La transazione fiscale definisce una procedura transattiva tra fisco e contribuente, collocata nelle procedure di concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti, che permette al contribuente l’estinzione del debito con il pagamento in misura ridotta (cd. transazione remissoria) o dilazionata (cd. transazione dilatoria).
Il riferimento alla possibilità di estinguere il debito tributario con un pagamento in misura ridotta ne tradisce immediatamente la rilevanza, costituendo un parziale superamento del principio di indisponibilità del credito tributario[1] da parte dell’Amministrazione finanziaria.
L’affermazione è indice, di per sé, della reale ratio sottesa all’istituto della transazione, nato inizialmente per tutelare prioritariamente gli interessi dell’amministrazione, ha sempre più assunto un ruolo centrale nella gestione della crisi di impresa, finendo per assumere un rilievo esclusivamente nell’ambito delle procedure concorsuali.
In altri termini, la transazione fiscale, da istituto del diritto tributario, prestato al diritto fallimentare può ormai definirsi istituto del diritto fallimentare, prestato al diritto tributario.
Nella sua prima configurazione, la transazione fiscale, introdotta dal legislatore del 2002 con il D.L. 138/2002, era ammessa per i soli crediti iscritti a ruolo, a favore di soggetti già insolventi in procedura di riscossione coattiva o assoggettati a procedure concorsuali, ed era soggetta alla verifica della convenienza, rispetto alla riscossione coattiva, ad opera dell’Agenzia delle Entrate.
Ictu oculi, allora, lo strumento richiamato, significativamente definito dalla dottrina “transazione su ruoli”, trovava la sua funzione nell’esigenza di migliorare l’attività di riscossione dei tributi in applicazione del principio di economicità dell’azione amministrativa, a tutto vantaggio degli interessi erariali.
L’istituto ha visto, però, un’evoluzione normativa, in linea con la sempre maggiore esigenza di gestione e risoluzione concordata della crisi d’impresa.
In tal senso, la riformulazione della transazione fiscale si inserisce tra i numerosi interventi legislativi che, negli ultimi anni, hanno introdotto significative novità nella disciplina dell’insolvenza, decentrando il rilievo del fallimento e istituendo numerosi strumenti giuridici finalizzati alla conservazione dell’impresa e alla tutela dei creditori, mediante la risoluzione negoziale della crisi di impresa.
Tra questi, accanto al concordato preventivo, disciplinato dall’art. 160 R.D. 267/1942 (d’ora in avanti L.F.), si ricordano gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182 bis L.F.) e il nuovo istituto del “trattamento dei crediti tributari e contributivi”, introdotto dal D.lgs. 5/2006 all’art. 182ter L.F., con il quale è stato disciplinato l’istituto della transazione fiscale.
La previsione, nella sua formulazione originaria, prevede la possibilità di un accordo tra l’ente e il contribuente insolvente avente ad oggetto un pagamento parziale (non interamente satisfattivo) ovvero un pagamento dilazionato (c.d. transazione dilatoria), anche per crediti non ancora iscritti a ruolo a titolo definitivo o ancora non iscritti a ruolo ed è collocata nell’ambito della legge fallimentare, immediatamente dopo gli accordi di ristrutturazione dei debiti.
La collocazione sistematica ne evidenzia l’esclusivo rilievo in ambito concorsuale ed è già indicativa di una rinnovata esigenza legislativa, non più diretta alla preliminare tutela degli interessi pubblici, ma volta a garantire la continuità aziendale con le relative ricadute occupazionali.
Tale rinnovata ratio è apparsa sempre più nitida negli interventi legislativi susseguitisi nel tempo e fondante la recente decisione delle Sezioni Unite.
In tal senso, nella sua prima formulazione l’ambito applicativo dell’art. 182-ter L.F. appariva limitato, da un lato, alle ipotesi in cui si inserisse in un concordato preventivo e, dall’altro, ai “tributi amministrati dalle agenzie fiscali e dei relativi accessori, limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria anche se non iscritti a ruolo, ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea”.
L’istituto è stato, poi, intensamente modificato da numerosi interventi legislativi.
Nel 2007, con il D.lgs. 169/2007, si è estesa l’operatività della transazione agli accordi di ristrutturazione di cui all’art. 182-bis L.F. Ancora, superando orientamento avverso emerso precedentemente, si è provveduto ad inserire, nel testo della Legge Fallimentare, l’art. 160 L.F., che ha espressamente concesso la possibilità di transigere anche per il pagamento di crediti fiscali privilegiati.
Il crescente rilievo dello strumento transattivo è, evidentemente, ratio fondante la legge 232/2016 (legge di bilancio 2017) che ha previsto l’obbligatorietà del provvedimento in tutte le procedure di concordato preventivo e, recependo l’orientamento delle Corti sovranazionali[2], ha esteso l’utilizzo del concordato con falcidia anche ai debiti iva e alle ritenute operate e non versate.
L’art. 182 ter L.F., nello specifico, prevede che con il piano concordatario, predisposto in seno al concordato preventivo, il debitore può proporre il pagamento, parziale o dilazionato, dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali (e dei contributi amministrati dagli enti di previdenza) se il piano ne prevede il soddisfo comunque in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione.
Il comma 5 dello stesso art. 182 ter L.F. chiarisce, poi, che il debitore può effettuare la proposta transattiva anche nell’ambito delle trattative che precedono la stipulazione degli accordi di ristrutturazione del debito di cui all’art. 182bis L.F.
Nel Concordato preventivo l’assenso o il diniego si esprime con manifestazione del voto in sede di adunanza dei creditori. In tale contesto la transazione non ha natura di accordo autonomo, ma subprocedimento amministrativo in una procedura concorsuale.
Nell’ambito degli accordi di ristrutturazione, invece, la transazione fiscale è un vero è proprio negozio giuridico autonomo. L’adesione alla proposta è espressa con sottoscrizione di un atto negoziale da parte del direttore dell’ufficio.
Così chiarito, è il caso di specificare che, per come formulata la norma di cui all’art. 182ter L.F. dal legislatore del 2016, il voto espresso dall’amministrazione finanziaria in sede di concordato preventivo e l’accordo in sede di accordi di ristrutturazione dei debiti, contribuiscono al raggiungimento delle percentuali necessarie per la conclusione delle procedure.
In sede di concordato preventivo, la proposta di concordato, ammessa dal tribunale, deve essere approvata dall’adunanza dei creditori, presieduta dal giudice delegato. È richiesta, in tal senso, la maggioranza dei creditori ammessi al voto, computando altresì crediti di natura tributaria.
La conclusione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti richiede, invece, la preventiva sottoscrizione dell’accordo dei creditori che rappresentano almeno il 60% del passivo, requisito essenziale per l’omologazione dell’accordo. Nel calcolo della percentuale del passivo è compreso anche il debito di natura tributaria.
Appare evidente, allora, il rilievo del diniego della proposta transattiva da parte dell’Amministrazione finanziaria, idoneo ad escludere una soluzione concordata.
Per arginare tale rilievo, il legislatore da ultimo, con la L. 159/2020, anticipando di fatto l’entrata in vigore della normativa riservata alla transazione fiscale nel nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.lgs. 14/2019), ha previsto che, anche in mancanza di voto da parte dell’amministrazione finanziaria (o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie), il tribunale provveda a omologare il concordato preventivo (art. 160, LF) ai sensi del quarto comma dell’art. 180 L.F., quando l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui all’art. 177 L.F.
La condizione richiesta è che la proposta del debitore sia accompagnata dalla relazione di un professionista con cui viene dimostrato che la proposta è più conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria. Analogamente, nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis, LF è stato aggiunto un ulteriore periodo al quarto comma, che permette al tribunale di omologare l’accordo anche in mancanza di adesione di erario (Inps e Inail) quando l’adesione è decisiva ai fini del raggiungimento della percentuale di cui al primo comma dell’art. 182 bis e ciò sempre sulla base delle risultanze della relazione del professionista incaricato dal debitore, il quale deve dare atto che la proposta di soddisfacimento è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria.
Dalla recente riforma appare, allora, evidente l’intenzione legislativa, sempre più orientata a garantire il contemperamento dei predetti interessi con la salvaguardia della continuità aziendale e dei livelli occupazionali.
Da questo principio muove la recente ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate a individuare il giudice munito di giurisdizione in caso di impugnazione del diniego della proposta da parte dell’Agenzia delle Entrate.
La mancata adesione alla proposta era stata impugnata dalla società ricorrente dinanzi alla Commissione tributaria provinciale competente muovendo dalla pacifica natura tributaria della controversia e richiamando l’art. 19 del D.lgs. 546/92 che, tra gli atti impugnabili dinanzi alla Commissione Tributaria, richiama, alla lettera h, “il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari. L’amministrazione, per contro, individuava nel giudice ordinario, in particolare il tribunale fallimentare, il giudice munito di giurisdizione.
Le Sezioni Unite, con ordinanza n. 8504 del 2021, accogliendo l’orientamento dell’Amministrazione finanziaria, hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario, anche interpretando la natura dell’istituto transattivo alla luce della recente riforma, sebbene non applicabile al caso di specie ratione temporis.
Secondo le Sezioni Unite “il legislatore della riforma ha incastonato la transazione fiscale con maggior chiarezza nel campo del diritto fallimentare, ancorchè ne siano evidenti i riflessi di diritto tributario”.
In tal senso, si afferma la prevalenza del profilo della concorsualità dell’istituto, derivante dalla sua necessarietà nelle procedure di diritto fallimentare previste dalla legge, ne attribuisce la giurisdizione al giudice del concorso tra i creditori, piuttosto che a quello del rapporto tributario ex artt. 2, 19, d.lgs 546/1992.
La mera natura giuridica delle obbligazioni oggetto della transazione fiscale non è sufficiente a fondare la giurisdizione del giudice tributario poiché, anche secondo il Supremo Consesso, è necessario valorizzare “la prevalente/assorbente finalità concorsuale dell’accordo transattivo e quindi del suo mancato raggiungimento a causa del dissenso opposto dall’Ente impositore”.
[1] L’affermazione, invero, è semplicistica. Il tema dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria è al centro di dibattiti dottrinari e giurisprudenziali ormai da decenni. Limitandosi a richiamare la dottrina più recente, si richiamano due orientamenti principali: i) per un primo orientamento, il principio cogente di indisponibilità deriva direttamente dalla Costituzione; ii) altro orientamento, anche alla luce delle sempre maggiori innovazioni della materia tributaria, nega la cogenza del principio e ne esclude la derivazione Costituzionale. L’ordinanza in commento pare inserirsi nel dibattito assumendo un orientamento intermedio: da una parte negando la cogenza del principio di indisponibilità, dall’altra affermandolo in termini relativi, giusta la possibilità di una deroga legislativa del principio.
[2] CGUE 7 aprile 2016, causa C-546/14: La corte di Giustizia ha ritenuto compatibile con la normativa comunitaria in materia di IVA una proposta di concordato che prevede il pagamento parziale dell’imposta a condizione che un esperto indipendente attesti il trattamento deteriore di tale credito nell’alternativa fallimentare.