Le segregazioni patrimoniali mortis causa

in Giuricivile.it, 2023, 9 (ISSN 2532-201X)

Il presente contributo vuole essere d’ausilio allo studio del fenomeno della segregazione patrimoniale. Come noto, il nostro ordinamento disciplina taluni istituti che, entro certi limiti, consentono la creazione dei c.d. patrimoni separati. Si tratta di capitali destinati che, in quanto sottratti alla generica responsabilità patrimoniale del debitore, necessitano di una stretta interpretazione della disciplina loro dedicata, cosicché le conseguenze applicative possano essere coerenti con la ratio degli istituti, senza tuttavia arrecare nocumento alla posizione creditoria.

Non vi è dubbio che i patrimoni separati possano essere costituiti per atto tra vivi. Tuttavia, a seconda dei casi, può risultare controversa la struttura, unilaterale o contrattuale, del negozio istitutivo. Quel che è certo è che, una volta ammessa la natura unilaterale di quest’ultimo, diviene necessario verificare la compatibilità del fenomeno di segregazione patrimoniale con il negozio testamentario.

In questo scritto l’attenzione è rivolta proprio alla costituzione mortis causa dei patrimoni separati. La correlazione tra segregazione patrimoniale e successioni per causa di morte genera, infatti, una serie di questioni di non poco conto che necessitano di soluzioni congruenti, nel rispetto del principio di autonomia testamentaria. Il fine è raggiungere un’applicazione omogenea di tutti quegli istituti eccezionali che derogano ad uno dei postulati su cui si fonda la cogenza del diritto civile: la responsabilità patrimoniale del debitore.

Il fenomeno della segregazione patrimoniale: realizzabilità mortis causa

È principio generale del nostro ordinamento che il creditore goda sempre di almeno una tipologia di garanzia, ossia della c.d. garanzia patrimoniale generica. Si tratta della garanzia legale, prevista dall’art. 2740, comma 1, c.c., in ragione della quale il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. In altri termini, la norma descrive sinotticamente l’estensione della responsabilità patrimoniale del debitore.

Più specificamente, la soggezione del patrimonio del debitore al soddisfacimento del diritto del creditore viene definita responsabilità patrimoniale dell’obbligato. D’altra parte, il creditore trova nel patrimonio del debitore la garanzia patrimoniale generica strumentale alla realizzazione del suo diritto[1].

Il principio sopra menzionato trova una deroga nell’art. 2740, comma 2, c.c., poiché tale norma ammette limitazioni alla responsabilità del debitore unicamente in ipotesi tipiche individuate dal legislatore. Le ipotesi di deroga, limitative della responsabilità, sono fondamentalmente fattispecie in cui un soggetto separa taluni beni (c.d. beni separati) da altri (c.d. beni residui) in ragione della destinazione che viene impressa ai primi. Tale segregazione dà vita ai c.d. patrimoni separati o destinati, di cui il soggetto è pur sempre titolare e che sono composti dai beni all’uopo separati. In questo modo, egli risponde con detti beni esclusivamente delle obbligazioni contratte in virtù della destinazione impressa. I beni residui, invece, continueranno a far parte del patrimonio generale e generico – non separato – del soggetto. Beni, dunque, normalmente aggredibili per ogni tipologia di obbligazione, così come prevede la garanzia legale generica. Pertanto, i creditori del soggetto potranno essere distinti in categorie, con riferimento ai singoli patrimoni destinati o a quello non destinato.

La presente trattazione intende esaminare il fenomeno di segregazione patrimoniale poc’anzi descritto con riferimento alla sua realizzabilità mortis causa[2]. Difatti, all’indagine della destinazione testamentaria consegue una presa d’atto: l’ordinamento consente al testatore di disporre delle proprie sostanze, come disposto dall’art. 587 c.c., non soltanto mediante attribuzione di beni ma altresì attraverso la previsione di forme di utilizzazione dei beni stessi[3].

Questo è confermato dall’analisi del complesso normativo, e quindi dal sistema successorio in senso ampio. Può desumersi, infatti, che il testatore possa attribuire beni a eredi o legatari, imponendo loro di destinarli all’attuazione di determinate finalità, attraverso una disposizione tipica che può rivestire la forma dell’onere o del legato. La destinazione diviene quindi preordinata all’attribuzione.

Del pari, il testatore può destinare beni nelle forme tipiche previste dalla legge. Forme che, proprio in quanto eccezionali e derogatorie della garanzia generica ex art. 2740 c.c., devono essere tassative, specificamente individuate e disciplinate.

Diviene quindi necessario, ai fini della presente indagine, prendere in considerazione gli istituti tipici più significativi che realizzano un fenomeno di segregazione e che possono essere oggetto di una disposizione testamentaria, ossia:

  1. Vincolo di destinazione;
  2. Trust;
  3. Fondo patrimoniale;
  4. Fondazione.

Il vincolo di destinazione (art. 2645-ter c.c.)

Il vincolo di destinazione è disciplinato dall’art. 2645-ter c.c. Si tratta di una fattispecie negoziale destinatoria con cui un soggetto dispone che taluni suoi beni specificamente individuati – immobili o mobili iscritti in pubblici registri – possano essere destinati, per un periodo di tempo non superiore a novanta anni o non eccedente la vita del beneficiario persona fisica, agli interessi meritevoli di tutela indicati nella summenzionata norma. Si pensi, ad esempio, alle finalità assistenziali delle persone con disabilità, tutelate altresì dagli artt. 2 e 3 Cost. Si può pacificamente ritenere che il concetto di meritevolezza citato sia il medesimo di cui all’art. 1322, comma 2, c.c., richiesto dall’ordinamento quale requisito per i contratti atipici.

Lo scopo dell’atto non sembra coincidere, quindi, con la mera liceità. Il quid pluris deve sostanziarsi in uno tra gli interessi tutelati alla stregua del nostro ordinamento giuridico[4], al pari di quanto accade per la causa in concreto dei contratti atipici. Si tratta di un interesse avente copertura di regola costituzionale. Invero, appare ragionevole ritenere che l’interesse posto alla base del negozio di destinazione non debba né concretizzarsi in una finalità eminentemente pubblica, né limitarsi ad un interesse qualsiasi seppur di natura non patrimoniale. Tale interesse deve sussistere quindi anche in caso di vincolo costituito per testamento.

Lo scopo destinatorio assume un’importanza talmente centrale dal punto di vista causale che la sua realizzazione o, in alternativa, la sua impossibilità determinano lo scioglimento del vincolo di destinazione, che si può verificare, naturalmente, anche per scadenza del termine o morte del beneficiario[5].

È dibattuta la natura giuridica, unilaterale[6] o contrattuale[7], del vincolo di destinazione costituito inter vivos[8]. Ad ogni modo, come vedremo nel prosieguo, chi ne ammette la costituzione in via diretta per testamento lo qualifica necessariamente come negozio unilaterale dato che, in caso contrario, il vincolo risulterebbe sempre incompatibile con lo strumento testamentario. In ragione, peraltro, del principio della relatività degli effetti giuridici di cui all’art. 1372 c.c. – principio altresì detto di intangibilità della sfera giuridica del terzo – il beneficiario può rifiutare la costituzione del vincolo in suo favore[9]. L’eventuale accettazione – se si aderisce alla tesi del vincolo quale negozio unilaterale – equivale ad una dichiarazione di voler profittare degli effetti del negozio.

È controversa altresì la natura del diritto del beneficiario del vincolo di destinazione. Secondo una prima tesi, infatti, il beneficiario è titolare di un diritto di natura obbligatoria, ossia un diritto di credito che, tuttavia, risulta opponibile ai terzi mediante trascrizione[10]. Questa interpretazione trova il suo argomento principale nel principio di tipicità dei diritti reali, assioma che caratterizza il sistema di appartenenza – a vario titolo – dei beni. Secondo un altro orientamento, invece, il beneficiario è titolare di un diritto di natura reale nuovo. Questa teoria si fonda sulla caratteristica dell’opponibilità del vincolo de quo nei confronti dei terzi[11].

Con specifico riferimento all’oggetto del vincolo, come già accennato, soltanto beni immobili e beni mobili registrati possono essere contemplati nell’atto di destinazione. Tendenzialmente, si ritiene che possano essere vincolati anche tutti i beni mobili per i quali sia possibile effettuare un’idonea pubblicità del vincolo[12]. Si pensi, a titolo esemplificativo, ai titoli di credito e alle quote di partecipazione in società a responsabilità limitata.

Il disponente – ossia il testatore in caso di costituzione del vincolo mortis causa – può senz’altro essere il titolare del diritto di piena proprietà sui beni da vincolare, sebbene debba essere valutata in concreto la possibilità di vincolare diritti reali minori. In altri termini, può ritenersi ammissibile un vincolo su diritti reali limitati, purché non siano incompatibili con i diritti altrui sullo stesso bene[13].

D’altra parte, il beneficiario del vincolo deve essere determinato o, secondo altro orientamento, quantomeno determinabile[14]. Si ritiene poi ammissibile, nei limiti della durata del vincolo, una sostituzione del beneficiario che non possa o non voglia ricevere i benefici della destinazione, così come una sostituzione successiva o un meccanismo di accrescimento a favore dei superstiti. Trattasi di un’estensione di istituti tipici del diritto successorio, generalmente ammissibile anche in caso di costituzione via testamento del vincolo, proprio in virtù del più generale principio di autonomia testamentaria, declinazione del più ampio principio di autonomia privata.

È possibile altresì prevedere la figura dell’attuatore, ossia del soggetto preposto alla vigilanza del rispetto della destinazione impressa. È una figura non necessaria, benché certamente lecita. Anzi, l’attuatore può a volte risultare più che opportuno, in base alla situazione concreta. Questo, a fortiori, in caso di vincolo mortis causa, dato che il disponente non sarà più in vita e non avrà contezza del destino del vincolo.

Risulta infine conveniente focalizzare l’attenzione sulla questione specifica concernente la costituzione diretta per testamento del vincolo di destinazione. Si tratta di un tema da sempre molto dibattuto. È stato peraltro anticipato nel testo che, laddove si ammettesse la costituzione mortis causa del vincolo, si avallerebbe indirettamente la natura unilaterale del negozio di destinazione inter vivos. Anche la più recente giurisprudenza di legittimità si è pronunciata in merito, statuendo che “L’atto di semplice destinazione di un bene (senza il trasferimento della proprietà dello stesso) alla soddisfazione di determinate esigenze, ai sensi dell’art. 2645-ter c.c., costituisce, di regola, un negozio unilaterale[15]. Da questa pronuncia si evince, peraltro, la differenza tra l’atto di destinazione e l’eventuale atto di trasferimento della proprietà del bene[16].

Sulla costituzione diretta del vincolo per testamento, si contrappongono due tesi. Secondo un primo orientamento, la costituzione de qua non è possibile[17]. Questa impostazione si fonda sull’argomento letterale del codice civile, che tace sulla possibilità di costituire un vincolo di destinazione per testamento, mentre per altri vincoli (trust, fondo patrimoniale e fondazione) specificato sempre la possibilità di essere costituiti con atto mortis causa. Il vincolo di destinazione è l’unico caso in cui ciò non viene ripetuto e, pertanto, non sarebbe ammissibile la costituzione per testamento. Vi è, peraltro, un ulteriore argomento a favore di questo orientamento, ossia la collocazione codicistica della norma sul vincolo di destinazione, che è rinvenibile nelle norme dedicate alla trascrizione di tutti gli atti tra vivi. Secondo una diversa tesi, il vincolo di destinazione si può costituire in via diretta per testamento[18]. Ciò sarebbe possibile poiché l’art. 2645-ter c.c. richiede l’atto pubblico, quindi non avrebbe senso non ammettere la costituzione quantomeno mediante testamento pubblico, ossia mediante il testamento ricevuto dal notaio in presenza di due testimoni.

Se le opinioni sono divergenti in caso di costituzione diretta per testamento, non sorgono dubbi per la costituzione del vincolo per testamento in via indiretta, ossia con efficacia obbligatoria. In tal caso, infatti, il testatore può onerare un erede o un legatario dell’obbligo di vincolare determinati beni a favore di un altro soggetto, ossia l’onorato della disposizione testamentaria.

È opportuno evidenziare, peraltro, che il peso del vincolo di destinazione non è apponibile ai beni necessari a formare la quota di riserva dei legittimari, stante il divieto dell’art. 549 c.c. Come noto, tale norma dispone che il testatore non può imporre pesi o condizioni sulla quota spettante ai legittimari, salva l’applicazione delle norme concernenti la divisione.

Una volta vincolati, i beni destinati subiscono limitazioni pregnanti, il cui perimetro è disegnato dall’interesse meritevole di tutela da soddisfare. È dubbia, pertanto, l’ammissibilità della libera circolazione dei beni vincolati. Secondo una prima tesi, il bene vincolato è inalienabile in modo assoluto[19]. Per una diversa impostazione, invece, il bene può essere liberamente trasferito, purché ciò non risulti incompatibile o pregiudizievole per lo scopo di destinazione[20]. In tal caso, risulta oltremodo opportuna la previa disciplina, da parte del disponente, dell’eventuale circolazione del bene sottoposto a vincolo. Egli, infatti, è legittimato ad indicare specificamente gli atti dispositivi conformi allo scopo e quelli con vi contrastano. Ancora una volta, tale previsione risulta necessaria, a fortiori, in caso di vincolo mortis causa, dato che il disponente non avrà contezza della sorte della destinazione[21].

Il trust (l. n. 364 del 1989)

Lo Stato italiano ha ratificato con la l. n. 364 del 1989 la Convenzione de L’Aja relativa alla legge applicabile ai trust e al loro riconoscimento, stipulata il primo luglio 1958. Tuttavia, manca ad oggi, nel nostro ordinamento, una legge regolatrice del trust.

Mediante il trust una persona fisica o giuridica (settlor) trasferisce – inter vivos o mortis causa – ad un’altra persona fisica o giuridica (trustee) beni mobili, immobili o mobili registrati (sostanzialmente ogni tipologia di bene) affinché quest’ultima li amministri nell’interesse di un beneficiario (beneficiary – c.d. trust in favore di beneficiario) oppure per un fine specifico (c.d. trust di scopo), eventualmente sotto la vigilanza di un terzo soggetto custode (protector).

Come pacificamente ritenuto, i beni costituiti in trust formano una massa distinta e, dunque, un capitale separato che non fa parte del patrimonio del trustee. Altrettanto pacifica è la circostanza che il trust non ha personalità giuridica né soggettività giuridica. Ciò significa, pertanto, che i beni costituiti in trust sono formalmente intestati al trustee. Il trust, tuttavia, è dotato di un proprio codice fiscale in quanto soggetto passivo d’imposta. Il trustee è, allo stesso tempo, investito del potere ed onerato dell’obbligo di amministrare il trust così come indicato dal settlor.

Come accennato, manca nel nostro ordinamento una legge regolatrice del trust. Conseguentemente, è necessario indicare, in sede di costituzione, la legge applicabile alla fattispecie. Proprio per questo motivo, gli interpreti sono soliti distinguere tra:

  1. Trust esterno: è il trust regolato da una legge straniera, rispetto alla quale presenta elementi di collegamento diversi dal mero rinvio, dal luogo di amministrazione e dalla residenza del trustee[22]. Il trust esterno è pacificamente ammesso;
  2. Trust interno: è ormai opinione diffusa – seppur non pacifica – che il trust, anche nella sua versione esclusivamente nazionale (c.d. trust tricolore o trust interno), sia idoneo a operare nel nostro ordinamento in virtù della Convenzione de L’Aja o, alternativamente, nel caso in cui si acceda alla tesi per cui tale legge regola soltanto i trust internazionali, in virtù di quanto previsto dall’art. 1322 c.c. in tema di atipicità ed interessi meritevoli di tutela.

Riassumendo le diverse teorie concernenti il trust interno, è possibile affermare che, secondo alcuni autori, il trust interno non sia ammissibile, tenuto conto dell’art. 13 della Convenzione, ai sensi del quale nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono già strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione[23]. Secondo altri autori, invece, il trust interno è ammissibile, purché sia compatibile con l’art. 2 della Convenzione e con le norme imperative del nostro ordinamento. Il legislatore tributario, infatti, ha disciplinato la tassazione dei redditi del trust con disponenti e beneficiario italiani o con beni situati in Italia[24].

Un autore, che si è occupato monograficamente del trust, asserisce che per giungere a una definizione di trust valevole nel nostro sistema giuridico, pare di potersi proporre il compimento del percorso argomentativo che si fonda sulla c.d. teoria delle «tre certezze[25]. Trattasi specificamente:

  1. Della volontà del disponente di istituire il trust, ossia dell’intenzione di costituire questo patrimonio separato (c.d. certainty of intention);
  2. Dell’individuazione degli «obiettivi» del trust, ossia del fine ultimo perseguito mediante l’istituzione dello stesso (c.d. certainty of subject matter);
  3. Del vincolo di destinazione impresso su un patrimonio, ossia della segregazione che si ancora a determinati beni caratterizzandone la destinazione (c.d. certainty of object)[26].

Il disponente è il settlor, ossia il soggetto che, affidando al trustee determinati beni, stabilisce, nell’atto istitutivo del trust, il programma destinatorio che quest’ultimo deve realizzare. Il disponente perde quindi i diritti ed i poteri su tali beni. Il disponente può inoltre riservarsi alcune facoltà. Questo, tuttavia, a condizione che non incida in alcun modo sul potere di controllo del trustee sui beni in trust. In caso contrario, infatti, il negozio potrebbe configurare uno sham trust ed essere conseguentemente viziato da nullità[27].

Va sempre tenuto presente, peraltro, come la costituzione in trust possa celare un espediente elusivo per l’evasore fiscale. Tuttavia, una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha giustamente disposto che se il trust dovesse integrare attività giuridica evidentemente elusiva, i beni separati – e quindi vincolati – non rimarrebbero comunque al riparo dai provvedimenti ablatori di natura penale[28]. Si tratta di una statuizione di indubbia rilevanza, che sottende un più generale principio di sfavore dell’ordinamento nei confronti di quelli che potremmo definire patrimoni di dispersione piuttosto che patrimoni di destinazione.

La posizione del trustee è assimilabile, in un certo senso, a quella del proprietario[29]. Il trustee deve avere capacità di agire e può essere monosoggettivo o plurisoggettivo, persona giuridica o persona fisica. L’obbligo di amministrare il trust sorge solo dopo che il trustee abbia accettato l’incarico e cessa in caso di morte, dimissioni o revoca del trustee. Nel caso in cui l’ufficio sia affidato a più trustee, sorge tra gli stessi un regime di comproprietà.

Il beneficiario è colui a vantaggio del quale il trust è stato costituito. In ossequio al principio della relatività degli effetti giuridici di cui all’art. 1372 c.c. – e quindi di intangibilità della sfera giuridica del terzo – il beneficiario può rifiutare la costituzione del trust in suo favore[30]. L’eventuale accettazione equivale ad una dichiarazione di voler profittare degli effetti del negozio, in modo non dissimile a quanto valevole per il vincolo di destinazione, come già precedentemente osservato.

Si discute circa l’ammissibilità della costituzione di un trust di cui il disponente sia anche beneficiario (c.d. trust autodestinato). Secondo la tesi che si ritiene preferibile, il trust autodestinato è valido soltanto qualora il disponente non sia l’unico beneficiario[31].

Il guardiano è una figura eventuale alla quale è attribuito il compito di controllare l’attività del trustee. La sua rilevanza, naturalmente, diviene ancor più centrale in ambito mortis causa, dove il disponente non ha contezza della sorte del patrimonio destinato. Non si ritiene impossibile che il guardiano coincida, eventualmente, con il beneficiario del trust.

Il trust rientra senz’altro tra gli strumenti di pianificazione ereditaria, ossia tra gli istituti che consentono un organico passaggio generazionale. Può quindi affermarsi che il trust rappresenta un mezzo giuridico mediante il quale attuare una scissione tra titolarità e gestione del compendio ereditario. Dal punto di vista inter vivos, l’atto costitutivo del trust ha struttura unilaterale, tale per cui l’accettazione da parte del trustee ha una sua causa autonoma e struttura unilaterale.

Per quanto di nostro interesse, non si dubita dell’ammissibilità della costituzione di un trust per testamento. Tale possibilità, infatti, è espressamente prevista dall’art. 2 della Convenzione. Per trust testamentario, dunque, si intende la disposizione che attribuisce, a titolo universale o particolare, diritti patrimoniali ad un soggetto detto trustee e simultaneamente costituisce un vincolo su tali diritti, considerati nella loro unità destinatoria. Tale disposizione comporta quindi la nascita di un trust che andrà a beneficio di soggetti determinati o determinabili nei confronti, e a vantaggio ultimo, dei quali il trustee deve realizzare il programma voluto dal testatore. Il trust testamentario può senz’altro essere costituito mediante legato. In tal caso, molto semplicemente, viene costituito il trust ed i beni vincolati sono attribuiti al trustee a titolo di legato.

La possibilità, invece, di costituire un trust con istituzione ereditaria del trustee deriva dal fatto che il trust può avere ad oggetto qualsiasi bene (diversamente dal vincolo di destinazione e dal fondo patrimoniale, nei quali, come visto, i beni vincolati devono essere determinati ed appartenere a specifiche categoria). In questa prospettiva, non sorgono peculiari problemi circa la possibilità di costituire il trust testamentario istituendo erede il trustee. Tuttavia, la natura della situazione giuridica dell’istituito trustee mortis causa non è così pacifica. Diverse sono le ricostruzioni a riguardo, che rendono più complessa la ricostruzione del problema.

La situazione giuridica del trustee, infatti, è stata qualificata come:

  1. Erede o legatario, come già esaminato poc’anzi, con la conseguenza che il dante causa del beneficiario non è il de cuius ma il trustee per atto inter vivos. Il trustee ricoprirebbe la posizione di erede o legatario, a seconda del fatto che gli siano attribuiti l’intero patrimonio (o quota dello stesso) ovvero beni determinati. Egli sarebbe gravato da obbligazioni testamentarie – modus o legato – che esauriscono il valore del lascito in suo favore. I beneficiari avrebbero, come esclusivo dante causa il trustee (e non il de cuius) e riceverebbero quanto loro dovuto per atto inter vivos (e non mortis causa) in forza dell’adempimento da parte del trustee dell’obbligo di matrice testamentaria sorto a suo carico in ragione dell’istituzione del trust effettuata dal de cuius;
  2. Destinatario di un’attribuzione sui generis, costituente un tertium genus di attribuzione patrimoniale di fonte testamentaria, non riconducibile né all’istituzione di erede né al legato, introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 16 ottobre 1989 n. 364 di ratifica della Convenzione de L’Aja rientrante nella categoria degli atti facenti parte del cosiddetto “contenuto atipico del testamento” di cui all’art. 587, comma 2, c.c. Se si accoglie la tesi da ultimo esposta appare possibile prevedere che il trustee non debba rispondere dei debiti ereditari, in quanto ciò non farebbe altro che riprodurre una conseguenza già insita nella sua qualificazione come destinatario di una disposizione non qualificabile come istituzione di erede. Quanto ai beneficiari, l’orientamento in esame ritiene che il diritto che essi vantano non è un diritto reale, bensì un diritto di credito, giacché hanno diritto a vedersi attribuito, al termine del programma, da parte dell’affidatario, la universalità o una quota del patrimonio affidato ovvero il reddito della gestione. Essi, pertanto, non conseguono automaticamente la titolarità del patrimonio affidato, necessitando a tal fine un atto traslativo solutionis causa da parte dell’affidatario. Essi devono, pertanto, considerarsi legatari di un diritto di credito.

L’art. 15 della Convenzione dispone che il trust deve rispettare le norme nazionali in tema di quota legittima. L’adesione ad una delle tesi relative alla natura giuridica della posizione del trustee consente di identificare il legittimato passivo di una possibile azione di riduzione, ove si ritenga che sia questo il rimedio a tutela del legittimario. In alternativa, come meglio descritto infra, il trust potrebbe considerarsi quale peso ai sensi dell’art. 549 c.c. e pertanto inefficace di diritto. La delicatezza della questione ha indotto la dottrina a tentare di individuare soluzioni finalizzate alla confezione del negozio istitutivo del trust in modo tale da impedire che esso possa essere oggetto di impugnazione da parte dei legittimari del disponente.

Anzitutto, è stato proposto di inserire nell’atto istitutivo un’apposita clausola che riconosca ai legittimari-beneficiari il diritto potestativo di richiedere al trustee, in qualsiasi momento, un’attribuzione di valore sufficiente a soddisfare la loro quota di legittima (c.d. clausola Saunders v. Vautier[32]); in tal caso, il legittimario sarebbe pienamente tutelato, in quanto, mediante una semplice dichiarazione unilaterale di volontà, egli potrebbe ottenere la propria quota legittima libera da ogni gravame.

Inoltre, si è acutamente suggerito[33] di inserire nell’atto istitutivo del trust una disposizione che riproduca il meccanismo della cosiddetta “cautela sociniana”, di cui all’art. 550 c.c.; in sostanza, l’effetto sarebbe quello di vincolare in trust beni per un valore eccedente la quota di legittima, riconoscendo in favore del legittimario la scelta tra: accettare la sottoposizione al vincolo del trust di tutti i beni e diritti oggetto dì dotazione al trust, destinati a essere attribuiti dal trustee al beneficiario-legittimari), ivi compresa la parte del loro valore rientrante nella quota di legittima; oppure pretendere un’attribuzione immediata libera da ogni gravame di valore pari al valore della quota di legittima, abbandonando l’attribuzione del valore che eccede il valore della quota di legittima. Secondo altra parte della dottrina notarile, si potrebbe anche ricevere il trust “nei limiti dell’art. 549 c.c.”, con consueta clausola di stile.

Ci si chiede, poi, se il trust sia trascrivibile. Si tratta, come è facile immaginare, di un dubbio dal quale derivano conseguenze in tema di tutela del beneficiario, essendo infatti noto che i meccanismi pubblicitari e di opponibilità riguardino proprio la tutela in concreto dei diritti, come ci ricorda il libro VI del codice civile. Secondo un primo orientamento, il trust non è trascrivibile. Difatti, l’effetto segregativo e la conseguente opponibilità derivano direttamente dagli artt. 11 e 12 della Convenzione. Pertanto, è trascrivibile, ex art. 2643 c.c., il solo atto di dotazione (contro il disponente ed in favore del trustee)[34]. Secondo una diversa tesi, invece, il trust è trascrivibile. Sono necessarie, infatti, sia la trascrizione della dotazione patrimoniale, ex art. 2643 c.c. (contro il disponente ed in favore del trustee), sia la trascrizione dl vincolo gravante sui beni, ex art. 2645-ter c.c.[35]

Ci si chiede, dunque, se ai fini della trascrizione ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. è necessario che il trust abbia i requisiti richiesti per il vincolo di destinazione. Secondo alcuni, è trascrivibile ex art. 2645-ter c.c. ogni trust conforme alle previsioni contenute nella Convenzione, anche ove l’atto non presenti i requisiti di forma e di sostanza previsti per il vincolo di destinazione[36]. Secondo altri, la trascrizione del trust ex art. 2645-ter c.c. e la conseguente opponibilità ai terzi è subordinata all’esistenza dei requisiti di forma e di sostanza previsti per il vincolo di destinazione[37].

Il fondo patrimoniale (art. 167 c.c.)

L’art. 167 c.c. prevede la possibilità che ciascuno o ambedue i coniugi – per atto pubblico – o un terzo – anche per testamento – possano costituire un fondo patrimoniale. Nello specifico, quest’ultimo viene istituito mediante la destinazione di determinati beni immobili, mobili registrati o titoli di credito per far fronte alle esigenze della famiglia nucleare.

Il fondo patrimoniale testamentario, pertanto, riguarda la sola ipotesi di fondo costituito via testamento da un terzo, per bisogni familiari dei coniugi. In ossequio al principio di equipollenza delle forme testamentarie, dunque, la costituzione del fondo patrimoniale può essere contenuta in una qualsiasi delle tipologie di testamento previste dal nostro ordinamento. La prima questione rilevante, in merito, è se la costituzione testamentaria del fondo patrimoniale possa avvenire solo con un legato – ipotesi pacifica (sia che si tratti di legato ad effetti reali, di legato modale o di legato di contratto) – oppure possa avvenire anche con istituzione di erede. Secondo un primo orientamento, ciò non è possibile[38]. In primo luogo, perché il fondo patrimoniale deve avere per oggetti beni determinati, come testualmente previsto dall’art. 167 c.c. Pertanto, non si può istituire un erede in modo tale che tutto l’oggetto dell’eredità sia vincolato nel fondo patrimoniale, poiché i beni non sarebbero determinati. Può peraltro venire in supporto della tesi de qua un ulteriore argomento, ossia il c.d. contrasto tra creditori. Nello specifico, se il testatore costituisce il fondo patrimoniale con l’eredità e poi il delato accetta con beneficio di inventario, si creerebbe un contrasto tra creditori del fondo patrimoniale e creditori dell’eredità beneficiata. Sia il fondo patrimoniale sia l’eredità beneficiaria sono patrimoni separati, quindi nascerebbe il problema di capire chi debba essere soddisfatto con precedenza, il ceditore della famiglia o il creditore ereditario. Secondo una diversa impostazione, il fondo patrimoniale si può costituire anche con l’istituzione di erede, solo però laddove quest’ultima venga effettuata mediante una institutio ex re certa ai sensi dell’art. 588, comma 2, c.c. oppure tramite una divisione testamentaria ex art. 734 c.c., cioè esclusivamente se all’erede vengano attribuiti beni determinati, seppur in funzione di quota ereditaria[39]. In tal modo, sarebbe rispettata la lettera dell’art. 167 c.c., poiché la natura determinata dei beni deriva dall’attribuzione specifica di un singolo bene che fungerà da parametro per il calcolo della quota ereditaria del beneficiario. Secondo un’ulteriore teoria, il fondo patrimoniale si può costituire anche con l’istituzione di erede in quota astratta[40]. Questo perché, in realtà, il fondo patrimoniale avrà ad oggetto tutti quei beni facenti parte dell’eredità che sono suscettibili di essere oggetto di fondo patrimoniale (beni immobili, mobili registrati e titoli di credito). La determinazione dei beni in questione avverrebbe, dunque, ad excludendum. Tutti gli altri beni che non fanno parte delle categorie di cui all’art. 167 c.c. non saranno gravati dal vincolo. L’oggetto del fondo viene quindi determinato per relationem, poiché il vincolo graverà soltanto su beni immobili, mobili registrati e titoli di credito.

È opportuno evidenziare, peraltro, che il peso del fondo patrimoniale non è apponibile ai beni necessari a formare la quota di riserva dei legittimari, stante il divieto dell’art. 549 c.c.

Il fondo patrimoniale per testamento ha senz’altro la natura giuridica di vincolo unilaterale. Più precisamente, mentre il fondo patrimoniale per atto inter vivos è una convenzione matrimoniale, e ha quindi una struttura bilaterale tra i coniugi – addirittura trilaterale se interviene il terzo -, il fondo patrimoniale per testamento ha una struttura unilaterale, come ogni disposizione testamentaria, e non si tratta pertanto di una convenzione matrimoniale anche se, dal punto di vista pubblicitario, viene comunque annotata a margine dello stato civile[41]. Premesso che il fondo patrimoniale per testamento è, per definizione, quello costituito da un terzo, è dibattuto se sia necessaria o meno l’accettazione negoziale del vincolo da parte dei coniugi.

Potrebbe sostenersi che i coniugi debbano sempre accettare il vincolo del fondo patrimoniale, poiché non sarebbe possibile ipotizzare che un terzo sia legittimato ad effettuare un’ingerenza nel rapporto patrimoniale dei coniugi, a prescindere dal loro consenso. Tuttavia, pare ragionevole ritenere che la costituzione del fondo patrimoniale per testamento non debba essere accettata poiché l’art. 167, comma 2, c.c. dispone che la sola costituzione del fondo per atto inter vivos, effettuata dal terzo, si perfeziona con l’accettazione dei coniugi. Pertanto, come si desume a contrario dalla lettera della legge, per atto mortis causa non sembrerebbe necessario il consenso congiunto dei beneficiari del vincolo. Fermo restando che, probabilmente, è opportuno riconoscere, in capo ai coniugi, una facoltà di rifiuto, poiché è principio generale dell’ordinamento – in materia di contratto a favore del terzo, in materia di legato e, più in generale, di promesse unilaterali atipiche – che si possa anche ricevere un effetto favorevole da parte di un terzo, rimanendo ferma la possibilità di rifiutare anche tale effetto se lo si desidera. Naturalmente, l’accettazione dell’eredità rimane sempre e comunque essenziale, trattandosi di un atto presupposto per godere dei benefici derivanti dal fondo patrimoniale testamentario, ed è un atto nettamente distinto dall’accettazione del vincolo nascente dal fondo, della cui necessarietà si discute.

Tra i beni rientranti nel fondo patrimoniale, l’art. 167 c.c. menziona espressamente beni immobili, mobili iscritti in pubblici registri e titoli di credito. Sono quindi emerse diverse posizioni in ordine a particolari tipologie di beni. Secondo parte degli interpreti, la natura imprescindibilmente temporanea dei diritti reali minori è del tutto inconciliabile con le finalità e con la ratio del fondo patrimoniale[42]. Tuttavia, altri autori ritengono che non si possa limitare l’autonomia privata al punto tale da negare in radice la possibilità di costituire in fondo diritti che, seppur limitati per loro natura, possono senz’altro apportare delle utilità strumentali al conseguimento dello scopo del fondo[43]. Si precisa, inoltre, che i titoli di credito possono formare oggetto del fondo patrimoniale solo se nominativi e suscettibili di essere vincolati[44]. Parte della dottrina ammette altresì fondi patrimoniali aventi ad oggetto quote di società a responsabilità limitata, qualificandole come una sorta di beni mobili registrati immateriali[45]. La necessaria pubblicità del conferimento nel fondo, infatti, si realizzerebbe con l’iscrizione al registro delle imprese. Potrebbe finanche plausibilmente sostenersi che l’assoggettabilità al vincolo dipenda dall’esistenza o meno di un regime pubblicitario idoneo, tipico del bene che si vuole vincolare.

Il legislatore dispone che, se non è diversamente stabilito nell’atto di costituzione, la proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi. Ciò significa che la titolarità dei beni in questione può spettare anche soltanto ad uno dei due coniugi. Il che risulta peculiare soprattutto alla luce della disciplina dell’amministrazione del fondo. Ai sensi dell’art. 168, comma 3, c.c., infatti, l’amministrazione dei beni facenti parte del fondo patrimoniale è regolata dalle norme relative alla comunione legale. Ciò significa che la norma in questione – sicuramente innovativa – attribuisce il diritto di amministrazione dei beni a prescindere dalla titolarità degli stessi, dato che – come detto – essa può spettare anche ad uno solo dei coniugi. Tale disposizione, quindi, sembra quasi attribuire un diritto reale sui generis all’amministratore del fondo che non sia altresì titolare dei beni oggetto del fondo stesso.

Se l’ordinaria amministrazione non pone problemi di sorta, maritano invece un esame particolare gli atti di straordinaria amministrazione relativi ai beni costituiti in fondo patrimoniale. Assai rilevante, infatti, è la derogabilità o meno della disciplina codicistica relativa ai predetti atti. Ai fini della presente trattazione, la questione della derogabilità deve essere presa in considerazione unicamente qualora il testatore manifesti la volontà di incidere su detti aspetti. È infatti decisivo comprendere fino a che punto possa spingersi l’autonomia testamentaria in tale ambito. A tal fine, occorre premettere quali interpretazioni gravitano attorno al concetto di straordinaria amministrazione del fondo patrimoniale. Un primo orientamento trova il suo fondamento nella lettera della legge. In particolare, tra gli atti di straordinaria amministrazione che possono essere compiuti esclusivamente con il consenso di entrambi i coniugi – desumibili dagli artt. 168 e 180 c.c. – ve ne sarebbero alcuni – tassativamente indicati dall’art. 169 c.c. – per i quali è necessaria, in presenza di figli minori, anche l’autorizzazione del giudice, salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo[46]. Una seconda tesi, invece, si basa su un’interpretazione teleologica degli artt. 168 e 169 c.c. Il primo, infatti, sarebbe destinato alla disciplina degli atti di ordinaria amministrazione. Il secondo, invece, sarebbe destinato a tutti gli atti di straordinaria amministrazione, salvo sia diversamente disposto nell’atto costitutivo[47].

Diviene quindi essenziale capire in quale misura è possibile derogare al consenso congiunto ed all’autorizzazione giudiziaria di cui all’art. 169 c.c. Secondo una prima impostazione, la deroga è ammessa soltanto rispetto alla necessità dell’autorizzazione giudiziale. Ne consegue che il consenso congiunto dei coniugi al compimento dell’atto deve considerarsi inderogabile[48]. Questo perché l’art. 168 c.c. prevede che l’amministrazione del fondo patrimoniale sia regolata dalle norme dettate in tema di comunione legale. È peraltro illogico che la facoltà di deroga abbia ad oggetto l’amministrazione straordinaria e non invece l’amministrazione ordinaria. La deroga riferita alla sola autorizzazione giudiziale è peraltro in linea con le altre ipotesi legislativamente previste[49]. Secondo un’altra teoria, la deroga opera limitatamente alla necessità del consenso congiunto dei coniugi. Da considerarsi inderogabile è, invece, la previa autorizzazione giudiziale[50]. Si giunge a tale conclusione in quanto l’autorizzazione de qua è posta nell’interesse del minore, che viene così tutelato all’interno del sistema ordinamentale della volontaria giurisdizione. Secondo un ultimo orientamento, la deroga può operare rispetto ad entrambe le ipotesi[51]. Ciò significa che, in sede di costituzione, è possibile prevedere – in modo programmatico – che per il compimento degli atti di straordinaria amministrazione non sia necessario il consenso coniugale congiunto[52] né la previa autorizzazione giudiziale di volontaria giurisdizione. L’orientamento in esame si fonda su due rilevanti argomenti di immediata comprensione. Innanzitutto, non sussiste un principio generale per cui l’autorizzazione giudiziale è da considerarsi inderogabile[53]. Infine, a sostegno dell’impostazione più permissiva c’è l’interpretazione letterale dell’art. 169 c.c., che corrobora la tesi in esame con l’inciso che fa salva la facoltà di prevedere diversamente nell’atto costitutivo.

La fondazione (artt. 14 e ss. c.c.)

La fondazione è una persona giuridica disciplinata dagli artt. 14 e ss. c.c. Si tratta, in particolare, di una persona necessariamente riconosciuta. Il ricorso all’istituto della fondazione consente di vincolare un patrimonio per uno scopo non di lucro stabilito dal fondatore della medesima.

L’art. 14 c.c. stabilisce espressamente che la fondazione può essere costituita per testamento. Per costituire inter vivos una fondazione è richiesta la forma solenne, ossia l’atto pubblico. Tuttavia, essendo prevista la fondazione testamentaria direttamente dalla norma, deve ritenersi operante il principio di equipollenza delle forme testamentarie in virtù del quale, pertanto, qualsiasi forma testamentaria è ritenuta idonea alla costituzione mortis causa della fondazione. In altri termini, la fondazione testamentaria è quella disposta con qualsiasi tipologia di testamento: il testatore costituisce direttamente la fondazione e, di regola, la dota di un patrimonio.

La più recente giurisprudenza di legittimità, peraltro, conferma la natura della fondazione, qualificandola negozio unilaterale con causa autonoma non donativa. Questo principio consolidato consente di eliminare ogni incertezza circa la struttura del negozio costitutivo dell’ente, che è e rimane sempre unilaterale, e non necessita di tutte le formalità tipiche del contratto di donazione in senso stretto[54].

È di fondamentale importanza distinguere subito due concetti. In particolare, l’atto costitutivo di fondazione in senso stretto si distingue dall’atto di dotazione della fondazione, che ha la funzione di fornire all’ente i mezzi idonei per raggiungere lo scopo. Secondo un primo orientamento, in realtà, la costituzione di fondazione è un atto complesso e l’atto di dotazione non può avere autonomia causale[55]. Ciò significa che il negozio di fondazione è un negozio unitario, fondazione e dotazione patrimoniale non sono distinti ma formano un unico negozio giuridico. Quanto detto comporta, in materia successoria, che quando il testatore dota del patrimonio il costituendo ente non sta compiendo un’istituzione ereditaria o un legato, bensì l’attribuzione tipica del negozio di fondazione. Detto altrimenti, secondo questa tesi la dotazione patrimoniale non ha una causa autonoma – istituzione di erede o legato – ma ha la medesima causa del negozio di fondazione. D’altronde, se si costituisse una fondazione per atto inter vivos non si tratterebbe di un’istituzione ereditaria, e pertanto lo stesso principio dovrebbe valere mortis causa. Premesso questo, gli interpreti che sposano questo orientamento ritengono che il negozio di fondazione nella sua interezza sia un atto post mortem – e non un negozio mortis causa – ossia un atto i cui effetti si producono dopo la morte ma che non ha natura di atto di ultima volontà. Questo proprio in virtù del fatto che la causa è la stessa della fondazione inter vivos, ed il testamento svolge soltanto la funzione di veicolo della manifestazione di volontà. Secondo un’altra impostazione, invece, atto di fondazione e atto di dotazione possono senz’altro essere distinti[56]. Pertanto, l’atto costitutivo in senso stretto configura un atto post mortem, mentre il negozio di dotazione integra un’istituzione di erede o un legato. Si tratta quindi atti distinti ma funzionalmente collegati. In altri termini, nella costituzione di una fondazione occorre distinguere due negozi, ancorché collegati, ossia il negozio di fondazione e l’atto di dotazione patrimoniale. Riassumendo la posizione dei sostenitori della tesi testé descritta, dunque, essendo la dotazione un negozio autonomo rispetto alla fondazione, la sua causa, all’interno di un testamento, è quella dell’istituzione di erede o del legato. Questo è il motivo per cui, per coerenza, si ritiene che l’atto di fondazione testamentario sia un atto post mortem ai sensi dell’art. 587, comma 2, c.c. – in quanto disposizione non patrimoniale – mentre la dotazione patrimoniale sia un atto mortis causa a tutti gli effetti – cioè istituzione di erede o legato – ex art. 587, comma 1, c.c.

È opportuno evidenziare, peraltro, che il peso della fondazione non è apponibile ai beni necessari a formare la quota di riserva dei legittimari, stante il divieto dell’art. 549 c.c.

L’art. 16 c.c. indica il contenuto minimo dell’atto costitutivo. Tuttavia, secondo parte degli interpreti[57], è ammessa la costituzione di fondazione mediante l’indicazione dei soli due elementi fondamentali citati nella norma anzidetta, ossia scopo e patrimonio. In tale ipotesi, pertanto, i restanti elementi dovranno essere integrati da un terzo soggetto, che assume quindi la qualifica giuridica di arbitratore. È possibile, peraltro, prevedere un contenuto facoltativo dell’atto costitutivo, che consiste segnatamente nella disciplina dell’estinzione dell’ente, della devoluzione del suo patrimonio, nonché della eventuale trasformazione della fondazione.

La costituzione per testamento della fondazione può avvenire in due modi. Nella costituzione diretta, il fondatore inserisce all’interno del testamento tutti gli elementi necessari per l’atto costitutivo di fondazione, esprimendo la volontà di privarsi a titolo definitivo della proprietà dei beni che costituiranno il patrimonio della fondazione, patrimonio strumentale al raggiungimento dello scopo prefissato. Il testamento è quindi, a tutti gli effetti, l’atto costitutivo vero e proprio a cui fare riferimento anche in caso di eventuali dubbi interpretativi. Nella costituzione indiretta, invece, all’interno del testamento viene manifestata la volontà di destinare un certo patrimonio alla costituzione di una fondazione. Il testatore, dunque, indica lo scopo ma incarica terzi – che assumono la qualità di arbitratori – di portare a compimento la creazione dell’ente completandone la struttura, come si evince dall’art. 3 disp. att. c.c. il quale tratta dei lasciti ad enti da istituire. La costituzione indiretta può realizzarsi in due modi differenti, secondo i noti principi di diritto successorio. In primo luogo, può compiersi un’istituzione di erede o un legato a favore di un soggetto, gravato – nei limiti dell’art. 549 c.c. se legittimario – dell’onere di costituire la fondazione. In tal caso, è possibile prevedere un eventuale meccanismo sanzionatorio per il caso di inadempimento – ai sensi dell’art. 648 c.c. – oppure un sistema di sostituzioni per il caso in cui l’onerato non possa o non voglia costituire la fondazione. In secondo luogo, il testatore può incaricare un esecutore testamentario degli adempimenti costitutivi. La fattispecie costitutiva, in questo caso, viene qualificata, segnatamente, come negozio post mortem o negozio di attuazione della volontà testamentaria.

Tendenzialmente, si ammette che il fondatore possa revocare con testamento l’atto costitutivo di fondazione[58]. Questo in quanto l’art. 15 c.c. non richiede una forma specifica per la revoca de qua. Tale revoca è ammessa anche qualora la costituzione fosse avvenuta con atto pubblico. Tuttavia, in tal caso, è necessario che, al momento della morte del testatore, non sia intervenuto il riconoscimento della fondazione oppure, alternativamente, non sia iniziata la sua attività. Ad ogni modo, è buona norma disciplinare la sorte dei beni destinati a costituire la dotazione della fondazione il cui atto costitutivo è stato revocato.

L’orientamento prevalente ammette le c.d. fondazioni di famiglia – previste dall’art. 28, comma 3, c.c. – solo se preordinate al conseguimento di uno scopo di utilità sociale[59]. L’utilità sociale è caratterizzata da un quid pluris rispetto all’interesse privato meritevole di tutela. In particolare, la fondazione di famiglia è destinata a vantaggio esclusivo di una o più famiglie determinate. Pertanto, l’utilizzo delle fondazioni di famiglia per interessi meramente personali comporterebbe la violazione del divieto di sostituzione fedecommissaria ex art. 629 c.c. e di usufrutto successivo, poiché consentirebbe di conservare e restituire alla propria morte beni ereditari, in ipotesi non previste dalla legge. Questo è il motivo per cui la dottrina che si è occupata della questione richiede l’utilità sociale della fondazione di famiglia. Sembra peraltro pacifico che la costituzione delle fondazioni di famiglia possa avvenire per testamento, non essendovi alcun argomento in contrario.

Infine, in tema di fondazione mortis causa, è opportuno citare, dal punto di vista sistematico, l’art. 3 disp. att. c.c. La norma in questione, infatti, dispone che il notaio che interviene per la stipulazione di atti tra vivi ovvero per la pubblicazione di testamenti, con i quali si dispongono fondazioni o si fanno donazioni o lasciti in favore di enti da istituire, è obbligato a farne denunzia al prefetto entro trenta giorni. Quest’ultimo, ricevuta la denunzia, è autorizzato a promuovere gli atti conservativi che reputi necessari per l’esecuzione della disposizione sia nei confronti degli eredi, sia nei confronti dei terzi. È prevista altresì la possibilità di chiedere al tribunale, in caso di urgenza o di necessità, la nomina di un amministratore provvisorio dei beni[60]. La disciplina in questione evidenzia l’indubbia rilevanza della fondazione nell’ordinamento interno. L’interesse alla corretta destinazione della dotazione patrimoniale della fondazione, infatti, è un interesse privato avente rilevanza generale. Si tratta di un principio valevole, a fortiori, in caso di fondazione mortis causa, non avendo il testatore la possibilità di controllarne le sorti.


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Cass., sez. III 13 febbraio 2020 n. 3697

Cass., sez. III penale 25 luglio 2017 n. 36801

Cass., sez. II 4 luglio 2017 n. 16409

Cass., sez. II 27 febbraio 1997 n. 1806

Corte d’Appello di Roma n. 2838 del 2019

CNN quesito n. 348/2006/C

[1] Sulla distinzione tecnico-giuridica tra i concetti di responsabilità patrimoniale e di garanzia generica, Ravazzoni A., Garanzia (diritti reali di), in “Dig. disc. priv., Sez. civ.”, VIII, Torino, p. 615.

[2] Come efficacemente illustra Ieva M., Manuale di tecnica testamentaria, Padova, 1996, p. 3, ogniqualvolta si esamini la compatibilità degli istituti con il mezzo testamentario, è di primaria importanza “identificare esattamente l’interesse perseguito dal testatore e quindi qualificare tecnicamente la disposizione”.

[3] Muritano D., La destinazione testamentaria tra fondo patrimoniale, trust e vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c., in “Tradizione e modernità del diritto ereditario nella prassi notarile – Atti dei Convegni Roma, 18 marzo 2016 – Genova, 27 maggio 2016 – Vicenza, 1 luglio 2016”, a cura della Fondazione Italiana del Notariato, Milano, 2016, p. 59. L’Autore pone in evidenza che il termine disporre è infatti composto dal prefisso “dis”, che indica separazione, e “ponere”, che suggerisce l’idea di “porre altrove”, di distaccare dal compendio delle cose che appartengono al soggetto. E tale distacco può apprezzarsi sia come “attribuzione”, sia – appunto – come “destinazione”.

[4] Trimarchi G., Gli interessi riferibili a persone fisiche, in “Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata – Atti dei Convegni Rimini, 1 luglio 2006 – Catania, 11 novembre 2006”, a cura della Fondazione Italiana del Notariato, Milano, 2007.

[5] Gli interpreti sono tendenzialmente unanimi nel ritenere ammissibile il mutuo dissenso inter vivos del vincolo ex art. 1372 c.c., come sostenuto anche da Bianca C.M., L’atto notarile di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, Milano, 2006. In ambito mortis causa, potrebbero legittimamente sorgere dubbi applicativi sul mutuo dissenso del vincolo concluso tra eredi – o legatari – del disponente e beneficiario. Dubbia è altresì l’ammissibilità del recesso ad nutum del disponente, a fortiori se ad esercitarlo sono i suoi eredi – o legatari.

[6] Spada P., Il vincolo di destinazione e la struttura del patto costitutivo, relazione a “Atti notarili di destinazione dei beni: articolo 2645-ter c.c.” – giornata di studio organizzata dal Consiglio Notarile di Milano il 19 giugno 2006. L’Autore sostiene che l’atto di destinazione sia sempre unilaterale, che non vi sia contratto con il beneficiario, che non vi sia “contratto di destinazione” con il gestore con il quale è possibile stipulare solo un mandato ad amministrare.

[7] Gazzoni F., Osservazioni sull’articolo 2645-ter, Napoli, 2007, il quale sostiene che la struttura non può essere unilaterale perché “testualmente l’art. 2645-ter non integra quella riserva di legge voluta dall’art. 1987 c.c. per legittimare una promessa unilaterale, vale a dire la tipicità della promessa”.

[8] Priore C., Redazione dell’atto di destinazione: struttura, elementi e clausole, in “Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata – Atti dei Convegni Rimini, 1 luglio 2006 – Catania, 11 novembre 2006”, a cura della Fondazione Italiana del Notariato, Milano, 2007, propone un’interpretazione che consente di operare il più possibile in aderenza alla lettera della norma, che non pone limiti, asserendo che “La ‘destinazione’ è sempre unilaterale; la ‘struttura’ dell’atto può essere unilaterale o bilaterale a seconda della configurazione prescelta dal conferente. Nel primo caso il soggetto, il conferente, destina beni alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a beneficiari, ma sarà egli stesso il soggetto attuatore della destinazione; al beneficiario verrà comunicata la volontà del disponente; il beneficiario potrà rifiutare la prestazione; il conferente potrà anche revocare la destinazione ma non dopo che la comunicazione della destinazione sia giunta a conoscenza del beneficiario. Nel secondo caso, cioè struttura bilaterale (non tra conferente e beneficiario il quale, qualora intervenga, può solo prendere atto della destinazione a suo favore, e pertanto le rispettive manifestazioni di volontà non concorrono a formare un contratto ma rimangono autonome seppur collegate), ma tra conferente e soggetto attuatore della destinazione, cioè colui al quale viene affidata la realizzazione del programma destinatorio mediante conferimento di poteri gestori (è il caso del mandato gestorio) oppure mediante l’attribuzione strumentale della titolarità dei beni destinati, al solo fine quindi dell’attuazione della destinazione”.

[9] Principio che, secondo gli interpreti più moderni, deve essere letto in ottica estensiva, dovendosi consentire la produzione di effetti giuridici nella sfera del terzo ogniqualvolta essi siano solo ed esclusivamente positivi e soprattutto rifiutabili. Si tratta del meccanismo legale già previsto in alcuni istituti codicistici, quale il legato, il contratto con obbligazioni a carico del solo proponente ed il contratto a favore del terzo (il cui effetto è sempre rifiutabile), meccanismo estendibile finanche, per chi le ammette, alle promesse unilaterali atipiche.

[10] Gazzoni F., Osservazioni sull’articolo 2645-ter, Napoli, 2007.

[11] Petrelli G., La trascrizione degli atti di destinazione, in “Riv. dir. civ.”, 2006.

[12] Bianca C.M., L’atto notarile di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, Milano, 2006.

[13] Ceolin M., Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato, Padova, 2010.

[14] Petrelli G., La trascrizione degli atti di destinazione, in “Riv. dir. civ.”, 2006.

[15] Cass., sez. III 13 febbraio 2020 n. 3697 (“L’atto di semplice destinazione di un bene (senza il trasferimento della proprietà dello stesso) alla soddisfazione di determinate esigenze, ai sensi dell’art. 2645-ter c.c., costituisce, di regola, un negozio unilaterale – non perfezionandosi con l’incontro delle volontà di due o più soggetti, ma essendo sufficiente la sola dichiarazione di volontà del disponente – e a titolo gratuito, in quanto di per sé determina un sacrificio patrimoniale da parte del disponente, che non trova contropartita in una attribuzione in suo favore; esso resta tale anche se, nel contesto di un atto pubblico dal contenuto più ampio, ciascuno dei beneficiari del vincolo abbia a sua volta destinato propri beni in favore delle esigenze di tutti gli altri – risultando in tal caso i diversi negozi di destinazione solo occasionalmente contenuti nel medesimo atto pubblico notarile -, salvo che risulti diversamente, sulla base di una puntuale ricostruzione del contenuto effettivo della volontà delle parti e della causa concreta del complessivo negozio dalle stesse posto in essere”).

[16] Atto di destinazione ed eventuale atto di trasferimento, infatti, sono sottoposti a due diversi regimi di pubblicità, nonostante quest’ultima abbia in entrambi i casi un’efficacia dichiarativa, utile ai fini dell’opponibilità del vincolo o del trasferimento ai terzi.

[17] Corte d’Appello di Roma n. 2838 del 2019.

[18] Bianca C.M., L’atto notarile di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, Milano, 2006.

[19] D’Agostino S., Il negozio di destinazione nel nuovo art. 2645-ter cod. civ., in “Riv. not.”, 2007.

[20] Ceolin M., Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato, Padova, 2010.

[21] Cfr. supra quanto detto con riferimento alla figura dell’attuatore.

[22] Si pensi, per esempio, all’ipotesi in cui i beni costituiti in trust si trovano nel territorio dello Stato straniero di cui è richiamata la legge.

[23] Castronovo C., Trust e diritto civile italiano, in “Vita not.”, 1998, p. 1324; conforme in tal senso Gazzoni F., In Italia tutto è permesso, anche quel che è vietato (lettera aperta a Maurizio Lupoi sul trust e su altre bagattelle, in “Riv. not.”, 2001, p. 1254 ss.

[24] Lupoi M., Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, Milano, 2016.

[25] In particolare, Busani A., Il Trust, Milano, 2020, p. 7, afferma che: “Ricorrendo le predette «tre certezze» (la certainty of intention, la certainty of subject matter e la certainty of object, cioè, rispettivamente, la volontà del disponente di istituire il trust, l’individuazione degli «obiettivi» del trust, il vincolo di destinazione impresso su un patrimonio) si origina, dunque, un trust: vale a dire una situazione giuridica (e, quindi, riconosciuta e tutelata nell’ordinamento nel quale essa si origina e opera) nella quale un dato patrimonio viene destinato al perseguimento di un dato interesse (di uno o più soggetti beneficiari) o di un dato fine specifico (in sé e per sé, senza che vi siano uno o più soggetti designati quali titolari dell’interesse all’attuazione di detto fine specifico), con la conseguenza che il vincolo di destinazione impresso su detto patrimonio (per il perseguimento di detto interesse o di detto fine) provoca – per disposto di legge in tal senso – una situazione di “separazione” tra i beni destinati in trust (e, cioè, quelli gravati dal vincolo di destinazione) e il restante patrimonio del soggetto il quale sia (o venga a essere) titolare dei rapporti giuridici che compongono il patrimonio desti- nato stesso (ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. a) e c), Convenzione dell’Aja, infatti, è sancito che «i beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee» e che dall’istituzione del trust deriva la conseguenza che «il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee»”.

[26] Sul tema delle «tre certezze» intese come i presupposti necessari e sufficienti per la sussistenza di un trust, Lupoi M., Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, Milano, 2016, p. 42.

[27] Lo sham trust è il c.d. trust simulato, ossia un trust con intestazione fittizia di bene in favore di un trustee che non è l’effettivo gestore ma soltanto il prestanome c.d. testa di legno del disponente. A tal proposito, Bruno E. “Il trust con trustee fittizio (c.d. testa di legno) non è automaticamente illegittimo” (è quindi nullo se il disponente mantiene il controllo dei beni conferiti), nota a Cass., sez. III penale 25 luglio 2017 n. 36801, “Diritto e Giustizia”, 2017.

[28] Cass., sez. II penale, 29 agosto 2023 n. 36036.

[29] Tuttavia, dato che i beni costituiti in trust sono vincolati al soddisfacimento degli interessi del beneficiario, secondo parte della dottrina, si tratterebbe più specificamente di una fattispecie peculiare connotata dalla doverosità, ovverosia di proprietà c.d. dovuta. In tal senso, può portarsi ad esempio Fortunato G., Il trust: comparazione tra la proprietà civile e la proprietà del trustee, Milano, 2008.

[30] Cfr. nota n. 9.

[31] Lupoi M., Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, Milano, 2016.

[32] Per esempio, la legge sanmarinese regolatrice del trust (artt. 15 e 50) recepisce la regola inglese di fonte giurisprudenziale detta “Saunders v. Vautier” (si tratta del nome delle parti di una lite giudiziaria che si concluse con una sentenza del 1841). Il principio di diritto contenuto in questo precedente, infatti, prevede che i beneficiari del trust che siano esattamente individuati possono, con decisione unanime, porre fine anticipatamente ad esso e farsi dunque trasferire immediatamente i beni in trust dal trustee, a patto che si tratti di beneficiari maggiorenni e capaci d’agire (in caso di incapacità d’agire, infatti, una siffatta dichiarazione di volontà richiede una preventiva autorizzazione giudiziale). La clausola “Saunders v. Vautier” è ben esplicata nella recente opera di McBride N., Key ideas in trusts law, London, 2023, ove vengono illustrate le key ideas concernenti il trust di common law.

[33] Busani A., Il Trust, Milano, 2020.

[34] Gambaro A., Il trust in Italia. Convenzione relativa alla legge sui trusts e al loro riconoscimento, in “Le nuove leggi civili commentate”, 1993.

[35] Lupoi M., Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, Milano, 2016.

[36] Bullo L., Trust, destinazione patrimoniale ex art. 2645-ter e fondi comuni di investimento ex art. 36 comma 6 del T.U.F.: quale modello di segregazione patrimoniale? in “Riv. dir. civ.”, 2012, p. 535 ss.

[37] Bianca C.M., L’atto notarile di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, Milano, 2006.

[38] Bonilini G., Nozioni di diritto di famiglia, Torino, 2010.

[39] Cian M. – Casarotto M., Fondo patrimoniale della famiglia, in “Novissimo Digesto”, Appendice, III, Torino, 1982.

[40] Santarcangelo G., La volontaria giurisdizione, vol. IV, Regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1986.

[41] Interessante, in merito, è una recente pronuncia della Corte di Cassazione, Cass., sez. III 21 febbraio 2023 n. 5356, che chiarisce la differenza tra opponibilità – per la quale è sempre necessaria l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio – ed inefficacia, statuendo che “In tema di azione revocatoria, la mancata annotazione del fondo patrimoniale nell’atto di matrimonio, pur rendendo lo stesso inopponibile a terzi, non esclude l’interesse all’esercizio dell’azione atteso che la non opponibilità dell’atto di costituzione del fondo è situazione diversa dalla inefficacia conseguente a revoca (potendo la convenzione divenire, in ogni momento, opponibile con la successiva annotazione) e che la destinazione del bene nel fondo patrimoniale, a prescindere dall’annotazione, può essere sufficiente a rendere più incerta e difficile la realizzazione del diritto”.

[42] De Paola V. – Macrì A., Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978.

[43] Gabrielli E., Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, in “Enciclopedia del diritto”, XXXII, Milano, 1992.

[44] Sono pertanto esclusi cambiali, assegni e polizze di carico.

[45] Galgano F. – Genghini L., Trattato di diritto commerciale, vol. XXIV, Padova, 2004.

[46] Jannuzzi A. – Lorefice P., Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 2004.

[47] Genghini L., La volontaria giurisdizione e il regime patrimoniale della famiglia, Padova, 2023.

[48] Jannuzzi A. – Lorefice P., Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 2004; CNN quesito n. 348/2006/C.

[49] Si pensi all’art. 356 c.c.

[50] Cian M. – Casarotto M., Fondo patrimoniale della famiglia, in “Novissimo Digesto”, Appendice, III, Torino, 1982.

[51] Genghini L., La volontaria giurisdizione e il regime patrimoniale della famiglia, Padova, 2023, Gabrielli E., Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, in “Enciclopedia del diritto”, XXXII, Milano, 1992., Mazzacane F., La giurisdizione volontaria nell’attività notarile, Roma, 1986.

[52] A fortiori, è coerente ritenere che possa prevedersi la necessità del consenso di uno solo dei due coniugi, a patto che si tratti del proprietario del bene di cui si dispone. Conseguentemente, per il bene in comproprietà tra coniugi, si può ragionevolmente disporre che basti il consenso di uno qualsiasi dei due coniugi.

[53] Si pensi ancora all’art. 356 c.c.

[54] Cass., sez. II 4 luglio 2017 n. 16409 (“L’’atto pubblico costitutivo di una fondazione, ai sensi dell’art. 14 c.c., avendo struttura di negozio unilaterale ed autonoma causa, consistente nella destinazione di beni per lo svolgimento in forma organizzata dello scopo statutario, non dà luogo ad un atto di donazione e non rientra, pertanto, fra gli atti per i quali è sempre necessaria la presenza di due testimoni, agli effetti dell’art. 48 della l. n. 89 del 1913, nella formulazione antecedente alla sostituzione operata dalla l. n. 246 del 2005”).

[55] Galgano F., Delle persone giuridiche, Roma – Bologna, 1969.

[56] Cass., sez. II 27 febbraio 1997 n. 1806 (“L’atto di dotazione, correlato al negozio istitutivo di una fondazione contenuto, a norma dell’art. 14, comma 2, c.c., in un testamento, può consistere non solo nell’attribuzione alla istituenda fondazione di un legato, ma anche in lascito di beni a titolo ereditario”); Nicolò R., Negozio di fondazione. Istituzione di erede, in “Riv. dir. civ.”, 1941.

[57] Galgano F., Delle persone giuridiche, Roma – Bologna, 1969.

[58] Ieva M., Manuale di tecnica testamentaria, Padova, 1996

[59] Rescigno P., Fondazione (dir. civ.), in “Enciclopedia del Diritto”, XVII, Milano, 1968.

[60] Sembra dubbia, peraltro, l’applicabilità dell’art. 3 disp. att. c.c. alla sola ipotesi della costituzione diretta di fondazione oppure anche all’ipotesi di costituzione indiretta mediante onere.

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