La causa del contratto: l’evoluzione nel tempo dell’elemento causale e la concezione di causa in concreto

In Giuricivile, 2017, 3 (ISSN 2532-201X)

1. Ordinamenti causalisti e anticausalisti

Ai sensi dell’art. 1325 c.c. la causa, insieme ad accordo, oggetto e forma, laddove prescritta a pena di nullità, costituisce elemento essenziale del contratto, la cui mancanza dà luogo a nullità strutturale ex art. 1418 comma 2 c.c.

Peraltro, giurisprudenza ormai consolidata, afferma altresì il principio della expressio causae, per cui è necessario che la causa sia esplicitamente enunciata, non essendo sufficiente che le parti la traggano aliunde, ossia da elementi estranei al contratto[1].

La rilevanza dell’elemento causale emerge inoltre sotto il profilo dell’autonomia contrattuale, poiché le parti sono libere di stipulare, oltre che contratti tipici, anche contratti atipici o innominati, purché perseguano interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322 comma 2 c.c.), ragione per cui in dottrina si è affermato che è la causa a dare rilevanza giuridica al contratto[2].

Dalla natura causalista del nostro sistema deriva l’inammissibilità dei c.d. negozi astratti, che prescindono del tutto dalla causa. Esclusa l’astrazione sostanziale della causa, sono invece ammesse due ipotesi di astrazione solo processuale, che danno luogo ad un’inversione dell’onere della prova. In particolare, l’art. 1988 c.c. dispone che, in caso di promessa di pagamento o di ricognizione di debito, il rapporto fondamentale non deve essere provato dal creditore, secondo la regola generale di cui all’art. 2697 c.c., ma la sua esistenza si presume fino a prova contraria, spettando allora al debitore la prova dell’inesistenza.

Quale emblema degli ordinamenti anticausalisti si è soliti citare il sistema tedesco, che non contempla la causa quale elemento essenziale del contratto e sancisce la regola generale della vincolatività della proposta, salvo che questa sia stata esclusa (§145 BGB). In realtà la causa non è del tutto estranea neppure all’ordinamento tedesco, come emerge dal modo di trasferimento della proprietà: la normativa di riferimento è rappresentata dal § 433 BGB, per cui il venditore è obbligato a consegnare la cosa al compratore e a procurargli la proprietà e il compratore a pagargli il prezzo concordato e ad accettare la cosa, e dal § 929, in forza del quale il trasferimento della proprietà si attua mediante consegna (Übergabe). Si possono dunque distinguere due negozi: il primo, di natura obbligatoria (titulus), è il contratto di compravendita, con cui si programma l’effetto reale del passaggio di proprietà, che è però prodotto dal secondo (modus).  Mentre il modus è atto completamente astratto, il titulus è causale, a dimostrazione del fatto che anche il BGB conosce la causa. Questa separazione permette – perlomeno in linea generale – la produzione dell’effetto reale a prescindere da eventuali patologie o carenza del titolo[3].

2. Evoluzione della causa

Il diritto romano classico non prevedeva la causa come elemento costitutivo del negozio, poiché la validità dello stesso dipendeva dalla sua corrispondenza ai modelli formali o sostanziali previsti dall’ordinamento. Fu la dottrina canonistica a collegare la vincolatività della promessa all’elemento causale, sancendo il principio ex nudo pacto oritur actio, per cui, a prescindere da un formale vestimentum, la promessa è vincolante in quanto sorretta da una causa giustificatrice. Tale impostazione, approfondita da Domat e Pothier nella teoria analitica della causa, fu ripresa dal Code Civil e, quindi, dal codice Pisanelli del 1865, secondo il quale, requisito essenziale ai fini della validità del contratto, era “una causa lecita per obbligarsi” (art. 1104 ult.)[4].

La natura della causa fu oggetto di dibattito tra i sostenitori della teoria oggettiva classica, per cui la causa sarebbe consistita nella controprestazione, e i fautori di quella soggettiva, per i quali si sarebbe trattato dello scopo perseguito dalla parte che ha assunto l’obbligazione, motivo ultimo entrato nel contratto e perciò distinto rispetto al motivo meramente personale[5].

L’accoglimento di una concezione oggettiva si ha con il codice del 1942, come emerge dalla Relazione del Guardasigilli, al punto n. 613, dove si legge che “la causa non è lo scopo soggettivo perseguito dal contraente nel caso concreto (…) ma la funzione economico-sociale che il diritto riconosce rilevante ai suoi fini e che giustifica la tutela dell’autonomia privata”. In quest’ottica è allora agevole distinguerla dai motivi, non a caso autonomamente disciplinati dall’art. 1345 c.c. Si afferma così la c.d. causa astratta, quale funzione economico-sociale.

Allora, posto che i contratti tipici sono quelli disciplinati dalla legge, essi hanno tutti una causa, la c.d. causa tipica, sicché il problema non potrà porsi nel senso di mancanza di causa ma, eventualmente, nel senso di concreta realizzabilità della stessa (tipico esempio è quello di chi acquista una cosa già sua). L’ipotesi di mancanza di causa potrà invece porsi con riferimento ai contratti innominati, tanto è vero che l’art. 1322 comma 2 c.c. impone al giudice di valutare la meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti dalle parti, ossia se sussista o meno la c.d. causa atipica, controllo giudiziario che si pone come limite all’autonomia contrattuale[6]. La definizione codicistica, che funzionalizzava l’autonomia privata alla realizzazione dei fini superiori dell’ordinamento, fu elaborata da Betti, il quale affermava addirittura la nullità dei contratti socialmente futili. La teoria in esame, ancorché prevalente in giurisprudenza, fu sottoposta a diverse critiche, per essere frutto dell’idea dirigista propria dell’ideologia fascista, per comportare la sovrapposizione tra causa e tipo, per non rendere configurabile un contratto tipico con causa illecita nonché per differenziare il controllo funzionale a seconda della natura tipica o atipica del contratto. Per queste ragioni parte della dottrina concluse nel senso della necessità di porre l’attenzione sulla funzione pratica che le parti hanno assegnato al contratto, poiché ad ogni rapporto contrattuale sono sempre sottesi gli interessi reali delle parti. Così Ferri elaborò – non senza critiche ed opposizioni – il concetto della c.d. causa concreta, quale funzione economico-individuale, ossia concreta composizione di contrapposti interessi che vengono contestualmente soddisfatti mediante l’operazione contrattuale[7]. Benché questa consista nella sintesi degli interessi che il contratto è diretto a realizzare, così come ivi oggettivati, si assottiglia nuovamente il discrimen con i motivi, quali moventi individuali che spingono il soggetto a contrarre.

Rispetto alle elaborazioni dottrinali sul punto, risalenti agli anni Settanta, la giurisprudenza si dimostrò prudente e scostante, anche se si segnala già al tempo qualche pronuncia rivolta, seppur timidamente, ad un’apertura. Si legge, ad esempio, che “non ripudiandosi il concetto astratto ed obiettivo di causa come funzione economico-sociale del negozio (…) deve però ammettersi che tale funzione non deve rimanere nel limite dell’astrattezza, ma deve essere presente anche nel contratto concretamente posto in essere: quest’ultimo cioè deve avere una funzione concreta, obiettiva”[8].

Il vero e proprio riconoscimento della teoria della causa in concreto si ebbe solo con la nota sentenza della Corte di Cassazione n. 10490/2006, che ha riconosciuto expressis verbis la necessità di elaborare “un’ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto della obsolescenza della matrice ideologica che configura la causa del contratto come strumento di controllo della sua utilità sociale, affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer d’altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato)”[9]. Non si abbandona, dunque, l’ottica funzionale, ma la si rivolge alla dimensione individuale del singolo contratto e all’uso che le parti hanno voluto fare del contratto stesso, ancorché tipico.

3. Applicazioni pratiche

Negli ultimi anni la concezione di causa in concreto ha trovato sempre più spazio nell’applicazione giurisprudenziale.

Un cenno, seppur implicito in quanto antecedente alla summenzionata pronuncia del 2006, compare con riferimento all’istituto della clausola penale. Invero l’art. 1384 c.c., nell’attribuire al giudice il potere di ridurre secondo equità l’ammontare della clausola penale che sia manifestamente eccessivo, non specifica se tale potere abbia carattere officioso o se, al contrario, possa essere esercitato solo su istanza di parte. Quest’ultima era la tesi tradizionale secondo l’allora imperante concezione soggettivistica, per cui il contratto sarebbe fondato precipuamente sulla volontà delle parti, concezione che portava a considerare l’equità correttiva un rimedio eccezionale. La questione fu affidata alle Sezioni Unite[10], che affermarono il potere riduttivo officioso del giudice, quale limite all’autonomia delle parti, posto a tutela di un interesse generale. Nonostante nel testo non compaia alcun espresso riferimento alla causa concreta, è possibile evincere che il ragionamento sotteso alla decisione in parola consista nel fatto che la clausola penale, nella parte in cui è eccessiva sotto il profilo economico, è immeritevole di tutela, difettando quindi della causa concreta.

All’indomani della sentenza n. 10490/2006, rilevanti implicazioni si sono manifestate in tema di contratti di viaggio. È stato infatti rilevato che, con riferimento al contratto di “pacchetto turistico tutto compreso”, la finalità turistica ne costituisce la causa concreta e non un mero motivo, come tale irrilevante. Di conseguenza, l’impossibilità sopravvenuta dell’elemento funzionale comporta l’irrealizzabilità della causa concreta del contratto, determinandone l’estinzione[11].

Ulteriore applicazione riguarda il concordato preventivo, strumento che permette all’imprenditore in crisi o in stato di insolvenza di accordarsi con i creditori al fine di evitare la dichiarazione di fallimento. Tale accordo, di natura privatistica, è oggetto di un giudizio di omologazione da parte del giudice. Ed è proprio al fine di delimitare tali poteri del Tribunale che le Sezioni Unite[12] hanno ripreso la causa in concreto, affermando che “il controllo di legittimità (…) si attua verificandosene l’effettiva realizzabilità della causa concreta (…) da intendersi come obiettivo specifico perseguito dal procedimento”.

È nota, poi, la recente pronuncia in tema di contratto preliminare di preliminare. L’impostazione tradizionale ne affermava la nullità per mancanza di causa, ritenendo che non fosse meritevole di tutela l’interesse di obbligarsi ad obbligarsi[13]. La Cassazione a Sezioni Unite[14] ha invece ribaltato questo orientamento, evidenziando come l’indagine relativa alla causa concreta serva anche quale criterio di qualificazione del contratto. Pertanto, il preliminare di preliminare è valido ed efficace “ove sia configurabile un interesse delle parti, meritevole di tutela, ad una formazione progressiva del contratto, fondata su una differenziazione dei contenuti negoziali, e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare”.

La causa in concreto è stata richiamata dalla giurisprudenza di legittimità anche per valutare la compatibilità delle alienazioni a scopo di garanzia con il divieto di patto commissorio. In particolare, in tema di contratto di sale and lease back, la Suprema Corte[15] ha ritenuto che lo stesso sia nullo per illiceità della causa in concreto solo ove vi sia una violazione del divieto di patto commissorio, violazione esclusa qualora le parti abbiano inserito nel contratto il c.d. patto marciano, volto a ristabilire il sinallagma contrattuale tra le prestazioni grazie alla restituzione dell’importo eccedente l’entità del credito al debitore. Invero, fino a che si rientri nei limiti di cui agli artt. 2744 e 1963 c.c., non esiste un generale divieto di stipulare negozi atipici che trasferiscano la proprietà con funzione di garanzia.

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[1] F. Galgano, Diritto privato, Padova, 2010, 244.

[2] C.M. Bianca, Diritto civile, Il contratto, Milano, 2015, 448 s.

[3] F. Caringella – L. Buffoni, Manuale di diritto civile, Roma, 2016, 733 s.

[4] C.M. Bianca, Op. cit., 458 s.

[5] C.M. Bianca, Op. cit., 448 s.

[6] F. Galgano, Op. cit., 245 s.

[7] F. Caringella – L. Buffoni, Op. cit., 738.

[8] Cass. civ., 11 gennaio 1973, n. 63.

[9] Cass. civ., sez. III, 8 maggio 2006, n. 10490.

[10] Cass. civ., Sez. Un., 13 settembre 2005, n. 18128.

[11] Ex multis, Cass. civ., sez. III, 24 aprile 2008, n. 10651 e Cass. civ., sez. III, 24 luglio 2007, n. 16315.

[12] Cass. civ., Sez. Un., 23 gennaio 2013, n. 1521.

[13] Ex multis, Cass. civ., sez. II, 2 aprile 2009, n. 8038.

[14] Cass. civ., Sez. Un., 6 marzo 2015, n. 4628.

[15] Cass. civ., sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1625.

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