del decreto di privatizzazione del rapporto di lavoro del pubblico impiego.[12]

2 Il processo di privatizzazione

La materia del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è caratterizzata dalla privatizzazione attuata con il d.lsg. n. 29 del 1993 che ha attribuito ai contratti collettiva di lavoro il potere di disciplinare il rapporto di lavoro.[13]

L’art. 56 del d. lgs. n. 29 del 1993 nel suo testo definitivo appunto, modificato dall’articolo 25 del d.lsg. 80 del 1998 che prevede integra la regola della privatizzazione, disciplina lo spostamento delle mansioni, rinviando espressamente alla contrattazione collettiva la predisposizione di una “nuova disciplina degli ordinamenti professionali”, destinata a fungere da necessario quadro di riferimento per l’operatività stessa della rinnovata disciplina legislativa delle mansioni (sesto comma). In questo senso l’art. 56 si presenta come un sistema normativo, suscettibile di distinti approcci interpretativi a seconda che ad esso guardi nella sua interezza o che lo si scomponga in frammenti a ciascuno dei quali è possibile attribuire un proprio specifico valore precettivo.[14]

Dal sistema riformatore complessivo emerge che la classificazione delle mansioni ed il relativo inquadramento professionale dei lavoratori viene devoluta  nel lavoro pubblico, come per il settore privato, alle determinazioni dell’autonomia collettiva. Alla quale ultima è affidata anche la possibilità di predisporre percorsi di sviluppo professionale, eventualmente imperniati anche sull’avvenuto svolgimento da parte del dipendente di mansioni superiori a quelle della qualifica di appartenenza, idonei a consentire il superamento dell’iniziale preclusione ad avanzamenti automatici nell’inquadramento professionale del lavoratore, in quanto basati sul mero fatto compiuto. Una seconda annotazione di carattere generale riferibile alla vecchia normativa evidenzia, circa gli effetti dell’opera di rinormazione operata dal legislatore in merito all’applicabilità o non applicabilità al lavoro pubblico delle disposizioni dettate a regolamentazione del rapporto di lavoro alle dipendenze del privato imprenditore: l’utilizzazione di tale tecnica consente, infatti, di esprimere considerazioni interpretative fondate più che sulla mens legis sulla reale intenzione del legislatore.

Ancorché l’argomento sia, di consueto, debole ed utilizzabile solo come sostegno ad altri, più aggiuntivi, nel caso di riforme come questa, formulate per progressivi aggiustamenti, esso assume un rilievo particolare perché segnala l’insistente limatura e precisazione della disciplina speciale, comportando, nel caso, la possibilità di argomentare la sicura non applicabilità del precedente articolo del 2103 Cod. Civ., in quanto tale, al rapporto di lavoro del dipendente pubblico. Delle regole che nella disposizione riferisce al lavoro svolto alle dipendenze di un imprenditore privato sono state fatte proprie dal legislatore della “privatizzazione” e si applicano dunque al lavoro pubblico secondo un preciso disegno di tutela della professionalità del lavoratore nel rispetto delle compatibilità organizzative e finanziaria della pubblica amministrazione.

Se viene controllata la preannunciata scomposizione, si può subito osservare come il primo inciso del primo comma, il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ovvero quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive, confermi nella sostanza e nella forma il principio di contrattualità delle mansioni anche nel lavoro pubblico, delineando in termini netti lo specifico oggetto dell’obbligazione lavorativa: la formulazione utilizzata ricalca significativamente il corrispondente vecchio testo dell’art. 2103 del Cod. Civ., pur con alcune differenze che meritano senz’altro di essere qui analizzate, anche per le rilevanti implicazioni di sistema che alcune di esse possono essere ricondotte. Pertanto, la prima diversità riguarda la diversa sequenza logica utilizzata nei due testi normativi. L’art 2103 Cod. Civ. prevedeva l’adibizione del lavoratore alle mansioni di assunzione o a quelle superiori eventualmente acquisite nella propria progressione professionale, ovvero a quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte. Se le prime due ipotesi rientrano pacificamente nell’ambito di ciò che è stato specifico oggetto di accordo fra datore e prestatore di lavoro, lo spostamento a mansioni equivalenti  ricondotta al potere unilaterale del datore di lavoro, connessa all’esercizio del cosiddetto jus variandi, suscettibile di un controllo esclusivamente successivo da parte del giudice, con tutte le ambiguità ed incertezze connesse ad una nozione “equivalenza” priva di precisi parametri di riferimento e contenente, come era stato rilevato un criterio relazionale fra mansioni di provenienza e mansioni di destinazione.

Nel caso del dipendente pubblico, invece, le mansioni di assunzione e quelle equivalenti sembrano poste sul medesimo piano, quale oggetto specifico ed immediatamente identificabile anche ai sensi dell’art. 96 disposizioni attuative del Cod. Civ. e della disciplina europea in materia  dell’obbligazione dedotta in contratto, in ragione del preciso riferimento alla “classificazione professionale prevista dai contratti collettivi” quale parametro di valutazione della richiesta “equivalenza”: in questo senso, tutte le mansioni che il sistema di individua come equivalenti risultano suscettibili di costituire, fin dalle origini, elementi dell’obbligazione lavorativa, svincolando il giudizio di equivalenza dagli oscillanti percorsi interpretativi di una giurisprudenza che, nel settore privato, era chiamata ad integrare il generico  disposto normativo.[15] Nel settore pubblico il giudice interviene se le clausole non sono comprensibili e violano il dovere di correttezza.

2.1 La tutela della professionalità del dipendente pubblico

La disposizione normativa prevede che il lavoratore il divieto di dequalificare il lavoratore, la questione affrontata è stata quella della tutela che gli viene attribuita. La norma ricalca il contenuto dell’articolo 2103 del c.c. sulla disciplina delle mansioni.[16] La certezza è costituita da un crescente riconoscimento del fatto che l’illegittima assegnazione a mansioni inferiori, così come l’eventuale svuotamento del contenuto delle mansioni assegnate, provocano un danno risarcibile per lesione alla professionalità del lavoratore.

L’indirizzo che viene seguito per una convincente ricostruzione interpretativa dei fondamenti giuridici della nozione stessa di “danno alla professionalità” è, probabilmente, quella autorevolmente suggerita in dottrina in merito all’esistenza di un obbligo del datore di lavoro al rispetto della personalità morale del prestatore di lavoro subordinato, sicuramente enucleabile dal dettato di cui all’art. 2087 Cod. Civ. con un relativo radicamento contrattuale della responsabilità medesima. Nulla vieta al trasferimento di una tale tematica anche nel lavoro pubblico, ove la relativa casistica può essere ulteriormente arricchita dalla eventualità, per ovvie ragioni sconosciuta al lavoro privato, di un’adibizione del dipendente a mansioni inferiori rispetto a quelle corrispondenti alla qualifica di assunzione già in sede di prima assegnazione delle mansioni stesse. Ipotesi, questa, configurabile essenzialmente in ragione dei residui margini di rigidità nell’accesso al lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione: soprattutto a causa dell’inevitabile vischiosità nell’adeguamento delle vecchie prassi alla rinnovata logica privatistica, ben si può immaginare il caso del dipendente che, vinto il concorso e formalmente assunto per lo svolgimento di mansioni di un certo livello, viene in realtà adibito a mansioni inferiori.

Il datore di lavoro pubblico, infatti, tramite il personale preposto alla funzione dirigenziale esercita i “poteri” privatistici di organizzazione e gestione del personale non già, come precedentemente si è sottolineato, nell’ambito di quegli spazi di libertà dell’iniziativa economica garantita ai soggetti privati dall’art. 41 della Costituzione, bensì nello svolgimento di un’attività funzionalizzata: in questo senso, considerato che l’adesione al dettato normativo  è, condizione legittimante dell’esercizio di una qualunque funzione pubblica, deve essere predisposto l’eventuale ordine di reintegrazione del dipendente nelle mansioni che gli spettano e l’eventuale annullamento dell’atto.[17]

La disciplina delle mansioni nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, licenziamento illegittimo con conseguente reintegrazione del dipendente nel proprio posto di lavoro, non dovrebbero incontrare i limiti della cosiddetta incoercibilità degli obblighi di fare infungibili tradizionalmente invocati, nel rapporto di lavoro privato, in merito all’incoercibilità, appunto, della collaborazione creditoria sempre richiesta al datore di lavoro affinché la prestazione possa svolgersi, adempiendo l’obbligazione dedotta in contratto. In realtà, come giustamente è stato rilevato a tale proposito, le nozioni stesse di “fungibilità e infungibilità tengono tipicamente alle prestazioni dovute dai privati, avuto riguardo alla preminenza delle posizioni di libertà e di intangibilità della sfera personale”, laddove sono difficilmente reperibili agli atti strutturalmente posti in essere da un soggetto pubblico cui è affidato l’esercizio di un’attività funzionalizzata.

2.2 L’esercizio flessibile del potere direttivo

Una nozione flessibile della qualifica professionale è stata prospettata, nelle pieghe dell’interpretazione della disciplina relativa alle mansioni, i condizionamenti di tipo pubblicistico sono più indiretti e nascosti, pertanto richiedono un sforzo costruttivo al giurista per fornire risposte coerenti col progetto complessivo della riforma, la formula linguistica  del primo comma dell’art. 56 del decreto legislativo n. 1993 ha  introdotto il principio di corrispondenza tra mansioni e qualifica professionale stabilendo finalmente, anche nel lavoro pubblico, la prevalenza delle mansioni effettive sull’inquadramento formale, in precedenza esclusa. Appare creata per consentire un’adeguata elasticità della prestazione, riconoscendo in capo al datore pubblico il potere di esigere lo svolgimento delle “mansioni proprie della qualifica di appartenenza”, e comunque di quelle complementari e strumentali al “perseguimento degli obiettivi di lavoro”.

Costituisce una previsione, quest’ultima, che può considerarsi del tutto ovvia in una prospettiva realmente privatistica. Eppure il legislatore l’ha ritenuta tutt’altro che superflua, anzi necessaria, rivelando così il vero scopo o la ratio della norma.[18] Un omaggio a quel criterio generale di flessibilità organizzativa che caratterizzava il nuovo modello normativo del modello pubblico, evocato dall’esplicito riferimento ai risultati della prestazione; era anche discutibile se potesse essere fornita una direttiva della contrattazione collettiva, sul presupposto che le declaratorie delle mansioni, nell’ambito di ciascuna qualifica, debbano teleologicamente orientarsi agli obiettivi della concreta dimensione organizzativa.  La qualifica precedente alla privatizzazione era caratterizzata da un’eccessiva rigidità ed era un mero referente astratto dell’obbligazione di lavoro, viene predisposta a diventare più duttile, sino a ricomprendere i compiti strumentali alle mansioni. In altri termini, la revisione normativa passa attraverso una ridefinizione in senso flessibile della qualifica, anziché attuare la rivalutazione dello specifico contenuto professionale della prestazione dovuta.

Sebbene l’art. 56, d. lgs. n. 29 del 1993 privilegi il riferimento letterale alle “mansioni”, la tecnica normativa utilizzata rinvia ancora ad una nozione di qualifica, intesa non tanto come criterio contrattuale di classificazione di compiti ma quale strumento d’individuazione dell’area di estensione del facere del dipendente pubblico. La rilevanza delle mansioni concretamente svolte non emerge neppure sul piano retributivo se è vero che l’assegnazione di compiti specifici, pur “non prevalenti”, della qualifica superiore non comporta alcuna modifica per le mansioni. Alla suggestione della continuità con la tradizione pubblicistica non si sottrae neppure la dottrina più risoluta nel rintracciare nel disposto dell’art. 56, d. lgs. n. 29 la conferma dei principi propri della fonte privatistica. Le mansioni esigibili erano: le mansioni della qualifica di appartenenza, le attività complementari e strumentali al perseguimento degli obiettivi di lavoro, le attività specifiche non prevalenti della qualifica superiore e le mansioni immediatamente inferiori occasionali. Gli interventi del 1998 hanno integrato la disposizione normativa delle mansioni esigibili: le mansioni di assunzione devono essere comunicate al lavoratore, le mansioni superiori non prevalenti, viene considerato il contenuto per l’ammissibilità dello spostamento e sono inserite  le mansioni equivalenti individuate dal contratto collettivo.[19]

In particolare l’adibizione del dipendente pubblico allo svolgimento dei compiti inerenti alla qualifica era già stata introdotta dall’art. 31 D.P.R. n. 3 del 1957 ed interpretato in modo rigoroso dalla giurisprudenza amministrativa. L’applicazione dell’art. 56 d. lgs. n. 29 del 1993 “non si discosta da questa linea interpretativa” ed il potere modificativo dell’amministrazione risulta circoscritto, come in precedenza, in base al requisito dell’omogeneità o dell’intercambiabilità dei profili professionali, senza alcun ampliamento del facere esigibile dal lavoratore pubblico rispetto a quello privato. Quanto all’individuazione d’un principio o criterio di corrispondenza fra il contenuto dell’obbligazione lavorativa e il diritto alla qualifica, occorre evitare gli equivoci. Mentre è espressamente riconosciuto al dipendente privato il diritto di rivendicare ed ottenere la qualifica inerente alle mansioni di assunzione o successivamente svolte, il procedimento logico-giuridico è inverso nel settore pubblico: siccome l’accesso all’impiego avviene per qualifiche predeterminate ed inserite per pianta organica, è in base alla “qualifica di appartenenza” (opportunamente delineata in modo classico) che il dipendente “deve essere adibito alle mansioni proprie” a norma dell’art. 56, comma 1, d. lgs. n. 29 del 1993, da ciò derivando il suo diritto a svolgere i compiti in essa ricompresi. Tale ricostruzione interpretativa finisce per assimilare lo jus variandi del datore di lavoro pubblico al precedente modello privatistico.

Con riguardo alla mobilità c.d. “orizzontale” si ricorre ad argomenti testuali: mancando una deroga espressa ovvero una disciplina speciale (come ad es., per quella “verticale”), sembra ragionevole ipotizzare una compiuta operatività del potere modificativo in capo all’amministrazione con il limite intrinseco dell’equivalenza professionale. Ma, proprio la svalutazione del profilo oggettivo e professionale della prestazione lavorativa dell’inquadramento, dovrebbe suggerire una diversa conclusione.[20] E, pur ammettendo l’esercizio di “una sorta di jus variandi verso l’alto e verso il basso”, è indubbio che risulti caratterizzato da una più intensa discrezionalità (rispetto alla prerogativa del datore privato), in quanto unicamente condizionato non già dall’esigenza di tutela della professionalità del dipendente, bensì dal sistema di classificazione formale. Dalla formulazione normativa dell’art. 56, comma 2, d. lgs. n. 29 del 1993 traspare la volontà del legislatore di infrangere il rigoroso concetto privatistico di mansioni “equivalenti”, considerando sia le mansioni superiori prevalenti sia quelle immediatamente inferiori occasionali. Il risultato non cambia se si ritiene che l’adibizione del dipendente pubblico a determinati compiti appartenenti alla qualifica superiore o inferiore non costituisca un’ipotesi di jus variandi (verticale né orizzontale), realizzando invece una semplice modifica “interna” dell’obbligazione lavorativa, una specificazione del facere ricollegabile al potere direttivo.[21]

Il raggiungimento svela per intero il suo carattere fittizio, che ha l’unico obiettivo di salvaguardare dalle anomalie (che la riforma vi ha introdotto) la configurazione privatistica dello jus variandi, del quale poi si tenta l’innesto nel settore pubblico.[22] Per determinare l’equivalenza vengono considerate le mansioni di assunzione del lavoratore. L’art. 56, comma 2, d. lgs. n. 29 del 1993 disciplina pur sempre all’assegnazione di compiti e mansioni inerenti a qualifiche diverse da quella “di appartenenza” al datore di lavoro pubblico è riconosciuto un potere modificativo, appunto, che si esercita all’esterno della qualifica, e non all’interno. Comunque lo si voglia etichettare, è indubbio che l’esercizio di tale prerogativa prescinda dalla pretesa rilevanza giuridica del contenuto professionale delle mansioni;[23] è legittima tout court l’attribuzione di compiti non prevalenti ricompresi nella qualifica superiore, viene adeguato il trattamento retributivo. Al lavoratore potevano essere attribuite le mansioni immediatamente inferiori a quelle di adibizione, doveva essere uno spostamento occasionale e doveva essere necessario.

3 Le novità del testo unico del pubblico impiego

L’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 contiene la disciplina delle mansioni nel rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni. Nella prima versione[24] del d.lgs. n. 29 del 1993 tale disciplina si trovava suddivisa in due articoli: l’art. 56, rubricato «mansioni» e l’art. 57, rubricato «Attribuzione temporanea di mansioni superiori». Il d.lgs. n. 80 del 1998 ha invece provveduto a ricompattare in un unico articolo la materia abrogando, mediante l’art. 43, primo comma, l’art. 57, ed inserendo la nuova disciplina relativa alle mansioni superiori nell’art. 56, a sua volta modificato mediante l’art. 25. Il tutto è stato poi trasfuso nell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001. Su di un piano generale, si può subito osservare che, a seguito della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, non v’è più ragione per non attribuire alla nozione di mansioni utilizzato dall’art. 52 lo stesso significato che esso assume nel rapporto di lavoro con i datori di lavoro privati, laddove sta a designare l’attività lavorativa il cui svolgimento costituisce il contenuto più qualificante dell’obbligazione che il contratto di lavoro pone in capo al lavoratore. La materia disciplinata dall’art. 52 nel suo complesso riguarda più specificamente la modificazione delle mansioni del dipendente pubblico. Sono previste peraltro anche disposizioni in materia di inquadramento (e quindi di trattamento), ma risultano sempre connesse alle mansioni ed al loro mutamento.[25]

Le norme in commento regolano il legittimo ambito di variazione dei compiti lavorativi delimitando la direzione di modificabilità della prestazione lavorativa. È previsto infatti che il lavoratore deve essere adibito esclusivamente:

  • a) alle mansioni per le quali è stato assunto (primo comma, 1° periodo); in alternativa ed eventualmente,
  • b) alle mansioni considerate equivalenti dai contratti collettivi (primo comma, 1° periodo),
  • c) alle mansioni corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive (primo comma, 1° periodo);
  • d) al di fuori dell’ipotesi precedente, può essere adibito a mansioni proprie della qualifica superiore solo temporaneamente ed in casi tassativi (secondo comma, lett. a e b).

La riforma del 2009 ha modificato  il primo comma dell’articolo 52 del d.lsg n 165 del 2001, sostituisce il rinvio alla contrattazione collettiva con l’inquadramento, ha inserito il comma bis ed il comma ter, nella norma, il comma ter nel 2013 è stato abrogato,  tuttavia l’inquadramento resta determinato dal contratto collettivo di lavoro.[26]

Nell’ambito delle mansioni erano state apportate modifiche dalle leggi 11 luglio 1980 n. 312 e 29 marzo 1983 n. 93 per il sistema fondato sulle carriere, introducendo quello basato sulle qualifiche funzionali: solo in presenza di speciali esigenze di servizio era consentita la temporanea utilizzazione del dipendente nella funzione appartenente ad altra qualifica. La giurisprudenza amministrativa aveva individuato l’esistenza di un vero e proprio diritto allo svolgimento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza ed alla progressione giuridica ed economica per anzianità; era stato inoltre individuato un diritto in favore del dipendente a non rimanere inattivo e senza incarichi.

Del resto già la giurisprudenza amministrativa, formatisi con il precedente ordinamento, aveva ritenuto che le mansioni proprie di ogni qualifica comprendessero anche adempimenti propri di qualifiche dello stesso ruolo immediatamente superiore o inferiore, purché svolte con carattere di accessorietà e strumentalità.[27]  Nella formulazione dell’art. 56, come modificato dal d. lgs. n. 80 del 1998, ora art. 52 d. lgs. n.165 del 2001, non vi è più il riferimento allo svolgimento di compiti complementari e strumentali al perseguimento di obiettivi di lavoro, prima inserito al primo comma della stessa norma. Non sembra, tuttavia, che dall’eliminazione dello stesso inciso possano conseguire pratici effetti, considerato che lo svolgimento di compiti complementari e strumentali è insito nella prestazione lavorativa. La norma introduceva un principio di elasticità nel sistema che non può essere considerato eliminato solo per il fatto che la nuova formulazione non lo riporta. Le mansioni complementari e strumentali sono quelle che pur non previste nella declaratoria contrattuale sono connesse a quelle principali, per cui il loro svolgimento si rivela opportuno o necessario per il proseguimento degli obiettivi di lavoro. Come ben evidenziato da parte della dottrina, l’inciso in questione appariva in ogni caso superfluo, la possibilità di esigere non solo le mansioni inerenti alla qualifica, ma anche i compiti complementari e strumentali al perseguimento degli obiettivi del lavoro, è prevista in molti contratti collettivi.

L’art. 52, comma terzo, d. lgs. n. 165 del 2001 prevede che possono essere svolte le mansioni superiori che non comportano una modifica retributiva o dell’inquadramento, essenziale è che non siano prevalenti nel rapporto di lavoro. La suddetta norma considera “svolgimento di mansioni inferiori, ai fini del presente articolo, soltanto l’attribuzione in modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di dette mansioni”. Da tale disposizione, applicazione del principio della flessibilità nello svolgimento, discende che l’assegnazione a mansioni superiori è rilevante, ai fini retributivi o per altri eventuali effetti espressamente previsti, soltanto ove il loro esercizio avvenga in modo del tutto prevalente, sotto il profilo quantitativo, qualitativo e temporale, dei compiti propri di dette qualifiche. D’altro canto lo svolgimento delle stesse mansioni in maniera non prevalente, secondo i criteri indicati, non può comportare alcuna conseguenza in favore del lavoratore. Rispetto alla formulazione precedente che non prevedeva quali dovessero essere i criteri sulla base dei quali individuare la prevalenza, la norma novellata prevede con chiarezza che la prevalenza deve essere valutata secondo i tre criteri quantitativo, qualitativo e temporale La gestione del rapporto, improntata a criteri di elasticità e flessibilità, finisce con l’assumere connotati che la differenziano nettamente rispetto alla tradizionale gestione burocratica del pubblico impiego.

Nel nuovo art. 56 scompare del tutto il riferimento alla qualifica di appartenenza, la norma novella che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto” ricalcando integralmente l’incipit del precedente art. 2103 Cod. Civ. viene abbandonato  il concetto di qualifica in favore di quello delle mansioni. Appare così definitivamente superata la tesi della priorità delle qualifiche sulle mansioni che caratterizzava il precedente sistema.[28] Pertanto, anche nel rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione si deve ormai ritenere che le mansioni fungono da criterio di determinazione qualitativa della prestazione e tramite esse viene delimitata gran parte dell’area del debito del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.

L’estensione del principio di contrattualità delle mansioni a tutti i rapporti di lavoro di cui all’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, segna il punto in cui la disciplina delle mansioni è penetrata integralmente nell’ordinamento del lavoro, il lavoratore deve svolgere le mansioni che gli vengono attribuite da contratto.

Il lavoratore del pubblico impiego ha il diritto al risarcimento del danno eventualmente provocato, che può richiedere una pronuncia giudiziale che condanni il datore di lavoro a riassegnare al lavoratore l’originario incarico o un altro di contenuto equivalente. Diversamente, quest’ultimo potrebbe decidere di rifiutarsi di eseguire le mansioni assegnategli in forza di un ordine di adibizione ritenuto illegittimo, avvalendosi delle tecniche di autotutela individuale. Per questo profilo, tenuto conto che gli atti di gestione del rapporto di lavoro sono assoggettati in entrambi i settori alla disciplina degli atti negoziali, l’illegittimo esercizio del potere datoriale darà luogo ad un’ipotesi di nullità, secondo la lettura allo stato maggioritaria in giurisprudenza, ad un inadempimento contrattuale avverso cui opporre il rimedio sinallagmatico di cui all’ art. 1460 Cod. Civ. (exceptio, inadùnpleti, contractus).  Stabilita l’operatività del principio di contrattualità delle mansioni e del suo principale corollario, consistente nell’illegittimità degli spostamenti verso il basso, rimangono alcune divergenze circa la possibilità di estendere all’impiego pubblico privatizzato la disciplina rafforzativa della nullità il divieto di patti contrari (individuali o collettivi). Un disposizione applicabile, nonostante un parte della dottrina esclude la compatibilità di tale previsione con la disciplina complessivamente contenuta nell’art. 52, d.lgs. n. 165/2001, appare preferibile la lettura che attribuisce alla disposizione codicistica una funzione regolatrice generale, destinata a riespandersi ogni qual volta si debbano colmare spazi sprovvisti di un’esplicita disciplina nel testo unico del pubblico impiego.[29]

La volontà era di allineare il settore pubblico ai modelli garantistici valevoli per il privato. Tuttavia, la disciplina dello jus variandi contenuta nell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 ha segnato storicamente il punto in cui si registra la massima distanza normativa tra lavoro pubblico e privato. L’articolo in questione, infatti, rientra tra le «diverse disposizioni» a carattere imperativo che l’art. 2, comma 2, del t.u.p.i. fa espressamente salve, assicurandone la prevalenza rispetto alla regola generale dell’assoggettamento dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici alle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile ed alle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa. L’adozione di una disciplina speciale è figlia di alcuni lasciti del previgente regime pubblicistico e risente degli evidenti retaggi che esso ha trasferito nel nuovo quadro normativo per salvaguardare la peculiare strutturale delle amministrazioni pubbliche.[30]

Sotto questo profilo, è noto che i processi di definizione degli assetti organizzativi sono rigidamente condizionati dall’esterno, in quanto le fasi prodromiche della programmazione dei fabbisogni e della definizione delle dotazioni organiche complessive sono tuttora sottratte alla privatizzazione. Queste caratteristiche, unite alle esigenze di controllo della spesa pubblica, hanno imposto che nell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 convivessero un’architettura di base, fedele alla logica della gestione privatistica dei rapporti di lavoro, ed una serie di deviazioni funzionali, introdotte per assicurare la corrispondenza fra mansioni e posti in dotazione organica e soprattutto la tenuta degli equilibri di bilancio. A valle di questa disciplina si colloca l’art. 97 Cost, diffusamente richiamato per giustificare la diversità di disciplina rispetto all’impiego privato in nome dei principi di imparzialità e buon andamento che ogni amministrazione pubblica è tenuta ad osservare a tutela degli interessi della collettività. Per queste ragioni, la disposizione in commento emanata dal 1993 viene riconosciuta con l’appellativo di microsistema normativo autoconcluso al quale è doveroso fare riferimento per ogni questione attinente alle mansioni,[31] all’inquadramento ed anche alla professionalità del lavoratore pubblico. La ricaduta più rilevate di questo processo di ibridazione normativa è rinvenibile nella scelta di dispensare l’art. 52 dal rispetto del principio di effettività nel mutamento di mansioni, in evidente antitesi con il paradigma regolativo che costituisce il tratto caratterizzante della disciplina nel settore privato. Si tratta di uno scostamento presente nella maggior parte dei profili attinenti alle fattispecie di mobilità orizzontale e verticale. Per quanto riguarda la disciplina dello jus variandi verso l’alto la principale differenza rispetto al settore privato consiste nell’irrilevanza, se per obiettivi meramente economici, delle mansioni svolte dal lavoratore, vengono considerate le mansioni di adibizione.

3.1 Le novità nelle mansioni

La norma dispone che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni di assunzione. Il «deve» utilizzato dal legislatore, da un lato fissa un divieto per la pubblica amministrazione, imponendo ad essa un obbligo di non fare, attribuendo quindi al lavoratore il diritto di essere adibito alle mansioni ricomprese tra quelle di assunzione, anche se non è idonea a fondare un più generale diritto del lavoratore allo svolgimento della prestazione; dall’altro lato sta a significare un obbligo del dipendente di accettare di essere adibito alle mansioni di assunzione.[32]

La disposizione riflette la contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, sancisce il principio della contrattualità delle mansioni. Pertanto, anche per il dipendente della pubblica amministrazione si può orami affermare che la prestazione alla quale egli è (inizialmente) tenuto è quella (che deve essere) determinata nel contratto di assunzione; e non in maniera generica, bensì attraverso la individuazione di compiti specifici (mansioni) da svolgere nell’organizzazione dell’ente pubblico. In particolare, la determinazione trova ormai la sua fonte nel consenso inizialmente prestato dalle parti e non in un atto amministrativo-unilaterale della pubblica amministrazione, come avveniva in precedenza. Pertanto, riflette la più generale disciplina della costituzione del rapporto, che non prevede più l’atto di nomina, come ribadito anche dall’art. 35, d.lgs. n. 165 del 2001, secondo cui «l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene con contratto individuale di lavoro». Sicché il consenso prestato dal lavoratore in sede di assunzione ha carattere negoziale e quindi produce un effetto costitutivo del rapporto e del relativo oggetto allorquando si incontra con la volontà della pubblica amministrazione.

È pur vero che, per ragioni costituzionali (art. 97 Cost.), il «reclutamento del personal» non può avvenire liberamente, bensì attraverso il meccanismo del concorso (art. 35, primo comma, lett. a); ma questo limite all’autonomia negoziale (per il quale il legislatore ha mantenuto l’impianto pubblicistico con conseguente devoluzione delle relative controversie al giudice amministrativo) attiene alla fase preassuntiva, in relazione all’individuazione dell’altro contraente. Per l’instaurazione del rapporto, questa avverrà con l’incontro della volontà delle parti, che potrà aver luogo con l’accettazione della proposta di assunzione inviata dalla pubblica amministrazione al soggetto selezionato attraverso il concorso ovvero, ove si qualifichi il bando di concorso in termini di offerta al pubblico al momento della vincita dello stesso concorso dal lavoratore.[33]

Per alle mansioni di assunzione deve essere affrontata innanzitutto la questione sulla loro individuazione. Infatti, attraverso tale individuazione, non solo si circoscrive l’obbligazione lavorativa risultando così soddisfatto, altresì, il requisito di determinatezza del contratto (art. 1346 Cod. Civ.), ma, inoltre, si coglie compiutamente quella «diversità» delle mansioni a cui dovesse essere adibito successivamente il dipendente, in presenza della quale si realizza la vicenda modificativa rilevante ai fini dell’applicazione della regola dell’equivalenza. Occorre infatti considerare che non tutte le variazioni di compiti o posti lavorativi determinano una vicenda modificativa delle mansioni di assunzione. Ciò è agevolmente intuibile se si considera che la «mansione» è considerata l’unità elementare di un «facere» la quale, combinata in modo tendenzialmente stabile con altre singole operazioni, dà vita ad un insieme tipico, e perciò unitario, di compiti, che vengono così a formare un determinato tipo di attività o «modello di prestazione», che, di norma, eccetto il caso limite delle prestazioni unimansionali, costituisce il contenuto della obbligazione oggetto del contratto di lavoro. Sicché, i diversi compiti che formano tale modello, in virtù della loro tipicità e quindi della loro unitarietà, corrispondono tutti alle mansioni di assunzione.

Conseguentemente le modifiche attuate in questo ambito non realizzano il mutamento dell’oggetto del contratto, ma si configurano semplicemente come l’effetto dell’esercizio del potere direttivo, tramite il quale il creditore di lavoro non modifica la prestazione dedotta in contratto ma, individuando i compiti concreti che il lavoratore deve svolgere, ne specifica soltanto il contenuto. Per individuare i suddetti modelli di prestazione, in un rapporto ormai privatizzato, occorre in primo luogo far riferimento a quanto stabilito nel contratto individuale di lavoro, nel quale, per espressa disposizione di tutti i contratti collettivi di comparto, devono obbligatoriamente essere indicate la qualifica e le corrispondenti mansioni di assunzione. Non è invece condivisibile la tesi secondo cui, dalla differente formulazione dell’art. 52 rispetto al primo periodo dell’art. 2103 Cod. Civ., si dovrebbe dedurre che le mansioni equivalenti rientravano fin dall’inizio quale oggetto specifico dell’obbligazione dedotta in contratto di lavoro.[34] Il consenso delle parti a livello individuale si formerà, dunque, con riferimento alle qualifiche o ai profili professionali previste dai suddetti contratti collettivi.

Anche le « posizioni organizzative », previste da alcuni contratti collettivi all’interno dell’area impiegatizia più elevata, e consistenti in incarichi a termine specificamente retribuiti per lo svolgimento di mansioni di particolare valore o di direzione di unità organizzative, sono da ritenere incluse nelle mansioni dedotte inizialmente in contratto, in quanto è previsto che possano essere assegnate ai dipendenti inquadrati in tale categoria, ampliando così i confini dell’obbligazione lavorativa, per configurare, in definitiva, mansioni promiscue di tipo « verticale ». Nei casi in cui dalle suddette fonti risultino analiticamente indicati tutti i compiti lavorativi compresi nelle mansioni di assunzione, oppure nell’ipotesi in cui le mansioni si sostanzino in compiti molto semplici, l’operazione di identificazione degli esatti confini della prestazione dedotta in contratto risulterà agevole. Tale operazione potrebbe invece diventare più difficoltosa ed incerta qualora le mansioni di assunzione vengano individuate esclusivamente mediante un mero rinvio ad una qualifica o profilo professionale previsto dal contratto collettivo. Se è pur vero, infatti, che anche nel rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni ormai la qualifica deve essere intesa come « variante semantica » delle mansioni di assunzione, ovvero come indicatore o serie rappresentativa dei compiti potenzialmente esigibili nel quadro della prestazione programmata dai contraenti, tuttavia non sempre tale referente può essere sufficiente per una inequivoca ed esauriente individuazione delle mansioni convenute, trattandosi spesso di espressioni generiche che solo apparentemente designano profili professionali ben precisi. In tali casi, come accade nel rapporto di lavoro «comune», si pone un problema di interpretazione della volontà dei contraenti, che va risolto in base a nozioni di esperienze ed a dati di tipicità ambientale assunti dalle parti come usi interpretativi ai sensi dell’art. 1368 del Cod. Civ sulle regole di interpretazioni del contratto, sono controllate le attività che caratterizzano un determinata qualifica nell’organizzazione dell’ente pubblico.

Per quanto concerne l’individuazione delle mansioni dedotte in contratto permane, tuttavia, una sensibile differenza tra rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni ed il settore privato, in relazione alla diversa rilevanza che assume lo svolgimento di mansioni non corrispondenti alla qualifica per la quale il lavoratore è stato assunto. Come è noto, nel rapporto di lavoro privato vige il principio della effettività delle mansioni convenute, e cioè della prevalenza delle mansioni in concreto svolte rispetto alla qualifica formalmente indicata all’atto dell’assunzione (o anche successivamente). Lo svolgimento in via di fatto di queste mansioni nel settore privato, in quanto comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto (art. 1362 Cod. Civ.), rileva come espressione della volontà dei contraenti ed è quindi idonea a configurare un accordo modificativo dell’originaria qualifica pattuita. Tale accordo modificativo incide sia ai fini dell’individuazione della prestazione lavorativa dedotta in contratto, sia, ovviamente, ai fini del relativo inquadramento.[35]

I suddetti principi non valgono invece per il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, in cui l’esercizio di fatto di mansioni differenti da quelle della qualifica di appartenenza è irrilevante, sia ai fini dell’inquadramento, come espressamente sancito dall’art. 52, primo comma, ultimo periodo, sia, si deve desumere, ai fini dell’individuazione della prestazione dedotta in contratto. Quest’ultima, dunque, non può che essere quella risultante dalla qualifica formalmente indicata nel contratto, la quale, quindi, assume a tal proposito valore vincolante. Del resto, la necessaria coincidenza delle mansioni a cui è adibito il dipendente pubblico e la qualifica per la quale è stato assunto è espressamente sancita nell’incipit della norma che prescrive che il prestatore di lavoro « deve » essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto. Ciò si ricava indirettamente anche dall’assenza della previsione, sempre nel primo comma dell’art. 52, delle mansioni «effettivamente svolte», con significativa differenza rispetto al testo dell’art. 2103 Cod. Civ.. Pertanto, si può affermare che nel lavoro pubblico viene introdotto in tal modo un limite all’autonomia negoziale, che preclude la possibilità di accordi modificativi delle mansioni attraverso comportamenti concludenti, e che si impone anche in situazioni di prima adibizione.[36]  Viene superata concezione della qualifica intesa come costitutiva di uno status giuridico. La qualifica viene determinata nelle mansioni di assunzione del lavoratore.

4. L’uniformazione normativa

L’estensione del principio di contrattualità delle mansioni a tutti i rapporti di lavoro di cui all’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, segna il punto in cui la disciplina dettata delle mansioni è penetrata inte­gralmente nell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e crea l’uniformazione normativa.[37] L’articolo 52 del d.lsg. n. 165 del 2001 preveder una disciplina dettagliata e completa delle mansioni.  La regola che attribuisce al prestatore di lavoro il diritto di «essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto» è infatti indicativa dell’assimilazione delle tecniche privatistiche dell’autonomia negoziale e dell’avvenuto perfezionamento di una traslazione completa, dal diritto amministrativo al diritto del lavoro, per quanto concerne la strumentazione giuridica volta a garantire la difesa passiva della professionalità del lavoratore. Com’è noto, per effetto della contrattualizzazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici è stata abbandonata la concezione tradizionale che identificava gli impiegati delle pubbliche amministrazioni come soggetti chiamati ad esercitare le funzioni degli uffici entro cui fossero stati incardinati.

Questa logica era figlia della prevalenza dell’organizzazione amministrativa sull’organizzazione del lavoro e della storica distinzione tra rapporto organico e rapporto di servizio, entrambe sottese al dogma della supremazia speciale della pubblica amministrazione. Da qui l’integrale coincidenza tra qualifica e posto organico, che aveva come conseguenza più evidente la negazione di rilievo a qualsiasi modifica sostanziale dei compiti disimpegnati dal lavoratore, in forza dell’assorbimento delle vicende modificative del rapporto di lavoro all’interno delle maglie dell’organizzazione pubblicistica. Per il completamento del processo di privatizzazione sono venute meno sia la priorità della qualifica sulle mansioni, sia la pedissequa connotazione di status che caratterizzava la posizione dei dipendenti pubb1ici. Ciò ha fatto sì che il concetto di mansioni assumesse nell’impiego pubblico il medesimo significato che ad esso è attribuito dal codice civile, ovvero quello di criterio di determinazione dell’oggetto del contratto di lavoro, necessario per descrivere il contenuto della prestazione obbligatoria e circoscrivere l’area del debito assunto dal lavoratore al momento della costituzione del rapporto. Con una nozione universalmente valida, pertanto, l’espressione «mansioni di assunzione» è divenuta indicativa dell’unità elementare del facere cui è obbligato il prestatore di lavoro, senza che sussista più alcuna distinzione pubblico e privato. Allo stesso tempo, anche il termine qualifica si è spogliato delle precedenti incrostazioni autoritative, divenendo coerente con la regola che individua nel contratto di lavoro lo strumento (rectius la fonte) necessario per perfezionare l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche (cfr. art. 35, comma 1, d.lgs. n. 165/2001).

Deve essere recuperata la consolidata impostazione concettuale che configura la qualifica come variante semantica delle mansioni, assegnandole allo stesso tempo funzione ricognitiva dell’insieme dei compiti assegnati al lavoratore e valenza riepilogativa del trattamento economico/giuridico attribuito ad una posizione professionale con le stesse caratteristiche lavorative. In particolare, l’individuazione delle mansioni dedotte in obbligazione può avvenire direttamente, e cioè affidando all’accordo fra le parti la puntuale elencazione del complesso dei compiti propri della qualifica, ovvero per relationem., mediante il rinvio ad una categoria o profilo professionale previsto dalla contrattazione collettiva. Proprio quest’ultima modalità ha dato luogo ad alcune criticità teoriche ed applicative, a causa della frequente genericità delle espressioni utilizzate dai contratti collettivi e della conseguente difficoltà di stabilire concretamente il perimetro di estensione della prestazione esigibile. Si tratta di una querelle che all’indomani della privatizzazione si è riproposta nell’impiego pubblico negli stessi termini in cui si era già posta nel lavoro alle dipendenze di privati, atteso che la materia della classificazione del personale è demandata in entrambi i settori alla contrattazione collettiva e che gli stessi bandi dei concorsi pubblici si limitano ad indicare il profilo professionale per il quale i candidati saranno assunti, in luogo dell’indicazione analitica delle mansioni che verranno assegnate. Sono valide le indicazioni offerte da quella parte della dottrina che ha sostenuto di utilizzare il la professionalità del lavoratore per individuare le mansioni esigibili. [38]

Il datore di lavoro deve specificare il contenuto della prestazione lavorativa del rapporto di lavoro, il lavoratore deve prestare il consenso per le mansioni che possono essere pretese nell’ambito lavorativo. Pertanto, sono attribuite le mansioni di assunzione del lavoratore come nel settore privato. Tuttavia, nel settore pubblico continuano a non essere rilevante il comportamento delle parti per determinare il contenuto della prestazione lavorativa che rappresenta l’unico elemento di diversità per lo spostamento di mansioni del lavoratore. Viene introdotto un limite all’autonomia negoziale delle parti e non possono essere considerare le ultime mansioni svolte dal lavoratore per determinare la modifica delle mansioni. Il ruolo del contratto collettivo di lavoro e l’inquadramento del lavoratore dell’attuale disciplina delle mansioni hanno ampliato l’uniformazione con il modello del pubblico impiego. La prestazione lavorativa equivalente nel pubblico impiego viene determinata dall’autonomia collettiva che deve individuare l’inquadramento per lo spostamento del lavoratore. Il datore di lavoro per attribuire le mansioni al lavoratore nel settore privato deve attribuire le mansioni dello stesso livello di inquadramento nell’ambito della categoria. Il contratto collettivo di lavoro serve per determinare lo spostamento delle mansioni.

5. La regola dell’equivalenza delle mansioni

Una delle novità di maggiore rilievo apportate dalla privatizzazione consiste nell’abbandono delle precedenti modalità di inquadramento, rigidamente fondate sulle qualifiche funzionali cui corrispondono determinati livelli retributivi e determinate mansioni, in favore di una più elastica contrattualizzazione della disciplina sull’inquadramento: spetta così al contratto collettivo dettare le norme in materia dell’inquadramento del personale, come avviene nell’impiego privato.[39] L’art. 52 del d. lgs. n. 165 del 2001 nel disciplinare le mansioni nel pubblico impiego rappresenta una norma di carattere prevalentemente dispositivo, potendo il contratto derogare ad essa sia nell’individuazione delle mansioni superiori, sia in ordine agli effetti dello svolgimento delle stesse mansioni superiori. L’art. 52 d. lgs. n. 165 del 2001 prevede che il prestatore debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, dal 2009 l’equivalenza viene individuata nell’ambito dell’inquadramento.[40]

La nozione di equivalenza si distingue da quello previsto dal precedente articolo 2103 Cod. civ., poiché ha come parametro non già le mansioni da ultimo effettivamente svolte, bensì quelle di assunzione. Tuttavia, il lavoratore deve mantenere la qualifica conseguita e resta il divieto di demansionare. Il legislatore aveva delegato al contratto collettivo il compito di individuare le mansioni che possono essere considerate equivalenti. L’individuazione del concetto di equivalenza non era rimessa all’interpretazione giurisprudenziale ma veniva introdotta, in modo vincolante, dalle stesse parti collettive. Nel settore privato la giurisprudenza operava un controllo sull’equivalenza, potendo anche ravvisarsi ipotesi di mansioni che, pur appartenendo alla stessa categoria contrattuale, di fatto siano espressione di una professionalità differente e non vengano considerate, in concreto equivalenti. La disciplina dell’art. 52 ed il rinvio della contrattazione collettiva precludevano nel pubblico impiego tale sindacato giurisdizionale, costituendo la previsione contrattuale in ordine al giudizio di equivalenza limite invalicabile. Il rischio, naturalmente, era quello di una possibile genericità delle classificazioni contenute nei contratti collettivi, tale da ampliare lo spettro delle diverse prestazioni esigibili, con conseguente vanificazione della tutela della professionalità del lavoratore.

Pertanto, il processo di assimilazione aveva un’intensità fortemente differenziata in relazione ai singoli istituti che governano l’inquadramento e le modalità di adibizione dei lavoratori, può essere prevista la piena equiparazione delle normative o una semplice compatibilità parziale, corretta dal ricorso alla tecnica della specialità. Se da una parte l’assoggettamento dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici alla fonte contrattuale e alle regole dell’autonomia privata ha eliminato ogni diversificazione negli aspetti legati all’individuazione e classificazione delle mansioni, lo stesso non può dirsi per i problemi connessi allo jus variandi ed agli effetti che ne derivano. Ed infatti, nonostante il legislatore abbia dotato anche i datori di lavoro pubblico di poteri gestionali di tipo privatistico, la materia della mobilità dei lavoratori è stata oggetto di variazioni che l’hanno portata ora ad allontanarsi, ora ad avvicinarsi alla disciplina operante nell’impiego privato.

Nella materia dello jus variandi orizzontale la questione era complessa. In linea generale, può osservarsi come anche su questo versante sia stato adottato un approccio tipicamente formalistico, tale da limitare fortemente l’incidenza del principio di effettività nelle vicende modificative del rapporto di lavoro.[41]  Questa caratteristica traspare in primo luogo dalla scelta di non riprodurre, nel testo dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001, il criterio delleultime mansioni effettivamente svolte, ha consentito di estendere la valutazione comparativa sottesa al principio di equivalenza oltre il perimetro delle sole mansioni di assunzione. Nel settore privato, resistenza di questo parametro ha reso il giudizio de quo più aderente ai profili effettuali del rapporto di lavoro, permettendo di tener conto del percorso professionale concretamente seguìto dal lavoratore nell’esercizio di compiti diversi da quelli inizialmente attributi. L’utilizzo del termine « considerate» era stato ritenuto indicativo della scelta di devolvere integralmente alle valutazioni di fonte collettiva l’individuazione dei limiti alla mobilità orizzontale, elevando quest’ultima ad arbitro esclusivo dell’estensione del perimetro dell’equivalenza.[42]  Ancora una volta pertanto si era fatta strada l’impressione che il legislatore del pubblico impiego avesse voluto far leva sul dato formale organizzativo in luogo di quello effettuale,  premiando cioè la professionalità tipizzata in un certo inquadramento contrattuale, piuttosto che quella realmente posseduta ed acquisita dal singolo lavoratore.

La relazione di dipendenza tra il concetto di equivalenza professionale e gli equilibri raggiunti in sede sindacale aveva inoltre sollevato due questioni problematiche, strettamente interconnesse: la prima, riguardante l’ampiezza dell’intervento di delegificazione della materia; la seconda, concernente la possibilità di sindacare nel merito i rapporti di equivalenza di matrice collettiva. In dottrina era stato sostenuto che la disposizione alla contrattazione collettiva una vera e propria delega in bianco, da riempire con tipizzazioni convenzionali. Accogliendo questa lettura, il primo corollario che ne è disceso, in termini quantomeno teorici, è che l’eventuale silenzio serbato dagli attori collettivi sulla determinazione dei limiti allo jus variandi vieta al datore di lavoro la possibilità di modificare in senso orizzontale le mansioni di assunzione dei dipendenti pubblici. Pertanto, una volta che stabilito sull’integrale devoluzione della materia all’autonomia collettiva, si sarebbe dovuto conseguentemente ritenere che l’assenza dì un’apposita disciplina contrattuale precludesse ogni variazione esterna alla qualifica di assunzione, mancando qualsiasi regola in ordine al limite a cui la stessa dovrebbe soggiacere. Se la contrattazione collettiva avesse introdotto una propria specifica disciplina, la materia regolata in termini esclusivi sarebbe impermeabile a qualsiasi tipo di interferenza esterna. Per effetto di questo secondo corollario, le determinazioni espresse delle parti sociali sui contenuti professionali delle mansioni e sui rapporti di equivalenza fra le stesse acquisivano rilievo vincolante e divenivano insuscettibili di sindacato giudiziale. Da qui la conclusione per cui, in caso di controversia, l’indagine dell’interprete doveva ritenersi confinata all’accertamento oggettivo della riconducibilità, sulla base delle previsioni collettive, delle nuove e vecchie mansioni alla medesima area di inquadramento, senza alcun rilievo per le mansioni effettivamente svolte dal dipendente.  La superiore ricostruzione teorica era stata sostanzialmente recepita anche dalla giurisprudenza, intervenuta in materia.

Nel pubblico impiego intervenne la riforma del 2009 che ha portato modifiche importanti per l’autonomia contrattuale. Se è vero che il più moderno approccio giurisprudenziale sviluppatosi nel settore privato ha consentito un recupero di terreno rispetto al modello regolativo della mobilità orizzontale adottato nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni va detto che un opposto processo di riavvicinamento, questa volta dal pubblico al privato, si è realizzato per effetto delle modifiche apportate dall’art. 62, d.lgs. n. 150 del 2009 al testo dell’art. 52, d.lgs. n. 165 del 2001. La novella in questione si inserisce nell’ambito di una riforma caratterizzata dal ridimensionamento del ruolo della contrattazione collettiva e dalla rilegificazione di una parte notevole della disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici. Per modellare il lavoro nelle p.a. all’insegna dell’efficienza dell’azione amministrativa e della professionalità dei suoi dipendenti, il legislatore del 2009 dichiara, sin dalla legge delega 4 marzo 2009, n. 15, di voler riprodurre fedelmente le logiche manageriali e di competitività che animano l’agire imprenditoriale, iniettando all’interno dell’apparato amministrativo una più avanzata cultura aziendalistica ed ulteriori margini di flessibilità gestionale. In questo rinnovato contesto, l’attuale formulazione dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 prevede che « il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, ovvero alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento » la disposizione va letta unitamente con il nuovo comma 1 bis dell’art. 52 (anch’esso introdotto dall’art. 62, d.lgs. n. 150 del 2009), il quale stabilisce che « i dipendenti pubblici, con esclusione dei dirigenti e del personale docente della scuola, delle accademie, conservatori e istituti assimilati sono inquadrati in almeno tre distinte aree funzionali ». Si tratta di una previsione che non presenta particolari profili di novità, in quanto nei principali contratti di comparto l’articolazione del personale è già attualmente sventagliata su un minimo di tre aree, ma che tuttavia sembra cristallizzare i sistemi di inquadramento su un modello predefinito, riducendo in tal modo l’ambito di intervento dell’autonomia collettiva alla delimitazione dei confini interni delle aree e al raggruppamento delle prestazioni professionali.

Nel pubblico impiego il percorso giurisprudenziale è caratterizzato dalla preferenza dell’equivalenza formale.

In una pronuncia significativa (cui si sono allineate le successive) si affermava che l’art. 52, comma l, d.lgs. n. 165/2001 ha adottato un concetto di equivalenza « formale», in omaggio alle perduranti peculiarità che tuttora caratterizzano la natura pubblica del datore di lavoro.[43] La giurisprudente ritiene che deve essere utilizzata l’equivalenza formale, devono essere controllo sull’inquadramento disposto dal contratto collettivo di lavoro,[44] viene tutelata la professionalità acquisita dal lavoratore.[45] Il giudizio di equivalenza è stato frequentemente disancorato dalla professionalità concretamente acquisita dal lavoratore, accordando maggior peso alla preoccupazione che l’impiego di una nozione di equivalenza eccessivamente fluida o aperta potesse pregiudicare le esigenze di certezza che ancora oggi connotano il rapporto di lavoro pubblico ed eludere la regola del divieto di promozione automatica sancita dallo stesso art. 52, d.lgs. n. 165/200l. Per rimanere fedele a questa impostazione, peraltro, la giurisprudenza ha talvolta separato concettualmente la fattispecie del demansionamento da quella dell’integrale svuotamento delle mansioni, ha sostenuto che quest’ultima sarebbe in ogni caso vietata senza che ciò ponga un problema di equivalenza.[46] Inoltre il contenuto del contratto collettivo di lavoro non può essere sindacato nell’opportunità dal giudice.[47]

6. Il ruolo dei contratti collettivi di lavoro nelle mansioni

La legge aveva attribuito al contratto collettivo di lavoro il potere di determinare l’esigibilità delle prestazioni lavorativa; veniva precisato che l’oggetto del giudizio di equivalenza era la professionalità del lavoratore. Tuttavia, nel testo modificato ricorre la professionalità proiettata nell’inquadramento costituito dalle mansioni. Se non viene specificata l’equivalenza può essere necessario l’intervento del giudice.[48] Gli inquadramenti professionali restano affidati al contratto collettivo di lavoro. L’accordo interconferedale del 1993 aveva attribuito la durata di quattro anni ai contratti collettivi di lavoro e di due anni per la parte economica, nel 2009 viene portate a 3 anni per una maggiore flessibilità.[49]

Dei contratti collettivi per il pubblico impiego, come il ccnl 16 febbraio 1999 per il comparto ministeri in questa parte non modificata dal successivo contratto del 21 febbraio 2001, del ccnl 31 marzo 1999 regioni ed autonomie locali, hanno previsto un nuovo sistema di classificazione del personale orientato al superamento delle rigidità per porsi al passo con i processi di cambiamento nell’ambito degli enti e con l’evoluzione dei modelli organizzativi e contribuire al miglioramento dei livelli di efficienza dell’azione amministrativa e dei servizi e improntato a criteri di flessibilità correlati alle esigenze connesse ai nuovi modelli organizzati (art. 13 ccnl comparto ministeri). Il sistema di classificazione è fondato sull’accorpamento delle precedenti qualifiche funzionali in tre aree (A, B, C, dove la prima comprende i livelli iniziali e l’ultima quelle apicali). Le aree sono individuate in relazione alle declaratorie previste nel contratto che descrivono l’insieme dei requisiti indispensabili per l’inquadramento nell’area, corrispondenti a livelli omogenei di competenze. In sede di prima applicazione l’inquadramento nell’area viene effettuato sulla base della qualifica di appartenenza, secondo la corrispondenza indicata nel contratto. Ogni area al suo interno si distingue in profili che descrivono il contenuto professionale delle specifiche attribuzioni di competenza cui corrispondono posizioni economiche differenti, generalmente contrassegnate con numeri (A1, B A2, B1, B2…).[50] Sono inserite le fasce che determinano il trattamento economico da attribuire al dipendente pubblico. I contratti prevedono che nell’ambito del sistema di classificazione si considerino mansioni superiori quelle svolte dal dipendente all’interno della stessa area in profilo economico appartenete alla posizione di livello economico immediatamente superiore a quella in cui egli è inquadrato. Per coloro cui è attribuita all’interno di un’area la posizione economica apicale, costituiscono mansioni superiori quelle corrispondenti alla posizione economica iniziale dell’area immediatamente superiore. Nel 2009 sono state introdotte le tre fasce di merito che individuano le performance raggiunte nell’ambito del settore.

L’articolo 40 del d.lsg. n. 165 del 2001 attribuisce al contratto collettivo di lavoro il ruolo di prevedere i diritti e gli obblighi nel rapporto di lavoro. Sono necessari per le mansioni.


1 Per pubblico impiego viene inteso il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni

2 Il testo unico sugli impiegati civili dello Stato mostrava delle sostanziali diversità con la disciplina ordinaria, la legge aveva la funzione di inquadrare il lavoratore.

3 A. De Felice, L’inquadramento dei pubblici dipendenti, Franco Angeli Libri, Milano 1990, pag. 97

 4 A. Aranguren, La qualifica nel contratto di lavoro, Milano 1961, pag. 25

5 A. De Felice, L’inquadramento dei pubblici dipendenti, Franco Angeli Libri, Milano 1990, pag. 105

[6] Rocco  Di Passio, L’organizzazione del lavoro nel pubblico impiego, Riv. giuridica del 1980 pag.64

7 M. Pedrazzoli, Il rapporto di lavoro, in organizzazione amministrativa e pubblico impiego, Rimini 1995, pag. 142

[8] P. Curzio, Pubblico impiego: sospensioni, congedi, aspettative, mutamenti di mansioni, in riv. critica dir. lav.2002, pag. 260

[9] S. Liebman, La disciplina delle mansioni nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, riv. ADL 1990, pag. 620

[10] A. De Felice, L’inquadramento dei pubblici dipendenti, Franco Angeli 1990 pag. 206

11 M. Pedrazzoli, Il rapporto di lavoro, in Organizzazione amministrativa e pubblico impiego

12 Il percorso del sistema di inquadramento: il sistema di gradi era l’organizzazione gerarchica del 1923, il personale era formato da quattro gruppi classificati in relazione al titolo di studio; il sistema delle carriere dello Statuto degli impiegati civili, i dipendenti pubblici erano ordinati nelle carriere direttiva, di concetto, ausiliaria ed esecutiva; il sistema di qualifiche della legge n. 312 del 1980 che aveva sostituito la qualifica formale con la qualifica funzionale, erano previste nove qualifiche funzionali;  il sistema delle aree del testo unico del pubblico impiego che attribuisce al contratto collettivo di lavoro la classifica dei dipendenti pubblici.

13  S. Liebman, La disciplina delle mansioni nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, riv. ADL 1990, pag. 603

14 G. Zilio Grandi, La disciplina delle mansioni prima e dopo il Jobs Act. Quadri legali e profili problematici, Giuffré Editori, Milano 2016, pag.179

15 S. Liebamn, La disciplina delle mansioni nel lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, in riv. ADL, 1999, pag. 642

16 P. Curzio, Pubblico impiego: mansioni, sospensioni, congedi, aspettative, mutamenti di mansioni, promozioni, in riv. critica al dir. del lav. 2002, pag. 264

17S. Liebman La disciplina delle mansioni nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazione, riv. ADL 1999 pag. 645

18 S. Liebman, La disciplina delle mansioni nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Arg. Dir. Lav. 1999, pag 642

19 P. Curzio, Pubblico impiego: sospensione, concedi, aspettative, mutamenti di mansioni, promozioni, in riv. critica dir. lav. 2002, pag. 246

21 U. Gargiulo, L’equivalenza delle mansioni nel contratto di lavoro, Rubettino, 2008, pag

22 F. Liso, Autonomia collettiva e occupazione, in Dir. lav. rel. ind. 1998, pag. 256

23 P. Tullini, Le mansioni nel pubblico impiego, Riv, lavoro e diritto 1998 pag.197

24 U. Gargiulo, L’equivalenza delle mansioni del contratto di lavoro, Rubettino, 2008, pag. 37

25 G. Zilio Grandi, La disciplina delle mansioni prima e dopo il Jobs Act. Quadro legale e profili problematici, Giuffré Editore, 2016, pag. 17

26 U. Poti, Lavoro pubblico e flessibilità, Rubettino, 2002, pag. 39

27 P. Curzio, Pubblico impiego: sospensioni, congedi, aspettative, mutamenti di mansione, promozione, in riv. critica dir. lav. 2002, pag. 259

28 A. De Felice, L’inquadramento dei pubblici dipendenti, Franco Angeli 1990 pag. 206

29 Andreina Occhipinti, Mansioni superiori e mansioni equivalenti, Giuffrè Editori, Milano, 2002 pag. 57

30 A. Palladini, Le mansioni, in Quad, dir. lav. Red. Ind. 1995, pag. 209

31 S. Liebman, La disciplina delle mansioni nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Arg. Dir. Lav. 1999, pag 636

32 C. Pisani, La regola dell’equivalenza delle mansioni nel lavoro pubblico, in Arg. Dir. lav. 2009, pag. 50

33 U. Gargiulio, L’equivalenza delle mansioni nel contratto di lavoro, Rubettino, 2008, pag. 30

34 Alessandro Garilli, Profili dell’organizzazione e tutela professionale nelle pubbliche amministrazioni, Riv. 2004, pag.39

35 C. Pisani, La regola dell’equivalenza nel lavoro pubblico, in ADL 2009, pag. 54

36 Alessandro Garilli, Profili dell’organizzazione e tutela professionale nelle pubbliche amministrazioni, Riv. 2004, pag.64

37 C. Pisani, Le mansioni e trasferimento nel lavoro pubblico e privato, UTET Giuridica, 2009, pag. 30

38 G. Zilio Grandi, La disciplina delle mansioni prima e dopo il Jobs Act. Quadro legale e profili problematici, Giuffé editore, Milano 2016 pag. 182

38 C. Pisani, La regola dell’equivalenza delle mansioni nel lavoro pubblico, in Arg. dir. lav. 2009, pag. 54

39 La norma ha inserito una modifica per l’applicazione nel settore pubblico di meccanismi imprenditoriali

40 Tribunale di Firenze 2008 n. 1686

41 C. Pisani, la regola dell’equivalenza delle mansioni nel lavoro pubblico, in Arg. dir. lav. 2009, pag. 40

42 Corte di Cassazione 2008 n. 8740

43 Corte di Cassazione 2014 n. 7106; Corte di Cassazione 2013 n. 26285; Corte di Cassazione 2010 n. 18283; Corte di Cassazione 2010 n. 11405.

44 Tribunale di Trieste 8 febbraio 2002

45 Corte di Cassazione 2013 n. 2628

46 Corte di Cassazione 2014 n. 687

47 G. Zilio Grandi, La disciplina delle mansioni prima e dopo il Jobs Act. Quadri legali e profili problematici, Giuffré Editori, Milano 2016, pag.180

48 Cons. St. Sez. V, 26.03.1999, n. 336, CS, 1999, 172. 46,

49 C. Pisani, Mansioni e trasferimento nel lavoro pubblico e provato, UTET Giuridica, 2009, pag. 75

50Alessandro Garilli, Profili dell’organizzazione e tutela professionale nelle pubbliche amministrazioni, Riv. 2004, pag.75

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