La prima giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Lo Statuto del Contribuente all’art. 12, comma 7, della Legge 212/2000 “Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali” afferma che “Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori”. L’applicabilità del diritto alle osservazioni e richieste e quindi allo svolgimento di un’attività difensiva in funzione preventiva all’emissione dell’atto impositivo sembrerebbe, almeno letteralmente, limitata alle tipologie di accertamento in cui è palese la componente extra officio ovverosia quando l’Amministrazione finanziaria svolge « accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali ».
La Corte di Cassazione, fin dalle prime applicazioni, non ha posto in discussione il dato testuale dell’art. 12 dello Statuto del Contribuente e, quindi, il suo perimetro applicativo, limitandosi solo, in alcune pronunce, a discutere sulle conseguenze e quindi gli effetti in capo all’atto impositivo nell’ipotesi di mancato rispetto nell’attività prevista nel primo comma (“accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali ») degli obblighi dell’Amministrazione finanziaria di concedere il contraddittorio endoprocedimentale, arrivando a stabilire, a Sezioni Unite, che la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, “deve essere interpretata nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni (dal rilascio di copia del p.v.c. di chiusura delle operazioni) per l’emanazione dell’avviso di accertamento determina, di per sé, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, salva la ricorrenza, da comprovarsi dall’Ufficio, di oggettive specifiche ragioni d’urgenza”[1]. Arrivando a tale conclusione attraverso la valorizzazione della circostanza che la violazione procedimentale si risolve in un’intollerabile deviazione dal modello normativo perentoriamente prescritto (“avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine”). Modello normativo, che -sotto la rubrica “Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali” ed introiettando, con riguardo all’ambito di applicazione di riferimento, principi (di collaborazione e buona fede nei rapporti tra amministrazione e contribuente) di derivazione costituzionale e comunitaria- configura il contraddittorio endoprocedimentale, nelle verifiche considerate, quale indispensabile strumento di tutela del contribuente e di garanzia del migliore esercizio della potestà impositiva anche nell’interesse dell’Amministrazione.
Quindi al di là di tale ambito applicativo, la Corte di Cassazione, anche nella Sezione Tributaria, non ha mai dato motivo di uscire dal perimetro testuale di operatività della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, ritenendo circoscritto il diritto al contraddittorio endoprocedimentale agli accertamenti conseguenti ad “accessi”, “ispezioni” e “verifiche” fiscali nei locali del contribuente sulla base delle costante affermazione secondo cui l’Ordinamento tributario non contiene elementi espliciti di diritto positivo tali da postulare l’esistenza di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale a tutela delle garanzie difensive del contribuente.[2]
Al di là di quanto si è potuto fin qui leggere nei copiosi articoli dedicati alla questione negli ultimi anni, la Corte di Cassazione non aveva mai valutato opzioni ermeneutiche tali da far emergere la sussistenza di un generale principio che stabilisse il diritto del contribuente alla difesa nella fase di accertamento. Con altra forma, quello che è stato dai più definito come revirement della Corte di Cassazione con la Sentenza 24823/2015 SS.UU. altro non è che la conferma di un costante orientamento reso attraverso la costante la definizione del quadro applicativo europeo nell’ambito delle imposte armonizzate e non armonizzate e soprattutto attraverso la consacrazione della necessità del diritto positivo quale sacrum statum per l’affermazione di un obbligo in capo all’Amministrazione finanziaria e l’inconsistenza di teorie su principi immanenti in tema di contraddittorio.
L’“incidente” delle Sentenze “gemelle” e le SS.UU. n. 24283/2015
Dopo la costante affermazione del dato testuale dell’art 12 dello Statuto del Contribuente e l’assenza di norme generali nell’Ordinamento tributario, le SS.UU. della Corte di Cassazione [3] con un revirement hanno ritenuto di affermare la sussistenza un principio immanente, insito, al c.d. “contraddittorio endoprocedimentale tributario” anche in assenza di una norma generale che lo prevedesse espressamente attraverso ermeneutica dei principi costituzionali, in particolare l’art. 97 Costituzione nonché dall’art. 10 dello Statuto del contribuente “I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede” e finanche dallo stesso art. 12. Le citate sentenze della Corte Suprema hanno inteso valorizzare l’applicabilità del principio espresso dall’art. 7 della L. 241/1990, applicabile anche al processo tributario, come previsione generale, gli artt. 5, 6, 10, 12 dello Statuto del Contribuente, gli artt. 97 e 24 della Carta Costituzionale, per poter quindi affermare che “la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una “decisione partecipata” mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale collaborazione) tra amministrazione e contribuente (anche) nella “fase precontenziosa” o “endoprocedimentale”, al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto dell’obbligo di comunicazione degli atti imponibili. Il diritto al contraddittorio, ossia il diritto del destinatario del provvedimento ad essere sentito prima dell’emanazione di questo, realizza l’inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall’art. 24 Cost., e il buon andamento dell’amministrazione, presidiato dall’art. 97 Cost.“, richiamando anche le precedenti pronunzie. Con un richiamo alla Carta europea dei diritti fondamentali e alla giurisprudenza della Corte di Giustizia. [4] La valorizzazione dunque del diritto del contribuente a partecipare al contraddittorio sul presupposto anche costituzionale dell’obbligo dell’amministrazione di cooperare.
Con la Sentenza 24283/2015 la Corte di Cassazione[5] ha ristabilito il primato del primato positivo, ritenendo insussistente l’obbligo per l’Amministrazione di cooperare con il contribuente attraverso lo strumento del contraddittorio preventivo, stante l’assenza -a dire della Corte- nell’Ordinamento tributario di alcuna norma generale che prescriva il diritto del contribuente a svolgere attività difensiva, attraverso osservazioni o documentazioni, prima dell’emissione dell’atto impositivo, tantomeno la possibilità di estendere la previsione dell’art. 12 dello Statuto del Contribuente alle fattispecie di verifiche “a tavolino” ovverosia all’attività di accertamento estranea agli « accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali ».
Nella Sentenza in questione, la Corte di Cassazione ha ritenuto invalicabili tre argomenti :
- l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di attivare il contraddittorio endoprocedimentale sussiste solo se specificamente previsto da una norma di diritto positivo;
- non è possibile stabilire il contraddittorio endoprocedimentale attraverso l’ordinamento europeo in quanto, eventualmente, solo con riguardo ai tributi armonizzati (e non per quelli non armonizzati) è individuabile una portata generale, in diretta applicazione del diritto comunitario, sicché la sua violazione comporta in ogni caso l’invalidità dell’atto a condizione che il contribuente alleghi le ragioni, non meramente pretestuose, che avrebbe potuto far valere ;
- da tutti i parametri normativi di riferimento non è possibile postulare, in via interpretativa, l’esistenza di un principio generale per il quale l’amministrazione finanziaria, anche in assenza di specifica disposizione, sia tenuta ad attivare, pena la nullità dell’atto, il contraddittorio endoprocedimentale ogni volta che debba essere adottato un provvvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente.
Nella prospettiva della ricerca di norme che possano far ritenere sussistente il diritto al contraddittorio, la Sentenza in commento, ritiene che, in primo luogo, non sia rinvenibile alcuna clausola nell’art. 12 della L. 212/2000 poiché:
- l’art. 12, comma 7, della L. 212/2000 non è fonte di un generalizzato obbligo di contraddittorio in quanto risulta evidenta dal dato testuale della rubrica « Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali » e, inoltre, dal comma 1 che esplicitamente si riferisce agli « accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali e agricole, artistiche e professionali »
- il legislatore avrebbe chiaramente intesto riferire la tutela del contraddittorio solo a quelle tipologie di verifiche invasive, caraterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente ;
La sussistenza del diritto al contraddittorio endoprocedimentale nell’art. 12, comma 7, della Legge 2000/212.
Le argomentazioni della Sentenza 24283/2015 non appaiono per niente convincenti.
In primo luogo, con specifico riferimento alla assenza di elementi testuali e sostanziali nella norma dello Statuto del Contribuente, si deve rilevare come il titolo della Rubrica faccia riferimento al concetto di « verifica fiscale » che nella normativa dell’Ordinamento tributario non trova mai una compiuta definizione e deve essere quindi separata da ogni specifica ipotesi di « accesso nei luoghi del contribuente ». Tanto è vero che il concetto di «verifica» evocato dall’art. 12 comma 7 l. n. 212 del 2000 è stato frequentemente inteso in senso estensivo e non letterale, perché espressivo di una ratio e di un’esigenza di contraddittorio preventivo insuscettibili di rigorosa tipizzazione. In quest’ottica, la giurisprudenza di merito ha spesso ritenuto applicabile la disposizione ed ineludibili i conseguenti incombenti procedimentali in relazione a qualunque attività di natura istruttoria diretta alla verifica della dichiarazione tributaria o tale da comportare l’esame in ufficio dei documenti prodotti dal contribuente stesso su invito dell’Amministrazione, anche senza accesso presso la sede del contribuente – un’attività qualificabile, per ciò stesso, come attività di « verifica» regolata anche da detta disposizione statutaria (cfr., in questo senso, da ultimo Comm. Trib. Prov. Trento, sez. I, sent. 2 gennaio 2013, n. 1, in questa Rivista, 2013, 702 ss.; e già, Comm. Trib. Prov. La Spezia, sez. II, 16 gennaio 2007, n. 210; cfr., altresì, in questo senso, Comm. Trib. Prov. Reggio Emilia, sez. IV, 8 novembre 2012, n. 159).
Non si comprende, pertanto, come la Corte di Cassazione in detta pronunzia abbia potuto dare estrema rilevanza e valore al nomem juris della rubrica ed in particolare « verifiche fiscali » e ritenere che lo stesso debba essere riferito alle tale tipologie di accesso « in loco » e non genericamente alla verifica quale attività di accertamento fiscale e di controllo della situazione contabile del contribuente. Se così fosse, il legislatore avrebbe previsto nella rubrica anche le altre tipologie di verifica in loco e non solo la « verifica ». Proprio la circostanza che la Rubrica sia titolata con « Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali » da il conto dell’utilizzo volutamente generale e non «tecnico della verifica. Diversamente, in considerazione del contenuto dell’articolo, il legislatore avrebbe dovuto intintolare la Rubrica dell’art. 17 « Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, controlli, accessi e ispezioni».
In secondo luogo, appare ancor più inconsistente l’argomento della estrema invasività delle attività di accertamento in loco e quindi della necessità di prestare una difesa al contribuente attraverso il contraddittorio preventivo all’emissione dell’atto impositivo. Infatti, soprattutto in epoca moderna, gli accertamenti a volte più penetranti sono riconducibili all’utilizzo di strumenti e banche dati informatiche, all’analisi documentale, agli accertamenti bancari e finanziari e ad una serie di attività esterne all’ambito « domiciliare » del contribuente. E tali attività, seguendo il ragionamento della Corte, avrebbero ex se minor peso di quello attribuibile ad un accesso -a volte meramente formale e inutile- presso i locali del contribuente. Non solo. Si può anche e al contrario rilevare che mentre nelle verifiche effettuate nella sede del contribuente costui è presente e può esplicare le sue difese illico et immediate anche con l’assistenza in loco di una difesa tecnica, con la ulteriore possibilità di replicare ai contenuti del verbale conclusivo, invece nelle verifiche a tavolino il tutto si svolge nel chiusi dell’ufficio dell’Amministrazione Finanziaria ed il contribuente, nella generalità dei casi, viene a conoscenza delle indagini contro di lui espletate solo con la notifica dell’avviso di accertamento, ovvero senza che gli sia stato possibile interloquire né nel corso né dopo la chiusura delle stesse.
Non si comprende per quale ragione il legislatore abbia voluto confinare un fondamentale diritto ad ipotesi di accesso in loco dell’Ammnistrazione finanziaria e non all’accertamento in quanto tale, creando in tal modo una assurda ed irragionevole discriminazione tra accertamenti indipendentemente dal reale grado di penetrazione autoritativa ma in ogni caso esludendo totalmente il diritto di difesa e, quindi, il contraddittorio per tutte le restanti tipologie di accertamento e ciò, non si deve dimenticare, all’interno del quadro normativo denominato « Statuto del Contribuente » che costituire al contrario rappresentare, formalmente e sostanzialmente, uno strumento generale per la tutela dei diritti del contribuente. Una interpretazione così restrittiva, dunque, mal si addice all’impianto complessivo della L. 212/2000.
Non si potrà, pertanto, sostenere, che solo dal dato testuale della norma in questione si possa escludere nell’art. 12 comma 7 della L. 212/2000 l’esistenza di un generale obbligo di contraddittorio.
La sussistenza di un principio generale del contraddittorio endoprocedimentale nell’Ordinamento nazionale.
Nella medesima Sentenza n. 24283/2015 la Corte di Cassazione afferma, inoltre, che non è possibile individuare alcuna norma nell’Ordinamento diversa dalla L. 212/2000 fin qui esaminata dove poter ricavare una clausola « generale » ma solo la presenza, in campo tributario, di una pluralità di specifiche e, dunque, “confinate” norme che prescrivono il contraddittorio endoprocedimentale in rapporto ad atti specifici e che, in materia di procedimento amministrativo, l’art. 7 della L. 241/1990 che impone l’obbligo dell’Amministrazione di comunicare agli interessati l’avvio del procedimento esclude espressamente dalla disciplina i procedimenti tributari.
Nella medesima Sentenza, la Corte afferma che l’esistenza di un generalizzato obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale in campo tributario non può essere direttamente ancorato agli artt. 24 e 97 della Costituzione in quanto le garanzie previste all’art. 24 Costituzione atterrebbero all’ambito giudiziale, mentre l’art. 97 della Costituzione non recherebbe in alcuna delle sue articolazioni il benché minimo indice rivelatore dell’indefettibilità del contraddittorio endoprocedimentale; nè in seno al procedimento amministrativo né tanto meno, con riguardo allo specifico procedimento tributario.
Le conclusioni a cui arrivano le SS.UU. della Corte di Cassazione con la pronunzia in commento non sono condivisibili, ciò sia nella prospettiva dell’Ordinamento nazionale che in quello europeo di cui si dirà oltre.
Nel nostro Ordinamento giuridico tributario è senz’altro affermabile un generale principio del contraddittorio, ricavabile e finanche desumibile dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dalla giurisprudenza comunitaria[6] da alcuni principi della nostra Costituzione[7], nonché da alcune norme poste della legge ordinaria[8] peraltro confermate da alcune valutazioni operative dell’Amministrazione Finanziaria.
E’ un principio posto a garanzia del confronto tra la Pubblica Amministrazione ed i soggetti passivi d’imposta (ma non solo) interessati a partecipare al procedimento. Tale principio caratterizza, in generale, l’integrale attività della Pubblica Amministrazione nonché, in modo particolare, i procedimenti amministrativo-tributari e si configura come il diritto del soggetto di affermare e sostenere le proprie ragioni -nei modi e con le forme consentite- avanti l’Amministrazione Finanziaria che, per contro, ha l’obbligo di valutare ed esaminare, per poter legittimamente assumere ogni decisione Amministrativa in materia tributaria. Si realizza, attraverso, tale strumento difensivo la piena ed incondizionata partecipazione del contribuente all’attività pubblica di accertamento tributario.
Più volte si è espressa la Corte di Cassazione[9] secondo cui è oramai radicata nel nostro ordinamento l’esistenza di un “diritto al contraddittorio”, ossia il diritto del contribuente, destinatario del provvedimento impositivo, di essere “ascoltato” prima dell’emanazione di ogni atto impositivo, realizzando in tal modo “l’inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall’art. 24 Cost. in materia di diritto di difesa, ed il buon andamento dell’Amministrazione, presidiato dall’articolo 97 Cost.”.
Alla luce degli art. 6 e 7 della Legge n. 212/2000 che rinviano espressamente alla Legge 241/1990, recante norme in materia di procedimento amministrativo, è ormai peraltro pacifico che operare un parallelo tra la prassi del diritto amministrativo e quella tributario non appaia inopportuno. Difatti, il principio de quo è talmente storicizzato e divenuto un pilastro del nostro sistema di garanzie processuali ed amministrative, che, anche laddove non vi fosse materiale accesso presso la sede del contribuente è comunque onere dell’Agenzia redigere un verbale di chiusura delle operazioni di controllo al fine del decorso del termine di 60 giorni, previsto dall’articolo 12, comma 7, della Legge 212/2000 “Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali”, per la formulazione di osservazioni e richieste alla stessa. Ed è proprio il termine di 60 giorni previsto dalla tale norma che, posto a corollario del diritto al contraddittorio, si concreta nello strumento difensivo funzionale alle insopprimibili esigenze difensive per il contribuente che può -nel termine concesso- presentare difese nella forma delle osservazioni, note, richieste, chiarimenti e finanche documentazione, anche a seguito di un primo “controllo a tavolino” presso l’Ufficio dell’Agenzia.
La C.T.R. della Lombardia ha confermato tale interpretazione[10] asserendo che “… da un verbale di chiusura o PVC, cioè da un atto amministrativo che desse conto delle operazioni svolte e dei suoi esiti e dalla cui comunicazione poi dovevano essere lasciati decorrere 60 giorni per consentire alla parte di presentare osservazioni e richieste prima di poter predisporre e notificare l’avviso di accertamento” e “ … qualunque sia l’atto adottato dall’Amministrazione finanziaria, terminata l’attività di verifica, il contribuente potrà legittimamente argomentare nei sessanta giorni successivi a detto atto”. Per detta Commissione, l’Agenzia delle Entrate è effettivamente incorsa nella violazione dell’articolo 12, comma 7, dello Statuto del Contribuente, perché il contraddittorio preventivo deve essere valorizzato qualunque sia l’atto adottato “in quanto realizza una forma di partecipazione diretta a tutelare sia il contribuente sia [sottolinea la Commissione] l’Amministrazione, atteso che quest’ultima potrebbe anche ritenere non fondato l’eventuale avviso di accertamento da emettere”, e ciò in ossequio anche al principio di buona andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 Carta Costituzionale.
Secondo la C.T.P. di Parma[11], l’Amministrazione è tenuta al rispetto del termine di sessanta giorni previsto dallo Statuto del contribuente per l’emissione dell’avviso d’accertamento “salvo comprovati motivi d’urgenza”. Tale organo, più precisamente, ritiene che l’atto impugnato sia affetto da nullità perché l’Ufficio non ha provato l’effettiva esistenza, al tempo della notifica -anticipata – di specifici motivi d’urgenza[12] ed aggiunge in seguito “… non potendo certo ritenersi motivo idoneo l’approssimarsi del termine di decadenza per il compimento delle attività di controllo del periodo d’imposta considerato”. Decadenza propria del caso di specie.
Inoltre, l’art. 12 della Legge 212/2000 testualmente dispone che “nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori … l’avviso di accertamento non può essere, di conseguenza, emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”.
La Corte di Cassazione con l’anzidetto orientamento si è oramai attestata nell’affermare che se la verifica è solo documentale, “a tavolino”, ovvero senza accessi, ispezioni o verifiche presso i locali di esercizio dell’attività, non trovano applicazione le garanzie di cui al comma 7 dell’articolo 12 della legge 212/2000 e, pertanto, il mancato rispetto del termine di 60 giorni fra la notifica del processo verbale e quella dell’avviso d’accertamento, non determina alcuna nullità o irregolarità dell’atto impositivo: da ultimo Cassazione civile sez. VI, 27/07/2018, (ud. 05/07/2018, dep. 27/07/2018), n. 20036 : “In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, non sussiste per l’Amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. “a tavolino” (Sez. U, Sentenza n. 24823 del 09/12/2015, Rv. 637605-01).
Ciò premesso, ai fini dell’individuazione di un principio immanente nell’ordinamento di un diritto al contraddittorio da parte del contribuente va ricordata la Sentenza della Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 7, della L. 212/2000 che ha dichiarato manifestamente inammissibile la prospettata questione. La Consulta con tre Ordinanze[13] ha ritenuto infatti che le tre Commissioni Tributarie (Firenze, Siracusa e Campania) che avevano sollevato la questione non avessero formulato correttamente il quesito ad essa sottoposto. In particolare, con la prima Ordinanza, la Consulta rilevava che il fatto non era stato compiutamente descritto poiché non appariva chiaro se il caso specifico, sottoposto al Giudice tributario, costituisse ipotesi per la quale il contraddittorio fosse comunque imposto per legge (ad es. un accertamento basato su studi di settore). Nella seconda, la Consulta osservava che l’Ordinanza di rimessione non risultava motivata sulle ragioni che avrebbero consentito di respingere l’eccezione pregiudiziale relativa alla corretta instaurazione del rapporto processuale (la nullità della notifica dell’atto impugnato), eccezione che avrebbe potuto dare ingresso alla eccepita questione di legittimità costituzionale solo nella eventuale ipotesi che fosse stata respinta. Infine, con la terza ed ultima Ordinanza, veniva rilevato che risultava omessa l’indicazione della norma censurata di incostituzionalità, essendo del tutto generico il riferimento, come formulato nell’ordinanza di rimessione, al “diritto nazionale” e alle “norme che testualmente non prevedono il detto contraddittorio”.
Conclusivamente, nessuna valutazione era stata possibile effettuare dalla Consulta sulla fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 7, della legge n.212/2000 per carenze proprie legate al rinvio senza che dunque la Corte potesse svolgere il giudizio di legittimità nel merito.
La evidente rilevanza sociale e la fondatezza giuridica della questione, incidente sui diritti fondamentali del contribuente, possa rendere non più differibile la sua riproposizione mediante una corretta formulazione dei quesiti.
La Corte Costituzionale in una precedente Sentenza[14] nel dichiarate infondata la proposta eccezione di incostituzionalità dell’art. 37 bis, comma 4, DPR 600/73 nella parte in cui non prevede l’obbligo del contraddittorio preventivo per le fattispecie antielusive non riconducibili a quelle specificamente previste dalla norma censurata, affermava tuttavia che l’obbligo predetto deve ritenersi sussistente per tutte le fattispecie antielusive, anche in mancanza di specifica previsione normativa, precisando nell’occasione che “il rispetto dei diritti di difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario, che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto per esso lesivo, con la conseguenza che i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la propria decisione (ex plurimis, Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza 18 dicembre 2008, in causa C-349/07)” e che “l’attivazione del contraddittorio procedimentale costituisce un principio fondamentale immanente nell’ordinamento, operante anche in difetto di una espressa e specifica previsione normativa, a pena di nullità dell’atto finale del procedimento, per violazione del diritto di partecipazione dell’interessato al procedimento stesso (Corte Cass. S.U. Civ. Sent. 18/9/2014, n.19667). Talune incertezze che permangono nella giurisprudenza di legittimità, intorno ai limiti e, soprattutto, alle modalità di applicazione di questi principi, specie nei casi diversi da quelli contemplati dall’art.12, comma 7, della legge n.212 del 2000, costituiscono oscillazioni interpretative che non toccano direttamente la portata applicativa della norma censurata”.
Più di ogni altra norma ci sembra che sia l’art. 97 della Costituzione alla luce anche dei principi espressi in ambito europeo dalla Carta europea dei diritti fondamentali e dalle Sentenze della Corte di Giustizia europea.
Il contenuto dell’art. 97 della Costituzione è ampio. Ma per quanto qui interessa va senz’altro e preliminarmente illuminato il dato testuale e cioè il dovere dei pubblici ufficiali di assicurare il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione. Ciò implica il diritto del cittadino ad una buona amministrazione e l’obbligo per questa di rendere tale servizio. Come è stato autorevolmente affermato “la buona amministrazione da principio in funzione della efficacia della pubblica amministrazione “ex parte principis” è divenuto principio in funzione dei cittadini “ex parte civis”. Prima era considerata mezzo per assicurare che il potere pubblico fosse efficace, perché gli interessi collettivi e pubblici ad esso affidati fossero pienamente tutelati. Poi è divenuta strumento per assicurare una difesa dal potere pubblico, perché le situazioni giuridiche soggettive dei privati potessero essere tutelate più efficacemente. A esempio, la partecipazione dei privati, nella prima versione serve all’amministrazione, per conoscere meglio prima di decidere; nella seconda versione serve al privato, per far sentire la propria voce prima che l’amministrazione concluda il procedimento”.[15] Quindi, in generale, il diritto ad una buona amministrazione significa anche “essere ascoltati” prima che la pubblica amministrazione interferisca con i diritti in gioco del cittadino contribuente attraverso un provvedimento lesivo di tali diritti. Nello stesso senso la Corte di Giustizia europea quando afferma che “ In forza di tale principio, che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo (sentenza Sopropé, EU:C:2008:746, punto 36), i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione (sentenza Sopropé, EU:C:2008:746, punto 37)[16] ” .
E l’art. 97 della Costituzione che prevede una rapporto “sinallagmatico” tra il diritto del cittadino ad essere ascoltato e l’obbligo della pubblica amministrazione di dare adeguato spazio a tale attività, trova già diretta applicazione attraverso alcune norme generali la cui ampia portata precettiva, alla luce del dettato costituzionale, rende giustizia alla tutela del contraddittorio come insopprimibile strumento per una effettiva la partecipazione del contribuente alle determinazioni dell’Amministrazione finanziaria.
Ci si riferisce, in particolare, all’art. 10, primo comma, dello Statuto del Contribuente secondo cui “ai rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio di collaborazione e della buona fede” con ciò sottintendendo la reciprocità della collaborazione ossia il rapporto diritto ed obbligo che si manifesta -per quanto qui interessa- nel contraddittorio e quindi l’attività attraverso cui il diritto del contribuente si esplica con la presentazione di osservazioni, note, documenti, deduzioni a fronte dell’obbligo della pubblica amministrazione di ascoltare “in buona fede” l’attività difensiva del contribuente.
Nella medesima prospettiva va senz’altro ripreso e considerato l’art. 12 dello Statuto del Contribuente che afferma un principio generale e immanente, che -anche per la sua formulazione- costituisce una premessa logica e strutturale, oltreché testuale, alla successiva enunciazione: “Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori ». E’ evidente che affermazioni così perentorie che richiamano un principio così rilevante soprattutto se letto nella prospettiva dell’art. 97 della Costituzione, avrebbero dovuto essere valorizzate dalla Corte Suprema nell’individuazione di un principio immanente nell’Ordinamento tributario attraverso il quale possa trovare conforto e tutela l’esigenza del contribuente di svolgere attivamente, nel rapporto con la pubblica amministrazione, un’attività difensiva senza illogiche limitazioni circa le tipologie di accertamento e verifica.
Dunque, dal principio consacrato nel citato art. 97 Cost. discende che il destinatario di un procedimento deve avere notizia dell’esito dello stesso al fine di poter controdedurre agli assunti della P.A. facendo in modo che nell’insieme delle determinazioni finali confluiscano anche le sue difese, sì da garantire l’interesse pubblico al buon procedimento, interesse che sussiste per il procedimento amministrativo in genere, incluso quello tributario, anche se per questo sono dettate norme speciali, quali quelle contenute nella Legge n. 212/2000.
Fra le norme predette rilevano anche, oltre a quelle già individuate, ai fini del contraddittorio in particolare, quelle che sono finalizzate ad assicurare la conoscenza da parte del contribuente di tutti i provvedimenti dell’Amministrazione che possano in qualche modo interferire, in senso positivo o negativo, con i suoi interessi e che ricalcano comunque la partecipazione e l’accesso del cittadino ai sensi della L. 241/90, se pure secondo diverse modulazioni. In particolare può indicarsi l’art. 5, che fa obbligo all’Amministrazione di portare a conoscenza dei contribuenti, anche con iniziative elettroniche e in tempo reale, tutte le disposizioni legislative nonché le norme interne, quali documenti di prassi etc., le quali, anche per la molteplicità e frequente mutevolezza, sovente costituiscono ostacoli per la difesa contro gli accertamenti fiscali. Inoltre, l’art. 6 che impone all’Amministrazione l’obbligo di assicurare l’effettiva conoscenza degli atti da parte del destinatario mediante la comunicazione degli stessi nel suo effettivo domicilio, con l’ulteriore obbligo di invitare il contribuente a fornire chiarimenti, nei casi in cui sussistano incertezze su aspetti rilevanti della sua dichiarazione, prima di procedere ad iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni. Ancora. L’art. 3, che obbliga l’Amministrazione a motivare i propri atti, obbligo questo che trova preciso riscontro nell’art. 3 della L. 241/90 per i procedimenti amministrativi che fa il paio con l’art. 7 della medesima legge che, in via generale, regola i rapporti tra il cittadino e la P.A., secondo cui “l’avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi ».
Nello stesso senso andrà altresì valorizzata come clausola generale la Legge n. 4/1929, rubricata “Della repressione delle violazioni finanziarie in generale”, che all’art. 24 (ancora vigente perché richiamato espressamente dall’art. 1, comma 1, Dlgs 179/2009 nonché dall’art. 5 bis D.lgs. 218/97 e dall’art. 70 DPR 600/73) testualmente dispone che “Le violazioni contenute nelle leggi finanziarie sono contestate mediante processo verbale”, verbale che evidentemente deve essere redatto in esito alle indagini anche se eseguite a tavolino, poiché la legge fa riferimento ad ogni tipo di tributo e di verifica, e comunicato al contribuente perché possa controdedurre prima che sia emesso il provvedimento impositivo. All’uopo si rileva che non è sufficiente il mero interrogatorio del contribuente o la richiesta di notizie fatta nel corso delle indagini finanziarie, essendo invece necessario, perché vi sia un’effettiva contestazione, un vero contraddittorio; nel senso che l’Amministrazione Finanziaria, dopo l’espletamento delle indagini, deve redigere il verbale e comunicarlo al contribuente il quale espone le sue difese (di seguito si dirà in quali termini) innanzi all’organo accertatore poiché “Il soggetto destinatario di un atto della P.A., suscettivo di produrre effetti pregiudizievoli sulla sua sfera giuridica, deve essere messo in condizione di contraddire prima di subire tali effetti”[17].
Come si è accennato in precedenza la disposizione di cui all’art. 24 L. n. 4/29, che, come si è visto, non opera distinzioni tra tributi armonizzati e tributi non armonizzati, è richiamata dall’art. 5 bis del Dlgs 218/97 che testualmente prevede che “il contribuente può prestare adesione anche ai verbali di constatazione in materia di imposte sui redditi e di imposte sul valore aggiunto redatti ai sensi dell’art. 24 L. n.4 del 1929”. In proposito, si ricorda che le regole sull’accertamento per adesione si applicano a tutte le controversie tributarie e non solo alle violazioni accertate durante gli accessi nei locali del contribuente, onde la evidente riferibilità della norma anche alle verifiche relative agli accertamenti delle imposte dirette (tributi non armonizzati) effettuate nella sede degli uffici dell’Amministrazione Finanziaria.
ll riconoscimento del generalizzato principio del contraddittorio endoprocedimentale è stato, altresì, confermato in giurisprudenza in tema di iscrizione ipotecaria ex art. 77, D.P.R. 602/73 : le citate Sentenze (gemelle) della Corte di Cassazione hanno riconosciuto tale diritto come immanente anche in difetto di una espressa ed esplicita previsione normativa, a pena di nullità dell’atto finale del procedimento.[18] : “la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una “decisione partecipata” mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale collaborazione) tra amministrazione e contribuente (anche) nella “fase precontenziosa” o endoprocedimentale”, al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto dell’obbligo di comunicazione degli atti imponibili. Il diritto al contraddicono, ossia il diritto del destinatario del provvedimento ad essere sentito prima dell’emanazione di questo, realizza l’inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall’art. 24 Cost., e il buon andamento dell’amministrazione, presidiato dall’art. 97 della Costituzione ”.
La Legge Delega n. 23 del 2014
La rilevata carenza di una esplicita e positiva disciplina generale del diritto al contraddittorio preventivo procedimentale, ha indotto il legislatore a prendere atto della anomala situazione ermeneutica ed applicativa e ad intervenire con la Legge delega n. 23 del 2014, all’art.1, lett. b. Al fine di “agevolare la comunicazione con l’Amministrazione Finanziaria” è stato delineato “un quadro di reciproca e leale collaborazione” realizzabile mediante “la previsione di forme di contraddittorio propedeutiche all’adozione degli atti di accertamento dei tributi”. Alla “disciplina del contraddittorio fra contribuente e amministrazione nelle fasi amministrative dell’accertamento”, è fatto riferimento anche nell’art. 10 della citata legge n. 23/2014.
Purtroppo sino ad oggi non risulta che il Governo abbia adempiuto agli obblighi che gli erano imposti. Siamo in presenza, dunque, di una legge delega con cui il Governo è stato delegato a realizzare “forme di contraddittorio propedeutiche all’adozione degli atti di accertamento dei tributi”, senza che tuttavia sia stato emesso alcune regolamento applicativo.
Tale essendo lo stato delle cose, sarebbe del tutto erroneo il semplicistico ragionamento (fatto proprio dalla Corte di Cassazione n. 24823/2015), secondo cui proprio dalla necessità palesata dalla legge delega dovrebbe dedursi la attuale inesistenza dell’obbligatorietà del contraddittorio preventivo per tutti i tributi ed i tipi di verifiche.
Il dato testuale non lascia spazio a dubbi: nel riferimento ad “un quadro di leale e reciproca collaborazione” il legislatore sottintende la sussistenza e quindi l’immanenza di un “principio di leale collaborazione” che nella prospettiva sin qui delineata del diritto alla difesa, al contraddittorio nel rapporto contribuente / fisco nella fase di accertamento non può certo prescindere dal cardine difensivo del contraddittorio preventivo, dove si gioca gran parte della fase istruttoria con ogni diretto riverbero nelle garanzie poste a tutela del contribuente nella fase accertativa dell’imposta. Nolo solo. Ad una completa lettura, va rilevato come all’art. dell’art. 9 la legge delega prevede di “rafforzare il contraddittorio nella fase di indagine e la subordinazione dei successivi atti di accertamento e liquidazione all’esaurimento del contraddittorio procedimentale”. Si legga attentamente come il legislatore ha voluto “rafforzare” il contraddittorio nella fase di indagine sul presupposto inevitabile, dunque, della sussistenza di un generale principio, autonomo dalla tipologia di tributo e soprattutto dalle modalità di verifica o accertamento. Diversamente, il legislatore avrebbe disposto semplicemente l’introduzione del contraddittorio generalizzato nell’Ordinamento tributario senza dover specificare e chiarire la precisa finalità di rafforzamento di una tutela che all’evidenza risulta già conclamata.
[1] Cassazione civile Sez. Un., 29/07/2013, (ud. 14/05/2013, dep. 29/07/2013), n.18184.
[2] Cassazione Civile n. 26316/10, 21391/14, 15583/14, 13588/14, 7598/14, 25515/13, 2360/13, 446/13, 16354/12.
[3] Si vedano le pronunce (gemelle) a Sezioni Unite della Suprema Corte n. 19667 del 2014 e 19668 del 2014.
[4] La Suprema Corte afferma infatti che “Il diritto al contraddittorio in qualsiasi procedimento afferma la Corte di Giustizia, è attualmente sancito non solo negli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantiscono il rispetto dei diritti della difesa nonchè il diritto ad un processo equo in qualsiasi procedimento giurisdizionale, bensì anche nell’art. 41 di quest’ultima, il quale garantisce il diritto ad una buona amministrazione. Il citato art. 41, par. 2 prevede che tale diritto a una buona amministrazione comporta, in particolare, il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale lesivo ».
[5] Cassazione civile , sez. un., 09/12/2015 , n. 24823
[6] Art.41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Carta di Nizza, recepita in Italia dal Trattato di Lisbona; Corte di Giustizia UE, sent.3/7/14 cause 129/13 e 130/13 Kamino, sent.13/6/2006 causa 173/2003 Traghetti Mediterraneo, sent. 13/6/2006 causa 349/2007 Sopropè.
[7] Artt.24, 97 e 117
[8] Tra le quali gli artt. 5, 6 e 10 dello Statuto del Contribuente
[9] Ordinanza n.7137/2016, Cass. SS.UU. 18settembre 2014, n. 19667 in Corr. Trib., n. 39/2014, pag. 3019, con nota di A. Marcheselli “Il contraddittorio deve precedere ogni provvedimento tributario” e in GT – Riv. Giur. Trib. N. 12/2014, pag. 937, con commento di F. Tundo e n. 19668
[10] Sent. n. 4517 del Luglio 2014
[11] Sent. n. 535 del gennaio 2014
[12] v. anche Cass. SS. UU. n. 18184/2013 e Cass. n. 4543/15, VI Sez. Civ.
[13] Ordinanze n. 187/17, n. 188/17 e n. 189/17, tutte emesse in data 05.07.2017
[14] Sent. n. 132 del 26.05.2015
[15] S. Cassese “Il diritto alla buona amministrazione”, in ERLP (European Review of Public Law), 21-3 (73) – 2009.
[16] Corte di Giustizia UE, Sez. V, Sentenza 3 luglio 2014, C-129/13 e C-130/13.
[17] Cass. Sent. 406/15
[18] Cassazione civile sez. un., 18/09/2014, n.19667