Mancata attivazione della clausola risolutiva espressa e chiedibilità del danno

Nel presente documento si esamina se il creditore, nonostante che non abbia attivato la clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c. e pertanto abbia scelto di continuare a chiedere al debitore l’esecuzione della prestazione, possa ugualmente chiedere a quest’ultimo il risarcimento dei danni subìti a causa del mancato adempimento secondo le modalità pattuite mediante la stessa clausola.

LA QUESTIONE: CHIEDIBILITA’ DEL DANNO NONOSTANTE LA MANCATA ATTIVAZIONE DELLA CLAUSOLA RISOLUTIVA ESPRESSA 

La clausola risolutiva espressa è disciplinata dall’art. 1456, il quale, al comma 1 c.c., prevede che “i contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite”.

Siccome si parla di “modalità stabilite”, l’interesse tutelato dalla norma è quello ad un “esatto adempimento”, nel senso che qualsiasi altra eventuale prestazione diversa dalle suddette modalità non darebbe al creditore un soddisfacimento pieno.

Ai sensi dell’art. 1456 comma 2 c.c., “la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva”. Non è sufficiente, ai fini della risoluzione, che al contratto sia stata apposta una clausola risolutiva espressa, ma è necessario che il creditore, il quale si trova adesso a poter invocare a proprio favore tale clausola, dichiari espressamente di volersene avvalere.

E’ infatti possibile che egli non intenda sfruttare tale strumento di tutela contrattuale originariamente previsto, ma che, al contrario, voglia continuare a chiedere alla parte di adempiere e che quindi voglia perseguire un interesse opposto a quello a cui la clausola era finalizzata.

Ebbene, la domanda è questa: il creditore, pur non avendo fatto valere la clausola ex art. 1456 c.c., potrebbe chiedere dei danni derivati dal mancato adempimento?

MOTIVI PER I QUALI NON APPARE POSSIBILE CHIEDERE IL RISARCIMENTO

La possibilità per il creditore, il quale abbia scelto di non avvalersi della clausola risolutiva espressa, di domandare il risarcimento del danno, appare vacillare alla luce delle seguenti considerazioni.

Ai sensi dell’art. 1453 comma 2 c.c., il quale così dispone: “la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento; ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione”. Il creditore, se ha proposto domanda giudiziale di adempimento, potrà sempre cambiare idea e chiedere la risoluzione, ma egli, fintanto che continuerà a voler chiedere l’adempimento, non potrà proporre contestualmente una domanda risarcitoria, questa divenendo proponibile solo laddove la domanda di adempimento si tramuti in domanda di risoluzione.

Il creditore, se ha rinunciato a far valere la clausola risolutiva espressa preferendo continuare a chiedere al debitore l’esecuzione della prestazione, evidentemente è perché ha ritenuto che la risoluzione del contratto, con annessa tutela risarcitoria, gli avrebbe dato un’utilità minore rispetto a quella che probabilmente gli sarebbe derivata dall’esecuzione del contratto, seppur tardiva, da parte del debitore.

Ebbene, tale scelta non può comportare, a vantaggio del creditore, il mantenimento della tutela sopra citata, essendo quest’ultima incompatibile con la reiterata richiesta di adempimento e cioè con la conferma della volontà di tenere in piedi il rapporto negoziale. L’evento dannoso, causato dall’inadempienza, non è meritevole di una tutela risarcitoria laddove il creditore, anziché agire per la risoluzione (e quindi anziché far valere la clausola risolutiva espressa prevista in suo favore), abbia deciso di continuare a restare nel contratto, chiedendone al debitore l’esecuzione.

Inoltre, la fattispecie del creditore che decida di non attivare uno strumento previsto a suo favore (clausola risolutiva espressa) e preferisca continuare a chiedere al debitore l’adempimento della prestazione, è assimilabile a quella del creditore che, pur potendo decidere di trattenere presso di sé la caparra confirmatoria depositata dal debitore, sceglie di domandare l’esecuzione del contratto, rinunciando perciò stesso alla caparra, laddove l’art. 1385 ultimo comma c.c. così dispone: “se però la parte che non è inadempiente preferisce domandare l’esecuzione o la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali”. Il risarcimento del danno non è collegato soltanto alla domanda di risoluzione del contratto; esso è chiedibile anche nel caso in cui il creditore abbia deciso di domandare l’esecuzione del contratto. Il problema, tuttavia, sta proprio qui: l’art. 1385 c.c. offre sì la tutela risarcitoria alla parte la quale abbia rinunciato a trattenere la caparra scegliendo di continuare ad avere rapporti con il debitore (esecuzione), ma tale tutela, stando per lo meno a quella che è la formulazione della norma, viene differita al momento in cui il debitore non avrà adempiuto e quindi non avrà soddisfatto quella che era stata la volontà del creditore di proseguire nel rapporto contrattuale; la norma non sembra attribuire al creditore un diritto risarcitorio già dal momento in cui egli, pur avendo riscontrato l’inadempienza del debitore, abbia deciso di chiedere l’esecuzione del contratto.

Di conseguenza, vista l’oggettiva analogia tra le due fattispecie – ossia rinuncia del creditore ad attivare, nel caso di inadempienza del debitore, un meccanismo previsto a sua tutela, e scelta di chiedere al debitore di adempiere comunque – non sembrerebbe che il creditore, ove abbia deciso di non avvalersi della clausola risolutiva espressa, possa comunque chiedere un risarcimento del danno, quest’ultimo potendo configurarsi in tutta la sua rilevanza solo se il debitore, in dispregio della reiterata richiesta di adempimento, si sarà reso responsabile, anche questa volta, di inadempimento.

MOTIVI PER I QUALI UNA RICHIESTA DI RISARCIMENTO APPARE FONDATA

La possibilità per il creditore, il quale abbia rinunciato a far valere la clausola risolutiva espressa, di chiedere una tutela risarcitoria, appare fondata sui seguenti motivi.

A norma dell’art. 1218 c.c., “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno”: la prestazione può dirsi “eseguita esattamente” solo se è stata adempiuta “secondo le modalità stabilite”, ossia secondo quello che era il programma contrattuale; quindi il creditore, anche se ha rinunciato ad avvalersi della clausola risolutiva espressa preferendo chiedere l’esecuzione del contratto, sembrerebbe comunque legittimato a chiedere il risarcimento.

Tale legittimazione potrebbe essere negata solo laddove si ritenesse che la mancata attivazione della clausola risolutiva espressa determini una “novazione”, e cioè la sostituzione dell’obbligazione originaria con un’altra (art. 1230 c.c.). In questo caso, effettivamente, poiché la prestazione contrattualmente stabilita verrebbe ad essere sostituita con un’altra di diverso tipo, allora una tutela risarcitoria sarebbe difficilmente concedibile in quanto la novazione comporta l’estinzione del rapporto in ordine al quale l’inadempimento si era verificato.

Ma, ai sensi dell’art. 1231 c.c., “il rilascio di un documento o la sua rinnovazione, l’apposizione o l’eliminazione di un termine e ogni altra modificazione accessoria dell’obbligazione non producono novazione”. La novazione, se non si configura neanche quando al contratto sia stato apposto un termine essenziale e cioè nel caso in cui sia stata prevista la decadenza del debitore dalla possibilità di adempiere oltre un certo tempo, non potrà configurarsi, a maggior ragione, quando al debitore sia stato semplicemente chiesto di adempiere secondo le modalità originariamente concordate, come nel caso della richiesta di esecuzione rivolta dal creditore il quale abbia rinunciato a far valere la clausola di cui all’art. 1456 c.c. .

Inoltre, a norma dell’art. 1233 c.c., il danno per inadempimento, affinchè possa essere risarcito, deve essere stato “conseguenza immediata e diretta” di quest’ultimo. Quindi, ai fini della risarcibilità, l’unica cosa che conta è che tra inadempimento e danno vi sia stato un rapporto causa/effetto, a prescindere dal fatto che il creditore, pur a fronte del riscontrato inadempimento, abbia continuato comunque a richiedere la prestazione e quindi abbia rinunciato a domandare la risoluzione (vedi mancata attivazione della clausola di cui all’art. 1456 c.c.).

A ciò si aggiunga poi quanto segue.

Il mancato adempimento da parte del debitore configura in ogni caso la violazione degli obblighi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto previsti dall’art. 1375 c.c. . La sussistenza di tali obblighi, i quali costituiscono il “dover essere” del comportamento negoziale, sarebbe priva di ogni significato se la loro violazione non implicasse l’insorgere di un meccanismo sanzionatorio, e quest’ultimo potrebbe appunto concretizzarsi nella previsione di un indennizzo a carico di chi tali obblighi non li ha rispettati (vedi il debitore il quale non abbia adempiuto secondo le modalità stabilite ex art. 1456 c.c.).

La riprova di ciò è rappresentata dal fatto che, ai sensi dell’art. 1440 c.c., il contraente il quale con dolo abbia carpito il consenso dell’altro, è tenuto al risarcimento del danno pure se viene accertato che quest’ultimo, anche ove fosse stato a conoscenza della reale situazione di fatto, avrebbe comunque prestato il proprio consenso. Ebbene, tale obbligo risarcitorio trae la propria fonte appunto dalla violazione dei canoni di comportamento previsti dall’art. 1375 c.c. .

Attesa la natura di “principi generali” dei suddetti canoni, allora non appare inopportuno ritenere che, nel caso di cui all’art. 1456 c.c., il creditore il quale, rinunciando alla clausola risolutiva espressa, abbia concesso al debitore un’ulteriore possibilità di adempimento, possa, in ogni caso, già chiedere una qualche forma di tutela indennitaria per non essersi il debitore comportato con buona fede e correttezza.

Un problema al riconoscimento di siffatta tutela risarcitoria potrebbe essere rappresentato dal fatto che il creditore si troverebbe ad agire giudizialmente due volte: la prima, nel momento in cui ha scelto di non attivare la clausola risolutiva espressa e quindi di continuare a chiedere al debitore l’esecuzione del contratto; la seconda, nel momento in cui il debitore non dovesse adempiere neanche alla reiterata richiesta sopra citata.

Tale duplice (peraltro, solo eventuale) azione giudiziale potrebbe essere considerata, da parte dei fautori della prima tesi, come lesiva del principio di economicità del procedimento giurisdizionale, che, a quel punto, potrebbe essere attivato dal creditore una sola volta, ossia direttamente nel caso in cui il debitore non dovesse soddisfare neanche la reiterata richiesta di adempimento fattagli dal creditore con la rinuncia alla clausola ex art. 1456 c.c. .

Onde evitare ciò, appare allora opportuno che il diritto al risarcimento conseguente al “primo” inadempimento, ossia al momento in cui il creditore sceglie di rinunciare alla clausola continuando a richiedere l’esecuzione del contratto, venga ad essere oggetto di una “clausola penale per ritardo nell’adempimento”. In questo modo, il creditore sarebbe pienamente legittimato a continuare a richiedere l’esecuzione del contratto, e ciò alla luce dell’art. 1383 c.c., a norma del quale “il creditore non può domandare insieme la prestazione principale e la penale, se questa non è stata stipulata per il semplice ritardo”. In questo modo si supererebbero le obiezioni di cui sopra.

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