Made in Italy: la tutela contro la falsa denominazione d’origine italiana

in Giuricivile, 2018, 4 (ISSN 2532-201X)

La giurisprudenza di merito e, in particolare, il Tribunale di Bologna e di Torino, è tornata recentemente a pronunciarsi in merito all’apposizione mendace di etichette recanti la dicitura “Made in Italy” e apposte su prodotti fabbricati in altro paese, anche comunitario, affrontando il problema della sua qualificazione giuridica e degli eventuali rimedi forniti dall’ordinamento alle imprese italiane.

Seguendo un orientamento già affermato precedentemente da un’ordinanza della Suprema Corte che aveva tracciato la direzione giurisprudenziale di questa indagine, i giudici di prime cure hanno avuto modo di precisare meglio la portata e la natura di tale fatto illecito.

Nonostante il “Made in Italy” sia considerato il “terzo marchio al mondo dopo Coca Cola e Visa[1]” per notorietà e settimo al mondo in termini di reputazione fra i consumatori di tutto il mondo[2], non si tratta di un marchio in senso giuridico. È opportuno pertanto procedere alla ricostruzione del fenomeno e all’analisi delle pronunce che hanno condotto all’orientamento più recente.

Occorre anzitutto verificare se l’apposizione di una denominazione “Made in Italy” su prodotti non alimentari che, in realtà, sono fabbricati altrove, possa configurarsi come illecito anticoncorrenziale e, nel caso, quale ne sia la fonte giuridica, la qualificazione più appropriata e i rimedi esperibili.

La normativa di riferimento

Anzitutto, si rileva preliminarmente che all’art. 1 del Codice della proprietà industriale (d. lgs. n. 30/2005) sono tutelate, oltre gli ordinari segni distintivi dell’impresa, i marchi e i brevetti, anche le “denominazioni di origine”.

L’art. 29 stabilisce poi che “Sono protette le indicazioni geografiche e le denominazioni di origine che identificano un paese, una regione o una località, quando siano adottate per designare un prodotto che ne è originario e le cui qualità, reputazione o caratteristiche sono dovute esclusivamente o essenzialmente all’ambiente geografico d’origine, comprensivo dei fattori naturali, umani e di tradizione”.

L’art. 30 aggiunge che “Salva la disciplina della concorrenza sleale, salve le convenzioni internazionali in materia … è vietato, quando sia idoneo ad ingannare il pubblico o quando comporti uno sfruttamento indebito della reputazione della denominazione protetta, l’uso di indicazioni geografiche e di denominazioni di origine, nonché l’uso di qualsiasi mezzo nella designazione o presentazione di un prodotto che indichino o suggeriscano che il prodotto stesso proviene da una località diversa dal vero luogo di origine, oppure che il prodotto presenta le qualità che sono proprie dei prodotti che provengono da una località designata da un’indicazione geografica”.

È tuttavia opinione diffusa che le norme appena richiamate abbiano ad oggetto le indicazioni geografiche e le denominazioni di origine che siano protette (IGP, DOP), ancorché la norma non circoscriva espressamente ad esse il proprio ambito.

Il cd. marchio d’origine

Diversa cosa è il c.d. “marchio d’origine”, che indica la provenienza geografica di un prodotto, senza che vi sia necessariamente un legame con un particolare territorio di produzione.

Il marchio d’origine più celebre è il Made in Italy, che tuttavia esorbita dall’ambito di applicazione del Codice della proprietà industriale. A volte, esso è oggetto della legislazione speciale comunitaria[3] e doganale e delle convenzioni internazionali. Quando sia associato a particolari garanzie di qualità del prodotto, ancorché non protetto e tipizzato, il marchio d’origine è ugualmente meritevole di una certa tutela.

Infatti, tale denominazione indica una provenienza particolare che, comunicata al consumatore, influisce sulle scelte di acquisto di questi. L’enunciazione della provenienza è associata a particolari garanzie di qualità e ad altre caratteristiche delle quali il prodotto è dotato. Per questi motivi, il marchio d’origine, pur se consistente in mera indicazione geografica non protetta, è oggetto di tutela contro la contraffazione ove ciò possa condurre alla confusione dei consumatori e all’appropriazione di una porzione di mercato “abusiva”.

Contraffazione del marchio “Made in Italy”: un illecito anticoncorrenziale

Tale tutela è stata ricondotta all’illecito concorrenziale di cui all’art. 2598 c.c., il quale sancisce che “compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente; 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.

In merito, l’orientamento costante e condiviso dalle Sezioni Unite ha ribadito che l’illecito concorrenziale di cui all’art. 2598 c.c. “non si perfeziona necessariamente attraverso la produzione di un pregiudizio attuale al patrimonio del soggetto concorrente, essendo sufficiente la potenzialità o il pericolo di un danno, concretantesi nell’idoneità della condotta vietata a cagionare un pregiudizio[4].

Non si tratterebbe, pertanto, di un illecito di danno, ma di pericolo, configurabile ogniqualvolta il comportamento di colui che appone un’indicazione geografica mendace sia suscettibile di cagionare una perdita di clientela e di denaro per il concorrente.

Nell’esperienza giurisprudenziale, l’apposizione mendace di un marchio anche non registrato, come è appunto il marchio d’origine, sull’etichetta del prodotto è solitamente sussunta nell’appropriazione di pregi altrui di cui all’art. 2598 c.c. n. 2 e nella denigrazione e lesione del concorrente mediante notizie false (anche se apposte al proprio prodotto, e non riferite a quello altrui). Rientra più probabilmente in questo campo il caso di specie, che causa uno sviamento della clientela non attraverso la confusione tra i prodotti e le attività delle distinte imprese, ma alimentando nel pubblico la convinzione che il prodotto abbia le stesse qualità e gli stessi pregi attribuibili al concorrente[5].

L’illecito appropriativo non partecipa necessariamente di una componente denigratoria, ancorché indiretta, né è necessaria la diminuzione del credito goduto sul mercato dal concorrente usurpato[6], poiché l’illecito consiste nell’usurpazione del pregio, tale da influire sulle scelte del pubblico anche solo potenzialmente, in quanto riferibile ad una cerchia di produttori o ad una categoria di prodotti selezionati[7].

L’uso illecito di una denominazione di origine controllata è un altro esempio di illecito concorrenziale che si colloca agevolmente in entrambe le figure[8] [9].

A prescindere dalla specifica qualificazione giuridica da parte del giudice, è comunque pacifica nella giurisprudenza di merito la sua natura illecita.

La giurisprudenza sul tema

Analizzando una serie di costanti pronunce sul tema, trova conferma quanto appena esposto: “Costituisce concorrenza sleale per violazione dei principi di correttezza professionale l’utilizzo, come marchio di fatto per occhiali, dell’espressione “Mad in Italy” (pazzo in Italia), riprodotta al centro del tricolore italiano, accompagnata sì da ulteriori scritte esplicative, ma pressoché illeggibili per le dimensioni ridotte, e senza l’indicazione che si tratta della denominazione sociale dell’impresa titolare, versandosi in un’ipotesi di segno decettivo, in quanto evocante la diversa indicazione “Made in Italy” (prodotto in Italia), per prodotti in realtà provenienti dalla Cina, con conseguente pregiudizio per l’attività dei concorrenti[10].

Inoltre, “Va accolta la richiesta di provvedimento d’urgenza avanzata dal consorzio per la tutela dei vetri artistici di Murano e da alcuni produttori, per conseguire l’inibitoria alla vendita di calici di vetro colorato, contrassegnati con un bollino riportante la dicitura “made in Italy-Murano-Venezia”, costituente una falsa indicazione geografica perché il luogo di produzione di tali calici è in realtà Napoli, idonea a confondere il pubblico dei consumatori, essenzialmente turisti, e a determinare quindi uno sviamento della clientela interessata all’acquisto dei vetri muranesi, con conseguente integrazione della fattispecie di concorrenza sleale di cui all’art. 31 D.Lgs. n. 198 del 1996[11].

Come si evince da tali pronunce, la tutela contro l’illecito anticoncorrenziale viene accordata anche nel caso di denominazione di origine non protetta, ossia di generico marchio d’origine, purché idoneo a ingenerare confusione o ad appropriarsi di pregi in realtà non posseduti dal prodotto. Ciò in quanto tale denominazione mendace, ancorché non riferita ad uno specifico marchio registrato, comporta uno sviamento di clientela interessata all’acquisto di prodotti di tale territorio.

I prodotti “omologati”

La tutela appena delineata si accorda anche ai prodotti “omologati”: si definisce omologazione quella certificazione, giuridicamente irrilevante, bensì soltanto attestante una certa categoria di prodotti, uno standard qualitativo legato ad una determinata caratteristica.

Nel caso di specie, il prodotto è certificato/omologato in quanto attiene ad un determinato territorio d’origine che, anche ove non protetto giuridicamente, è idoneo a ingenerare una certa aspettativa di qualità nella clientela. Ne consegue che la mendace apposizione di una tale omologazione è idonea a costituire illecito concorrenziale.

Stabilisce una recentissima pronuncia del Tribunale di Torino, “La condotta dell’impresa che genera nella propria clientela la falsa rappresentazione di comprare un prodotto “omologato”, in piena regola ed idoneo allo scopo per cui è acquistato, costituisce un tipico caso di appropriazione indebita di pregi. A nulla rileva in termini di giustificazione di tale condotta il fatto che la certificazione di qualità indebitamente rivendicata non ha valore legale, avendone comunque uno commerciale, in quanto diretta ad attestare la particolare sicurezza e idoneità del prodotto, né che i prodotti falsamente certificati soddisfino eventualmente, di fatto, gli standard tecnici richiesti per il rilascio della medesima certificazione[12].

Infine, come aveva chiarito la Corte di Cassazione e come recentemente precisato dal Tribunale di Bologna, “Ai fini della configurabilità della fattispecie di concorrenza sleale per appropriazione di pregi ex art. 2598, n. 2, c.c. non è sufficiente l’adozione, sia pur parassitaria, di tecniche materiali o procedimenti già usati da altra impresa (che può dar luogo, invece, alla concorrenza sleale per imitazione servile), ma occorre che un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisca ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori. Non vi è appropriazione di pregi quando l’elemento preteso appropriato ha carattere meramente informativo e non costituisce un elemento di pregio caratterizzante i prodotti dell’impresa e la sua attività[13].

Il legame con un determinato territorio, particolarmente dedito alla manifattura e alla produzione in un preciso settore merceologico, può in effetti costituire elemento di pregio. L’apposizione di Made in Italy non possiede, infatti, mero carattere informativo, ma consiste in un’aspettativa della clientela circa la sua qualità, l’affidabilità e lo standard tecnico produttivo che caratterizza le imprese italiane. Ove sia falsamente indicato, il prodotto enfatizzerebbe qualità e pregi che in realtà non possiede, purché abbia indicato un luogo di origine e fabbricazione che possa dirsi elemento di pregio.

Prodotti abusivamente reclamizzati ma con la medesima qualità dei prodotti concorrenti

Si rappresenta, infine, che l’illecito appropriativo è stato ritenuto sussistente anche quando i prodotti abusivamente reclamizzati come provenienti da una certa zona territoriali posseggano il medesimo livello qualitativo dei prodotti concorrenti: l’art. 2598 c.c. n. 2 attribuisce, infatti, anche rilievo alla zona di provenienza in sé considerata e non necessariamente alla differente qualità sostanziale dei prodotti che ne derivano[14].

La ricostruzione sinora svolta in materia di appropriazione di pregi altrui risulta coerente con la tipologia di sanzioni che l’ordinamento dispone per tali forme di illecito, parallele al risarcimento (ex pluribus, si ricorda l’ordine di rimozione di indicazioni mendaci dall’etichetta del prodotto).

Inoltre, ciò rispecchia i principi affermati, in materia di frodi al commercio, dalla giurisprudenza penale, secondo la quale Integra il reato previsto dall’art. 517 cod. pen. la vendita di oggetti realizzati con materie prime italiane, ma completamente rifiniti all’estero e corredati dalla dicitura “Made in Italy” per la potenzialità ingannatoria dell’indicazione sul luogo di fabbricazione del prodotto. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il sequestro di portafogli confezionati in Romania con pelle italiana, e recanti stampigliatura “Genuine Leather – Made in Italy”)[15].

Pertanto, “il prodotto riportante, oltre all’indicazione della sede e del marchio dell’impresa, anche la dicitura “Made in Italy” quando in realtà è stato prodotto altrove, integra una c.d. “informazione falsa” che si configura, appunto, quando si crea una falsa attestazione sul luogo di produzione[16].

Considerazioni conclusive

Alla luce del vigente orientamento giurisprudenziale, ancorché il marchio d’origine non sia riconducibile alla tutela giuridica accordata al marchio registrato e/o alle denominazioni di origine controllate e protette, la sua falsificazione e apposizione mendace produce un illecito concorrenziale.

Tale illecito consiste nel pericolo concreto che la clientela di consumatori, ingannata dalla dicitura “made in Italy”, covi l’aspettativa che il prodotto possegga le qualità e gli elementi di pregio legati al territorio italiano.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, si può ritenere che l’apposizione di una dicitura di “made in Italy” non corrispondente al vero integri l’illecito anticoncorrenziale di appropriazione di pregi di cui all’art. 2598 c.c. n. 2. Ne consegue che, costituendo un atto illecito di concorrenza sleale, sarà risarcibile il danno cagionato alle imprese concorrenti in tale settore merceologico e dotate di tale denominazione apposta, dinanzi al giudice ordinario.


[1] KPMG Corporation.

[2] Forbes, 27.3.2017, secondo uno studio del Made-in-country-index (MICI) 2017.

[3] Regolamento 2011/1169/UE in materia di prodotti alimentari ed indicazione dell’origine della materia prima.

[4] Cass. Sez. Un. n. 12103/1995.

[5] Cass. 1.3.1986, n. 1310, GC, 1986, I, 2473; Trib. Bologna 1.4.1993, GADI, 1993, 521.

[6] Trib. Milano 9.12.1971, GADI, 1972, 288.

[7] Auteri 1982, 390; Ammendola 1991, 57; Vanzetti e Di Cataldo 2003, 80; Trib. Venezia 19.7.1995.

[8] Trib. Trieste 28.7.1958; App. Trieste 27.7.1959.

[9] Trib. Milano 23.10.1972; Trib. Torino 28.12.1973; App. Milano 21.10.1975; Trib. Milano 5.9.1977; Trib. Milano 16.10.1978; Trib. Milano 23.11.1981.

[10]  Trib. Torino, ord. 21.6.2011.

[11]  Trib. Venezia, 16.11.2004.

[12]  Trib. Torino, 15.11.2017.

[13] Cass. VI, ord. 7.1.2016, n. 100; Cass. I, 10.11.1994, n. 9387; Trib. Bologna, 24.6.2017.

[14] Trib. Milano 19.6.1972; Trib. Roma 19.6.1980; Trib. Milano 20.11.1975; App. Brescia 7.6.1974.

[15] Cass. III, 24.4.2013, n. 39093.

[16] Cass. III, n. 41684/2014, che ha considerato ricorrere il reato ex art. 517 c.p. di vendita di prodotti con segni mendaci.

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