Inammissibilità prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto (Sezioni Unite)

in Giuricivile, 2020, 8 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., SS. UU., sent. n. 16723 del 05/08/2020

Nella sentenza in commento, le Sezioni unite della Corte di Cassazione, risolvendo un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, hanno affermato che l’inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto, ai sensi dell’art. 2725, comma 1, c.c., essendo inerente alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d’ufficio, dal giudice, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell’ammissione del mezzo istruttorio; in particolare, hanno chiarito che, qualora, nonostante l’eccezione di inammissibilità, la prova sia stata ugualmente assunta, è onere della parte interessata opporne la nullità secondo le modalità dettate dall’art. 157, comma 2, c.p.c., rimanendo altrimenti la stessa ritualmente acquisita, senza che detta nullità possa più essere fatta valere in sede di impugnazione.

Il principio di diritto enunciato nella decisione in esame costituisce l’approdo ermeneutico di una interpretazione storica, sistematica e funzionalmente orientata delle disposizioni del codice civile sulle limitazioni della prova testimoniale nei contratti, che compendia idealmente le precedenti pronunce di legittimità sul tema, basandosi sulla differente ratio legis sottesa alla disciplina della prova testimoniale per i contratti la cui forma scritta sia richiesta ad substantiam o ad probationem , con particolare riferimento alla disciplina della transazione ex art 1967 c.c.

Sommario.
1. Gli orientamenti contrapposti
2. Il percorso argomentativo delle SU.
2.1 Norme sostanziali e norme processuali
2.2 Norme processuali di ordine pubblico e a tutela di interessi privati
2.3 L’argomento storico: la Relazione illustrativa al Codice del 1942
3. Osservazioni conclusive.

1. Gli orientamenti contrapposti

L’ordinanza interlocutoria n. 3044/2019 con cui la Seconda Sezione ha rimesso gli atti al Prima Presidente ha segnalato l’esistenza di un contrasto tra le Sezioni Semplici della Corte in ordine al profilo probatorio in esame.

Un primo orientamento, in vero maggioritario nella giurisprudenza di legittimità, considera infatti la deduzione dell’inammissibilità della prova testimoniale nei contratti richiedenti forma scritta ad probationem ai sensi dell’art. 2725, comma 1 c.c. un’eccezione processuale in senso stretto, non rilevabile d’ufficio dal giudice, bensì unicamente dalla parte avente interesse ad opporsi all’assunzione della testimonianza nella prima difesa utile. Da ciò deriva che, in caso di assunzione della prova testimoniale, la stessa parte è parimenti onerata di rilevarne la nullità immediatamente dopo l’avvenuta escussione del testimone in violazione del divieto, non potendo essere tale nullità rilevata d’ufficio dal giudice: la mancata opposizione della nullità determina la sanatoria della stessa ai sensi dell’art. 157, comma 2 c.p.c., per cui la stessa non potrebbe più essere azionata dalla parte neppure in sede di appello, né rilevata d’ufficio dal giudice. [1]

Tale opzione interpretativa ha determinato una progressiva flessibilizzazione della stessa nozione di prova scritta, evincibile nella casistica sul contratto di transazione. [2]

Infatti, un primo orientamento ha ritenuto necessaria la prova scritta di tutti gli elementi costitutivi del negozio transattivo ed in particolare quello delle reciproche concessioni, ritenendo non configurabile la prova testimoniale o per presunzione neppure ai fini integrativi.[3] Secondo un orientamento intermedio, invece, l’elemento delle reciproche concessioni potrebbe anche non essere specificamente indicato nel documento ma risultare dal complesso dell’atto ed anche da elementi esterni ad esso[4]

A tali ricostruzioni si è affiancata la tesi sostenuta dalla più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui la prova del contratto di transazione può anche essere fornita da un documento sottoscritto da una sola parte, ove risulti il consenso anche solo tacito, purché univoco, dell’altra parte manifestato mediante attuazione integrale dei relativi patti[5]

A tale interpretazione, tuttavia, si è contrapposto l’orientamento adottato dalla Sezione Terza del 14 agosto 2014, sentenza n. 17986, segnalato nell’ordinanza di rimessione.[6]

La motivazione della decisione richiamata, afferente alla prova di un contratto di transazione ex art. 1967 c.c., ha ritenuto il divieto di ammissibilità della prova testimoniale o per presunzioni sull’esistenza del contratto richiedente forma scritta ad probationem derogabile solo in caso di perdita incolpevole del documento, per cui la relativa inammissibilità sarebbe deducibile anche dopo l’assunzione della prova assunta perché non suscettibile di sanatoria, possibile, con riferimento alla prova testimoniale, solo per le violazioni concernenti le modalità di deduzione ai sensi dell’art. 244 c.p.c..

La pronuncia della Seconda Sezione si fonda soprattutto sul dato letterale e sulla collocazione sistematica del divieto nel Codice civile, cui corrisponde il regime di rilevabilità anche successivo all’assunzione senza possibilità di sanatoria, prevista unicamente per le decadenze e le modalità di assunzione della prova testimoniale dall’articolo 244 c.p.c.

Infatti, secondo la motivazione della Seconda Sezione, il divieto di prova testimoniale è posto sia per i contratti richiedenti forma scritta ad substantiam che ad probationem dall’art. 2725, commma 1 e 2, e in prosieguo dall’art. 2729 c.c., che declina il medesimo divieto in materia di presunzioni semplici, configurando così una disciplina unitaria destinata a regolare uniformemente ambedue le ipotesi.

Per entrambe le tipologie negoziali, la deroga è ammessa solo in caso di perdita incolpevole del documento, per cui il dato letterale e sistematico del Codice non consentirebbe di rinvenire alcuna differenza di regime tra le due fattispecie, dovendosi ritenere l’intenzione del legislatore inequivoca sul punto : “ ubi voluit, dixit; ubi noluit, tacuit”.

2. Il percorso argomentativo delle SU

2.1 Norme sostanziali e norme processuali

Sotto il profilo logico sistematico, la soluzione cui pervengono le Sezioni Unite nella sentenza in commento si fonda in primo luogo sulla distinzione tra norme sostanziali e norme processuali.

Nei contratti che richiedono per legge la forma scritta ad substantiam, ossia a pena di invalidità del negozio, come i contratti costitutivi di diritti reali immobiliari, la forma è requisito previsto per l’esistenza stessa del contratto, tanto da essere qualificata dal legislatore come requisito essenziale ai sensi dell’art. 1325 c.c.

Essa, dunque, è elemento essenziale sia della fattispecie astratta che della fattispecie concreta del contratto effettivamente stipulato dalle parti.

Da ciò discende, secondo le Sezioni Unite, che nei contratti in esame la dichiarazione formalizzata assume in realtà in radice funzione costitutiva del negozio, è richiesta necessariamente a fortiori per la prova dello stesso: poiché il suo difetto determina la nullità strutturale del contratto ai sensi dell’art. 1418, comma 2 c.c., esso è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo. [7]

Ove invece la forma scritta sia prescritta dalla legge o scelta per volontà delle parti ad probationem, il requisito dello scritto perde la sua funzione costitutiva, non connotando più in radice la forma del contratto, bensì unicamente la forma della prova, traslitterando così da requisito sostanziale a requisito processuale che determina una limitazione dei mezzi di prova.

Ulteriore e rilevante precipitato della distinzione, la prova del contratto, in questa seconda ipotesi, non potrà essere fornita  attraverso la testimonianza, ma resterà comunque possibile mediante altri mezzi istruttori come la confessione giudiziale ed il giuramento, mentre la forma scritta ad substantiam rende possibile la confessione giudiziale all’esito dell’interrogatorio formale solo se sia rivolto a dimostrare la simulazione assoluta del contratto, perché in tal caso oggetto del mezzo di prova è l’inesistenza della compravendita immobiliare, ma non la simulazione relativa.[8]

In ordina alla necessità della prova, solo al contratto richiedente forma scritta ad probationem è applicabile il principio di non contestazione sancito dall’art. 115 c.p.c. per cui, ove la sussistenza del contratto di transazione non sia contestata dalla controparte, l’esistenza del contratto è fatto pacifico e dunque non bisognoso di prova.

Viceversa, ove la transazione abbia ad oggetto un contratto dispositivo di diritti reali immobiliari ex ar 1350 c.c., la Corte esclude l’operatività del principio di non contestazione, poiché in tal caso l’assenza dello scritto rende nullo il negozio per assenza di requisiti ai sensi dell’art. 1325 c.c., nullità rilevabile anche d’ufficio dal giudice.[9]

Inoltre, la forma scritta ad probationem consente alle parti l’esecuzione volontaria del negozio, la conferma e la ricognizione del contratto, che restano invece preclusi in ipotesi di forma scritta ad substantiam. [10]

2.2 Norme processuali di ordine pubblico e norme processuali a tutela di interessi privati

Dalla differenza strutturale tra contratto richiedente forma scritta ad substantiam e contratto richiedente forma scritta ad probationem deriva quindi, secondo le Sezioni Unite, un diverso regime di operatività e rilevabilità della eccezione avente ad oggetto la violazione del divieto di ammissione della prova testimoniale sancito dall’art. 2725 comma 1 c.c.

Quest’ultimo, infatti, con riferimento al contratto richiedente forma scritta ad probationem, non detta una regola attizia di interesse pubblico, bensì unicamente una regola probatoria prevista nell’interesse esclusivo delle parti al pari degli altri divieti posti dagli articoli 2721 , 2722 e 2723 c.c.[11]

L’inammissibilità della prova testimoniale deve quindi essere eccepita dalla parte che vi si oppone nel primo scritto difensivo successivo alla richiesta di prova, e , nel caso di irrituale assunzione della testimonianza, l’eccezione di nullità deve essere proposta sempre su eccezione di parte immediatamente dopo l’assunzione e reiterata in sede di precisazione delle conclusioni, non potendo essere dedotta per la prima volta con l’atto di appello, né rilevata d’ufficio dal giudice, essendo intervenuta, in assenza di tempestiva eccezione, la sanatoria della nullità dell’atto non eccepita dalla parte nel cui interesse è dettato il divieto legislativo.

Sotto questo profilo, la Suprema Corte rileva un’altra importante distinzione tra le norme relative al divieto di prova testimoniale nei contratti e le norme che prevedono preclusioni assertive ed istruttorie, come l’art. 183 comma 6 c.p.c. in tema istanze istruttorie nel rito di cognizione ordinario o gli articoli 414 e ss. che disciplinano i medesimi aspetti nel rito del lavoro.

Le norme sulle preclusioni istruttorie, rispondendo alla ratio legis di contenere i tempi del giudizio nell’ottica della ragionevole durata del processo, sono infatti definite espressamente dalle Sezioni Unite come norme di ordine pubblico processuale: la violazione delle preclusioni è quindi rilevabile dal giudice anche d’ufficio, a prescindere da una specifica istanza della parte interessata, dando luogo ad una nullità insanabile.

Le norme sui divieti di prova testimoniale sono invece norme a carattere dispositivo regolate dal meccanismo generale di operatività delle eccezioni processuali di cui all’art 157, comma 2 c.p.c.

Più precisamente, mentre le prime sono regole processuali in senso stretto, la cui violazione determina un error in procedendo del giudice, le norme sui divieti relativi alla prova testimoniale, restando attratte dal sistema normativo sull’onere della prova e l’efficacia dei mezzi istruttori, sono strettamente legate al diritto sostanziale, integrando, infatti, la diversa categoria dell’error in iudicando nel giudizio di Cassazione.[12]

Sulla base di tale interpretazione sistematica e teleologicamente orientata del sistema normativo sostanziale e processuale, la Corte confuta infine l’argomento letterale sostenuto dall’orientamento del 2014, secondo cui il diverso regime di rilevabilità dell’eccezione sarebbe escluso dalla lettera dell’art. 2725 c.c., che consente l’ammissibilità della prova testimoniale solo in caso di perdita incolpevole del documento sia per il contratto richiedente la forma scritta ad substantiam, sia per quello ad probationem.

Infatti, tale regola è in realtà prevista dall’articolo precedente, il 2724 c.c., per tutti i casi di limiti alla prova testimoniale in materia contrattuale, anche per quelli pacificamente ascrivibili all’interesse della parte, integrando, piuttosto, una positivizzazione del principio generale di buona fede declinato in ambito processuale.

Le Sezioni Unite deducono qui la non decisività dell’argomento letterale e di collocazione normativa sostenuto dall’orientamento del 2014 da un argomento storico, segnatamente lettura della Relazione illustrativa al Codice Civile.

2.3 L’argomento storico: la Relazione illustrativa al Codice Civile del 1942 e le differenze rispetto alle codificazioni pregresse

Sotto il profilo storico, la Corte fa riferimento alla reductio ad unum operata dal Codice civile in materia di disciplina dei limiti alla prova testimoniale in ambito contrattuale rispetto alla disciplina diversificata nel Codice di Commercio del 1882 e nel Codice Civile del 1865, ed al paragrafo n. 1114 della Relazione illustrativa al nuovo codice, che manifesta espressamente un intento di bilanciamento tra la diffidenza che storicamente ha connotato la prova testimoniale in materia di contratti e l’esigenza di salvaguardare il principio d buona fede nell’esecuzione del rapporto contrattuale quando, oltre ai casi espressamente contemplati dall’art. 2724 c.c. “usi, necessità tecniche,  condizioni di ambiente, relazioni personali dei contraenti o altre circostanze, anche meramente contingenti, possano spiegare o giustificare perché le parti non abbiano provveduto a procurarsi un documento scritto”.

Tale argomento, riportato in maniera piuttosto sintetica nel paragrafo 2.8 della pronuncia in commento, contiene in realtà un importante criterio ermeneutico per l’approccio dell’interprete al microsistema normativo rappresentato dalla disciplina dei limiti alla prova testimoniale nei contratti, costituito, per l’appunto, dalla necessità di bilanciamento tra la naturale diffidenza nel decidere le controversie contrattuali, ove appare ragionevole attendersi dalle parti la formazione di un contratto scritto, sulla base di prove testimoniali e la necessità di valorizzare la buona fede dei contraenti ove, tuttavia, ed è questa una precisazione significativa contenuta nella Relazione, la buona fede in sede processuale possa desumersi dall’analisi degli usi, delle necessità tecniche, delle relazioni personali e di ogni altra circostanza concreta che renda verosimile la mancata precostituzione del documento ad opera delle parti.[13]

Si tratta, come è evidente, di un elenco aperto e flessibile, lasciato al prudente apprezzamento del giudice del caso concreto, che è comunque tenuto a vagliare la sussistenza di elementi oggettivamente apprezzabili che abbiano indotto le parti a non regolare per iscritto i propri interessi. Sotto questo aspetto, ancorché non esplicitato dalle Sezioni Unite nel paragrafo in esame, è possibile rinvenire la necessità di garantire il diritto alla prova costituzionalmente immanente al diritto di difesa ex art. 24 della Costituzione, ove le circostanze inducano a ritenere la prova per testimoni del contratto avente forma scritta ad probationem, conformi al principio di buona fede.

Nello stesso passaggio, le Sezioni unite sottolineano altresì l’intento del legislatore di evitare “che di un contratto siano offerte contemporaneamente al giudice prove documentali e testimoniali, reputandosi queste ultime meno affidabili delle prime”[14]. Tale precisazione appare confermare la maggiore attendibilità intrinsecamente riconosciuta dal legislatore alla prova scritta in ambito contrattuale, ponendo un correttivo, o meglio, un ulteriore criterio interpretativo al giudice di merito, come ribadito infatti dalla Corte nella conclusione del paragrafo, in cui conferma espressamente il potere del giudice di valutare, “secondo il suo prudente apprezzamento, la prova testimoniale comunque assunta in ordine ai diritti e agli obblighi derivanti dal contratto, alla volontà dei contraenti ed alla portata delle relative pattuizioni.”[15]

In altri termini, argomentato esaustivamente il divieto per il giudice di rilevare d’ufficio la violazione dei limiti di ammissibilità alla prova testimoniale per tutti i contratti ad eccetto di quelli richiedenti la forma scritta ad substantiam, la Corte ribadisce il potere del giudice di valutare l’attendibilità della testimonianza comunque assunta alla luce del complesso probatorio.

3. Osservazioni conclusive

In conclusione, dai princìpi illustrati nella pronuncia in commento si evince l’opzione della Suprema Corte per un accorto bilanciamento tra la valorizzazione della buona fede in ambito processuale e il diritto alla prova immanente al diritto di difesa, da un lato, e l’esigenza di certezza nei rapporti giuridici, con particolare riferimento alle vicende transattive del negozio, dall’altro.

Se il primo principio è salvaguardato dal riconosciuto regime di eccezione in senso stretto della violazione del divieto di prova testimoniale e della correlativa eccezione di nullità della testimonianza comunque assunta, il secondo resta comunque garantito dal ribadito potere-dovere del giudice di valutare le risultanze della testimonianza assunta all’interno dell’intera cornice probatoria, al fine di verificare, in base al principio consolidato dell’id quod plerumque accidit, la verosimiglianza del raggiungimento dell’accordo transattivo.


[1] Così ex multis Cass. S. Lavoro del 3 giugno 2015 n. 11479; Cass. Sez. Prima del 14 giugno 2014 n. 14470; Cass. Sez. Terza del 30 marzo 2010 n. 7765; Cass. Sezione Seconda del 30 marzo 2005 n. 11389; Cass. Sezione Seconda del 8 gennaio 2002 n. 144; Cass. Sezione Terza del 12 maggio 1999 n. 4690; Cass. S. L. del 01 ottobre 1991 n. 10206; Cass. Sezione Terza del 25 maggio 1979 n. 3053; Cass. Sezione terza del 24 novembre 1969 n.3814; Cass. Sezione Terza del 29 aprile 1965 n. 722.

[2] Secondo una parte della dottrina, tale approccio ermeneutico risente dell’esigenza di garantire il diritto alla prova costituzionalmente garantito: CAPPELLETTI “I diritti costituzionali delle parti nel processo civile italiano” in Riv. Dir. Processuale, 1976, 606 e ss.; VIGNERA, “I fondamenti costituzionali della giustizia civile. Il modello costituzionale del processo civile italiano”, seconda ed. Torino, 1997,97 e ss.

[3] ( cfr.  Cass. Sezione Seconda del 28 aprile 2005 n. 7785; Cass. Sezione Terza del del 3 marzo 19999 n. 1787; Cass. Sez. terza del 6 gennaio 1983 n. 85.)

[4] Sul punto in particolare Cass. Sezione Terza del 8 giugno 2007, n. 13389.

[5] cfr. Corte di Cassazione sentenza n. 1627 depositata il 21 gennaio 2018; per la giurisprudenza di merito Tribunale Potenza sez. I, 20/03/2020, n.292 massimata in Redazioni Giuffré 2020.

[6]  L’indirizzo era già stato seguito in precedenza, con riferimento al divieto di prova testimoniale, da Cass. civ. 28 gennaio 2013, n. 1824; Cass. civ. 9 ottobre 1996, n. 8838,   e da. Cass. civ. Cass. civ. 20 febbraio 2004, n. 3392 per la connessa prova per presunzioni.

[7] Cfr. in dettaglio Par. 2.6 di SU del 05.08.2020 n. 16723.

[8] Come statuito dalla recente CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE – SENTENZA 10 marzo 2017, n.6262.

[9] Cfr. par. 2.9 della sentenza in commento.

  1. Si pensi alla casistica sui contratti conclusi dalla pubblica amministrazione, dove la forma scritta è richiesta sia per la stipula che per le modifiche successive, come ribadito dalla recente Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 8244 del 22 marzo 2019.

[11] Per una analitica trattazione dei limiti previsti dagli articoli 2721 e s.s. si veda Andrioli, La prova testimoniale, cit. 329 e s.s.

[12]V. in particolare par. 2.8 della sentenza in commento.

[13] Per una compiuta disamina critica sul punto: “La ricerca della verità nel processo civile: profili evolutivi in materia di prova testimoniale, CTU e fatto notorio” in “Riv. Dir. Processuale, 2011, 108 e ss.

[14] Cfr. par 2.8, pag.15. della sentenza in commento.

[15] Ibid. pag. 19.

SCRIVI IL TUO COMMENTO

Scrivi il tuo commento!
Per favore, inserisci qui il tuo nome

14 + dieci =

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.