Indennità di espropriazione e destinazioni urbanistiche “intermedie”: criteri di valutazione

Cosa succede quando un terreno formalmente inedificabile è però situato in un’area urbanisticamente destinata, anche solo in prospettiva, a trasformazioni di tipo edilizio? La Prima Sezione Civile della Cassazione, con l’ordinanza n. 21862 del 29 luglio 2025 (clicca qui per consultare il testo integrale della decisione), è tornata a pronunciarsi sulla determinazione dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità, soffermandosi sul valore da attribuire a un terreno situato in una zona urbanisticamente classificata in modo non edificabile, ma suscettibile di trasformazioni mediante strumenti pianificatori e convenzionamenti. 

Il caso: una controversia sulla qualificazione urbanistica ai fini indennitari

Oggetto della decisione è una vicenda che vede contrapposti gli eredi di un proprietario espropriato e il Comune espropriante, in relazione alla stima del valore indennitario di un fondo di oltre 60.000 mq, oggetto di esproprio per pubblica utilità. Il fondo era situato in un’area classificata come zona F2 (attrezzature di quartiere) e F4 (parchi urbani e rispetti assoluti), entrambe non edificabili secondo le norme di PRG. Tuttavia, le caratteristiche urbanistiche generali dell’area facevano emergere un potenziale edificatorio di tipo “intermedio”, legato alla possibilità di trasformazione futura con convenzionamenti pubblico-privati.

Il giudice d’appello aveva determinato l’indennità attribuendo al fondo un valore minimo, considerandolo sostanzialmente inedificabile, e valorizzando esclusivamente la destinazione urbanistica formale (zona F). I proprietari espropriati hanno quindi proposto ricorso in Cassazione.

Le potenzialità edificatorie come parametro valutativo

La Corte di Cassazione ha ribaltato l’approccio seguito dai giudici di merito, censurando la rigidità della qualificazione urbanistica formale adottata. Il Collegio ha ribadito un principio già affermato in giurisprudenza: il valore venale di un bene espropriato non può essere ancorato esclusivamente alla sua classificazione urbanistica, ma deve tenere conto delle concrete possibilità legali di trasformazione e utilizzazione del fondo.

In particolare, la Corte ha osservato che la destinazione urbanistica a zona F — pur escludendo l’edificabilità diretta — non impedisce di attribuire un valore diverso dal minimo agricolo quando esistono strumenti urbanistici o prassi amministrative che consentano, attraverso iniziativa privata o promiscua, la realizzazione di interventi edilizi. Tali possibilità, anche se non ancora esercitate, rappresentano un elemento rilevante nella valutazione indennitaria.

La distinzione tra “conformità” e “edificabilità”: un confine sottile

Uno dei nodi centrali dell’ordinanza risiede nel rapporto tra conformità urbanistica e edificabilità giuridica. La Cassazione richiama più volte la nozione di “natura conformativa” dello strumento urbanistico: una zona classificata in modo non edificabile può comunque avere una vocazione edilizia, laddove sia inserita in un contesto pianificatorio che consenta, anche a lungo termine, un’edificazione legalmente ammissibile.

In questo senso, la Corte precisa che la stima dell’indennità deve basarsi non tanto sul dato statico della zonizzazione, quanto sulla potenziale trasformabilità urbanistica del fondo, purché giuridicamente fondata. È pertanto legittimo valorizzare destinazioni intermedie che consentano, ad esempio, la costruzione di edifici scolastici, residenziali o commerciali attraverso strumenti attuativi o convenzioni.

La critica alla CTU: metodo sintetico-comparativo e inadeguatezza del criterio agricolo

Un altro profilo affrontato dalla Corte riguarda il metodo utilizzato dal consulente tecnico per determinare il valore del terreno. Il CTU aveva fatto ricorso a un criterio di stima sintetico-comparativo, ma aveva escluso dalla comparazione numerosi terreni potenzialmente simili, ritenendo la zona oggetto di esproprio priva di confrontabilità. Inoltre, aveva attribuito un valore “agricolo” al fondo, riducendolo del 20% per costi di urbanizzazione.

La Cassazione ha censurato tale operato, osservando che la mancanza di elementi comparabili non giustifica l’applicazione automatica di un criterio agricolo, soprattutto in presenza di potenzialità edilizie intermedie previste dalla disciplina urbanistica vigente. È dovere del giudice di merito — e del consulente tecnico d’ufficio — motivare adeguatamente la scelta del criterio di stima e valutare l’eventuale possibilità di adozione di metodologie alternative, come l’analisi tecnico-ricostruttiva.

Cassazione con rinvio e precisazione sul potere della Corte

Pur ritenendo fondati i motivi di ricorso, la Corte non ha deciso direttamente la controversia nel merito, ma ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, rimettendo la causa alla Corte d’Appello di Lecce in diversa composizione. In chiusura, tuttavia, il Collegio ha colto l’occasione per ribadire che in casi di errori giuridici macroscopici o vizi evidenti nei criteri valutativi, la Corte di legittimità può — in applicazione dell’art. 384, comma 2, c.p.c. — decidere anche nel merito, senza necessità di rinvio, quando la causa è matura per la decisione.

La massima ricavabile dalla decisione

Dalla lettura dell’ordinanza si ricava un principio di diritto di particolare rilevanza in materia espropriativa:

«In tema di determinazione dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità, la possibilità di utilizzare il fondo in modo intermedio tra agricolo ed edificabile — ove prevista dagli strumenti urbanistici, anche attraverso interventi promossi dal privato — incide sulla valutazione del valore venale del bene, che non può basarsi rigidamente su un criterio di edificabilità piena né escludere in radice ogni valorizzazione urbanistica. È quindi errata la determinazione dell’indennità fondata esclusivamente su parametri astratti, senza considerare la concreta utilizzabilità dell’area, anche alla luce della sua inclusione in zone urbanistiche che, pur non conferendo edificabilità diretta, ne consentono una trasformazione urbanistica mediante strumenti convenzionali».

Profili applicativi e spunti operativi

La decisione della Corte fornisce indicazioni puntuali per professionisti, tecnici comunali, amministratori e legali coinvolti in procedimenti espropriativi:

  • Mai fermarsi alla zonizzazione: la classificazione urbanistica formale (es. zona F) non esaurisce l’indagine. Occorre accertare se esistano strumenti pianificatori o prassi che autorizzino, anche per il tramite di iniziativa privata, trasformazioni edilizie intermedie.

  • CTU e metodo valutativo: il consulente tecnico non può limitarsi ad applicare valori agricoli “di default” in assenza di fabbricabilità piena. Deve considerare le potenzialità urbanistiche giuridicamente rilevanti, anche se non ancora attuate, e motivare puntualmente la scelta del metodo (comparativo, ricostruttivo, ecc.).

  • Valore “intermedio” da motivare: la stima dev’essere calibrata in funzione della concreta possibilità di utilizzazione edificatoria, anche parziale. In caso contrario, si rischia una liquidazione indennitaria iniqua e impugnabile.

Dal valore venale al contenzioso agrario: una riflessione strategica

Questi orientamenti risultano utili non solo in ambito espropriativo, ma anche ogniqualvolta si debba valutare un fondo rurale soggetto a possibili trasformazioni, come avviene frequentemente nei giudizi esecutivi immobiliari aventi ad oggetto fondi rustici locati.

La riflessione della Corte sul rapporto tra destinazione urbanistica e utilizzabilità concreta del suolo trova infatti riscontro anche nei contesti in cui si discute la valida opponibilità dei contratti di affitto agrario nei confronti di terzi, inclusi gli aggiudicatari in sede di esecuzione immobiliare.

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  • alla loro validità e opponibilità nei confronti di terzi;
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