La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 582/2025, ha stabilito un i principio in materia di distinzione tra evasione fiscale e abuso del diritto, correggendo l’errata qualificazione operata sia dall’Amministrazione finanziaria che dal giudice di appello. La decisione si inserisce nel dibattito sulla qualificazione delle operazioni societarie artificiose.
Corte di Cassazione- Sez. Trib. – ord. n. 582 del 10-01-2025
Lo schema fraudolento
Il caso riguarda una società operante nel settore dell’information technology, accusata di aver posto in essere un complesso schema fraudolento attraverso la creazione di società satellite, alle quali veniva formalmente assegnato personale proveniente dalla società principale. Secondo la ricostruzione dell’Agenzia delle Entrate, queste risorse umane continuavano di fatto a lavorare per la società principale, mentre le prestazioni venivano fatturate come servizi dalle società satellite, con conseguente maggiorazione dei costi. La particolarità dello schema consisteva nella sistematica dismissione di queste società dopo alcuni anni di operatività, attraverso il trasferimento delle quote sociali e la riduzione del loro debito verso l’erario mediante una serie di dichiarazioni rettificative.
Lo schema contestato permetteva alla società di ottenere un triplice vantaggio fiscale: la deduzione di costi maggiori ai fini IRES, derivanti dalla differenza tra il costo del personale sostenuto dalle società satellite e il costo delle prestazioni fittiziamente rese alla contribuente; la deduzione integrale del costo del personale ai fini IRAP; e l’indebita detrazione IVA sulle fatture relative alle prestazioni di servizi rese dalle società satellite. L’Amministrazione finanziaria aveva qualificato tale condotta come “antieconomica” sul piano industriale, evidenziando come l’unica finalità fosse quella di moltiplicare artificiosamente i costi.
L’iter processuale e la questione del contraddittorio
La controversia si è inizialmente concentrata sulla questione procedurale del contradditorio preventivo previsto dall’art. 37-bis, comma 4, del D.P.R. n. 600/1973 per le contestazioni di natura elusiva. La Commissione Tributaria Provinciale di Roma aveva accolto il ricorso della società proprio per la mancata instaurazione di tale contradditorio, ritenendo che tale garanzia procedurale dovesse applicarsi non solo alle fattispecie elusive tipizzate nella norma, ma anche alle ipotesi di abuso del diritto non codificato. La Commissione Tributaria Regionale del Lazio aveva invece ribaltato la decisione, ritenendo non necessaria tale garanzia procedimentale.
La Suprema Corte, pur confermando nel risultato la decisione di appello, ha operato una significativa correzione della motivazione ex art. 384, ultimo comma, c.p.c., evidenziando come l’intera costruzione giuridica del caso fosse errata. Secondo i giudici di legittimità, infatti, la fattispecie non può essere ricondotta all’abuso del diritto o all’elusione fiscale, ma configura una chiara ipotesi di evasione.
La Cassazione ricorda che l’abuso del diritto presuppone un utilizzo improprio o distorto di strumenti giuridici legittimi, finalizzato ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario. Nel caso in esame, invece, la contestazione riguardava una vera e propria simulazione, realizzata attraverso l’interposizione fittizia di società create ad hoc, con l’unico scopo di moltiplicare artificiosamente i costi e generare indebiti vantaggi fiscali. Le prestazioni d’opera, secondo la prospettazione dell’Agenzia, sono state effettivamente realizzate, ma tra soggetti diversi da quelli che risultano dalla relativa documentazione contabile.
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La correzione della qualificazione giuridica
La riqualificazione operata dalla Corte ha avuto importanti conseguenze anche sul piano procedimentale. Infatti, trattandosi di evasione e non di elusione, non trovava applicazione la disciplina del contradditorio rafforzato prevista dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973. La Corte ha precisato che tale riqualificazione non ha comportato alcun nocumento al diritto di difesa, sia perché i fatti posti a base dell’accertamento sono rimasti intatti, mutando solo la loro sussunzione giuridica, sia perché nel caso di specie non vi è stata alcuna lesione del contraddittorio endoprocedimentale.
Per quanto riguarda il rispetto delle garanzie procedimentali generali, la Corte ha verificato sia il rispetto del termine dilatorio di 60 giorni previsto dall’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente (ampiamente rispettato nel caso di specie, essendo l’avviso di accertamento stato notificato il 18-19 giugno 2013, quasi un anno dopo il PVC del 4 luglio 2012), sia l’osservanza del principio del contradditorio endoprocedimentale in materia IVA.
Su quest’ultimo punto, richiamando la consolidata giurisprudenza europea (in particolare le sentenze CGUE Cridar Cons, C.F., Glencore, Sopropé) e nazionale (Cass. SS.UU. n. 24823/2015), la Corte ha ribadito che la violazione del contradditorio in materia di tributi armonizzati comporta l’invalidità dell’atto solo se il contribuente supera la “prova di resistenza”, dimostrando che il mancato confronto preventivo ha determinato una concreta lesione del suo diritto di difesa. Nel caso di specie, la società non ha nemmeno allegato quali argomenti avrebbe potuto far valere se fosse stata coinvolta nella fase istruttoria, rendendo la doglianza meramente formalistica.
Conclusioni
La decisione si segnala per l’importante opera di sistematizzazione dei confini tra evasione ed elusione fiscale, ricordando come la presenza di strutture societarie artificiose e l’antieconomicità delle operazioni non siano necessariamente indici di condotte elusive, potendo invece costituire elementi caratterizzanti di più tradizionali fenomeni di evasione fiscale attraverso l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.
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