Illegittimità costituzionale della rimozione automatica dei magistrati in caso di condanna penale

La recente sentenza n. 51 del 2024 della Corte Costituzionale sulla declaratoria di illegittimità costituzionale riguarda la rimozione automatica dei magistrati in caso di condanna penale, con un focus sulle implicazioni etiche coinvolte.

Corte Costituzionale- sent. n. 51 del 28-03-2024

La questione

La Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, con ordinanza del 18 settembre 2023, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», in riferimento agli artt. 3, 97, 105 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, «nella parte in cui dispone che si applica la sanzione della rimozione al magistrato che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso codice, senza prevedere che sia comunque rimessa all’Organo di governo autonomo la valutazione concreta della offensività della condotta al fine di una eventuale graduazione della misura sanzionatoria».
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 51 del 02.04.2024, ha dichiarato incostituzionale la norma sopra citata, ribadendo il proprio costante orientamento secondo cui la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale, in quanto, in tal modo, al CSM verrebbe sottratto qualsiasi margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto, e poi anche perché “non può in assoluto escludersi che un fatto di reato per il quale il giudice penale abbia inflitto una pena detentiva non sospesa possa essere ritenuto, sia pure in casi verosimilmente rari, meritevole di sanzioni disciplinari meno drastiche della rimozione”.
Nel caso di specie, il CSM aveva applicato al magistrato, condannato dal Giudice penale a pena detentiva non sospesa, la sanzione della rimozione, per aver egli apposto, su tre provvedimenti giurisdizionali, la firma apocrifa della Presidente del Collegio, peraltro con il consenso di quest’ultima.
Ebbene, secondo la Corte Costituzionale, il CSM non può basare la rimozione solo ed esclusivamente sulla condanna penale, ma deve discrezionalmente valutare se realmente tale condanna sia sufficiente a qualificare il magistrato come soggetto non più idoneo a svolgere la propria attività. In sostanza, non deve esservi automatismo tra condanna penale e rimozione del magistrato.

Declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 12 comma 5 D.lgs. 109/2006: motivi

La Legge n. 195 del 24.03.1958 – Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura – all’art. 10 n. 3 stabilisce che “il CSM delibera sulle sanzioni disciplinari a carico di magistrati, in esito ai procedimenti disciplinari iniziati su richiesta del Ministro o del procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione”. Il CSM è legittimato a disporre o meno la sanzione quando il procedimento disciplinare sia stato avviato su impulso del Ministro o del Procuratore Generale presso la Cassazione. Nessuna disciplina prevede la Legge relativamente al caso in cui il CSM attivi il procedimento disciplinare a seguito di una sentenza di condanna penale del magistrato. Pertanto, essa non prevede alcun automatismo tra condanna penale riportata e provvedimento di rimozione, e non lo prevede per il semplice fatto che non è disciplinata la fattispecie, ossia appunto quella di un potere disciplinare il quale si attivi a fronte di una sentenza di condanna penale.
Siccome, ai sensi dell’art. 105 Costituzione, il CSM esercita il potere disciplinare “secondo le norme
dell’ordinamento giudiziario”, e siccome, come abbiamo appena visto, tali norme non prevedono espressamente che il suddetto potere si attivi a seguito di sentenza di condanna, la declaratoria di incostituzionalità contenuta nella pronuncia in commento appare fondata.
Il D.Lgs. n. 109 del 23 febbraio 2006 – “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonchè modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della L. 25 luglio 2005, n. 150” – ha tipizzato, all’art. 2, le fattispecie di “illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni”. Tra i casi previsti da tale norma non è ricompreso quello in cui il magistrato abbia riportato una condanna penale. Si può discutere sul fatto che l’aver apposto, su tre provvedimenti giurisdizionali, la firma apocrifa della Presidente del Collegio – peraltro con il consenso di quest’ultima – rientri nella fattispecie di cui alla lettera E), ossia “l’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altro magistrato”. Ma si tratterebbe comunque di un’interpretazione, legata appunto alla mancata tipizzazione della fattispecie. E ciò non può che confermare la fondatezza della declaratoria di illegittimità costituzionale contenuta nella sentenza in esame.
Il “Codice Etico” – approvato dall’ANM (Associazione Nazionale Magistrati) in data 13.11.2010 – disciplina, tra l’altro, specificamente, la condotta del magistrato nel processo. L’art. 11 pone a suo carico l’obbligo di “raggiungere, nell’osservanza delle leggi, esiti di giustizia per tutte le parti”, nonché quello di agire, a tal fine, “con il massimo scrupolo”. La norma sembrerebbe riferirsi più a violazioni di carattere sostanziale, lesive della sfera giuridica delle parti, che non a violazioni di tipo formale, lesive del generale interesse pubblico all’autenticità della sottoscrizione dei provvedimenti giudiziari. Pertanto, basare un provvedimento disciplinare importante – qual è la rimozione – su illeciti del secondo tipo, richiederebbe, da parte del CSM, una motivazione più che congrua, in quanto la norma deontologica riguardante la condotta del magistrato nell’ambito del processo sembra più rivolta alla tutela delle parti in esso coinvolte che non alla salvaguardia dell’osservanza delle norme sul procedimento.

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Per “legge” si intendono anzitutto le norme costituzionali, ossia le disposizioni che compongono la legge fondamentale.
Tra tali norme, vi è l’art. 3, che disciplina il principio di uguaglianza.
I magistrati, nonostante tutte le “garanzie” apprestate dall’ordinamento, sono, a tutti gli effetti, “dipendenti pubblici”: lo si ricava dal fatto che l’azione disciplinare può essere promossa direttamente dal Ministro della Giustizia (art. 107 comma 2 Cost.); dal fatto che i decreti di nomina dei vincitori del concorso sono approvati dallo stesso Ministro (art. 12 comma 1 Legge 117/88); ma lo si ricava, anche e soprattutto, dall’art. 13 della Legge 117/1988, il quale stabilisce che “all’azione di regresso dello Stato che sia tenuto al risarcimento nei confronti del danneggiato si procede altresì secondo le norme ordinarie relative alla responsabilità dei pubblici dipendenti”.
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Ebbene, la decisione della Corte Costituzionale, quando afferma che il CSM non può far discendere automaticamente la rimozione del magistrato dalla sentenza di condanna penale, in realtà va ad affermare un principio che contrasta con l’automatismo previsto dall’art. 55 ter comma 2 D.lgs. 165/2001, e ciò va quindi a ledere il principio costituzionale di cui all’art. 3 Cost., essendo i magistrati a tutti gli effetti “dipendenti pubblici”.
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Pertanto, la decisione della Corte Costituzionale, nell’affermare l’illegittimità della norma la quale prevedeva l’automatismo tra condanna penale del magistrato e rimozione del medesimo, finisce a sua volta con il ledere, in modo anche piuttosto grossolano, un principio costituzionale, che è quello contenuto nell’art. 3 Cost. 

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