Il patto di famiglia tra divieto di patti successori e donazione modale

in Giuricivile.it, 2022, 9 (ISSN 2532-201X)

L’articolo analizza l’istituto del patto di famiglia, la cui recente introduzione ha rappresentato una importante novità nel sistema del diritto successorio, soprattutto in considerazione del fatto che nel nostro Paese è piuttosto diffusa la presenza di imprese a carattere familiare.

In particolare, si affronta la tanto complessa quanto dibattuta questione relativa al suo inquadramento giuridico ed alla sua collocazione sistematica tra il divieto dei patti successori e la donazione modale.

Introduzione

Il Legislatore, con la L. n. 55/2006, ha introdotto, nel nostro ordinamento giuridico, l’istituto del patto di famiglia, disciplinandolo agli artt. 768-bis ss. c.c.

Si tratta di quel patto con cui l’imprenditore-disponente, prima della propria morte, assegna ad uno o più eredi discendenti-assegnatari – che sono ritenuti maggiormente idonei e capaci a proseguire l’attività imprenditoriale – l’intera azienda, un suo ramo o delle quote di partecipazione societaria che sono tali da assicurare la governance della società, onde evitare che siffatti beni, se soggiacessero alle comuni regole successorie, venendo attribuiti frazionariamente e per quote a tutti i legittimari, possano subire una disgregazione che impedisca la continuità aziendale.

A fronte di questa assegnazione unitaria, i legittimari non assegnatari dell’azienda o delle azioni, riceveranno dagli assegnatari una quota di liquidazione, che soddisfa la quota di legittima ed impedisce loro di esperire l’azione di riduzione o la collazione.

Si noti, dunque, come i soggetti coinvolti dal patto di famiglia sono, ex art. 768-quater c.c., anzitutto, il disponente, ossia l’imprenditore che, per evitare che alla propria morte si verifichi una perdita di efficienza e della continuità nella gestione aziendale, assegna l’intera azienda, un ramo o le quote di partecipazione societaria (che siano tali da assicurare la governance della società), ad uno o più eredi discendenti-assegnatari.

Vi sono poi gli assegnatari, cioè gli eredi discendenti ritenuti più idonei allo svolgimento dell’attività imprenditoriale o societaria, i quali hanno l’obbligo di provvedere alla liquidazione della quota in favore dei non assegnatari, compensandoli con una somma di denaro che corrisponde a quello che sarebbe il valore della quota di legittima sull’azienda, sul ramo di azienda o sulle quote di partecipazione societarie, se in quel momento si aprisse la successione.

Ed infine, risultano coinvolti dal patto di famiglia i legittimari non assegnatari, i quali ricevono la liquidazione della quota in denaro a tacitazione delle proprie pretese, affinché non sia integrata la lesione della quota di legittima.

Costoro non possono agire né con l’azione di riduzione ex artt. 554 ss. c.c., né con la collazione di cui all’art. 737 c.c.

Tale precisazione testimonia come siffatta assegnazione sia vista alla stregua di una liberalità, che però sfugge, per espressa previsione di legge, ai predetti istituti.

Patto di famiglia e divieto di patti successori

Secondo un’impostazione dottrinale il patto di famiglia costituirebbe un tentativo, da parte del legislatore, di attenuare l’assolutezza del divieto del patto successorio, consentendo all’imprenditore una “successione anticipata”, attraverso un contratto inter vivos.

La tesi sembrerebbe trovare conferma nei lavori preparatori e nella relazione di accompagnamento alla L. n. 55/06, ove si afferma che la ratio dell’istituto è quella di superare, con riferimento alla successione di impresa, la rigidità del divieto di patti successori, che contrasta non solo con il fondamentale diritto dell’esercizio dell’autonomia privata, ma anche, e soprattutto, con la necessità di garantire la dinamicità degli istituti collegati all’attività di impresa, volti a garantirne la continuità.

Peraltro, si evidenzia che non sarebbe un caso che il legislatore, contestualmente all’introduzione degli artt. 768-bis ss. c.c. (sul patto di famiglia) abbia ritoccato proprio l’art. 458 c.c.

La norma, invero, nel prevedere la nullità dei patti successori, contiene nel proprio incipit la clausola di salvezza “salvo quanto disposto dagli artt. 768-bis ss. c.c.”.

Da ciò sembrerebbe evincersi che il legislatore abbia ritenuto il patto di famiglia una ipotesi eccezionalmente ammessa di patto successorio.

Ebbene, nonostante l’ambigua formulazione legislativa sembrerebbe indurre a questa conclusione, a ben vedere, va osservato che, analizzando la disciplina dei patti successori, non poche sono le difficoltà che si incontrano nel ricollegarvi il patto di famiglia.

Più nel dettaglio, l’art. 458 c.c. dichiara la nullità dei patti successori istitutivi, dispositivi e rinunciativi.

I patti successori istitutivi

I patti successori istitutivi sono dei negozi mortis causa con cui taluno istituisce o si obbliga ad istituire un soggetto come erede o legatario.

Essi, dunque, analogamente al testamento, mirano a disciplinare il fenomeno delle successioni mortis causa.

Proprio per tale ragione tali patti sono espressamente dichiarati nulli dall’art. 458 c.c., atteso che la devoluzione del patrimonio ereditario può avvenire solo per legge o per testamento, e non già per contratto, vale a dire per vocazione ereditaria testamentaria o per vocazione ereditaria legale, alla quale non è possibile affiancare una vocazione ereditaria contrattuale.

Una impostazione dottrinale aveva sostenuto che il patto successorio istitutivo-contratto mortis causa non si potesse porre in essere, in quanto il testamento, essendo un atto assai delicato, con cui il testatore si confronta con la propria morte e dispone delle proprie sostanze, è sempre liberamente revocabile, mentre il contratto ha forza di legge tra le parti e non è revocabile.

Tuttavia, a ciò si obietta che la ratio non può essere la predetta, poiché altrimenti la previsione della nullità sarebbe sproporzionata, atteso che tale ostacolo sarebbe facilmente superabile, eterointegrando il contratto e prevedendo che il testatore possa liberamente revocare o recedere dal medesimo, fino al momento della propria morte.

In questa ottica, si ritiene che il testamento sia l’unica fonte negoziale idonea a disciplinare il fenomeno delle successioni mortis causa, tramite la disposizione delle sostanze ereditarie.

Ed invero, solo tale istituto consente di garantire quella intimità, sacralità, solennità e solitudine giuridica di cui il soggetto necessita nel momento in cui si confronta con la propria morte e decide sulla sorte delle proprie sostanze per il tempo in cui avrà cessato di vivere, dando rilevanza esclusiva alla propria volontà, senza conferire alcuna rilevanza ad affidamenti o aspettative di un’eventuale controparte.

Al contrario, i contratti, richiedendo, di necessità, un confronto con la controparte, ed il tenere in debita considerazione l’altrui affidamento e le altrui aspettative, non permettono di soddisfare le predette esigenze di intimità, sacralità, solennità e solitudine giuridica.

Taluni sostengono che siffatta ratio paternalistica sarebbe ormai anacronistica, in quanto ispirata ad una sorta di pietasnei confronti di chi fa i conti con la finitezza della propria esistenza, invocando la necessità del progressivo superamento del divieto del patto successorio, a livello giurisprudenziale e normativo.

Ebbene, se non è possibile porre in essere dei contratti mortis causa, le parti possono comunque stipulare dei contratti inter vivos con effetti post mortem.

Ciò si giustifica per il fatto che, nei contratti mortis causa, l’evento della morte costituisce la causa del contratto e con essi si intende distribuire il patrimonio nella consistenza che avrà dopo la morte, ossia al momento dell’apertura della successione.

Nei contratti inter vivos con effetti post mortem, invece, l’evento della morte non incide sul profilo causale, ma su quello effettuale, in quanto non entra a far parte della causa del contratto, ma costituisce la condizione o il termine da cui dipende la produzione degli effetti del contratto.

Tale tipologia di contratto è pacificamente ammessa nel nostro ordinamento, perché, con la stessa, il soggetto non intende regolare la vicenda successoria, ma disporre di un bene/diritto nella sua attuale consistenza, subordinando l’effetto traslativo al momento della sua morte.

In tal caso, dunque, l’effetto preparatorio e strumentale, ossia il trasferimento di una situazione giuridicamente tutelata (di un diritto in attesa di espansione), si produce immediatamente, mentre l’effetto finale, cioè l’acquisto del diritto nella sua pienezza, è differito al momento della morte.

Pertanto, il soggetto può disporre del diritto sottoposto a condizione, ma il medesimo verrà trasferito al terzo, a sua volta, sottoposto a condizione.

Inoltre, visto che il beneficiario è titolare di una situazione giuridicamente rilevante, seppur sottoposta a condizione, se il beneficiario dovesse premorire al disponente, allora, alla morte del disponente, il diritto verrà attribuito agli eredi del beneficiario premorto.

Ciò premesso, occorre comprendere come distinguere, nel caso concreto, il contratto mortis causa nullo e il contratto inter vivos con effetti post mortem, che, invece, è valido.

In tal senso, va evidenziato che il contratto mortis causa presenta sempre due caratteristiche.

Esso è necessariamente “de residuo”, nel senso che ha ad oggetto non già l’attuale consistenza del patrimonio al momento del compimento dell’atto, bensì il quod superest, da intendersi come ciò che ci sarà e residuerà nel patrimonio dopo la morte del de cuius.

Conseguentemente, fino all’apertura della successione, l’autore del negozio mortis causa non ha alcun vincolo e rimane libero di disporre del suo patrimonio (anche di svuotarlo e dissiparlo), atteso che il beneficiario è titolare di una mera aspettativa di fatto, e non vanta alcuna una situazione giuridica meritevole di tutela, neanche strumentale o provvisoria.

Il contratto mortis causa, poi, è necessariamente “si praemoriar”, in quanto, non attribuendo nulla al beneficiario del negozio mortis causa prima della apertura della successione, può produrre i propri effetti solo se l’autore-disponente premorirà al beneficiario.

Al contrario, se il beneficiario dovesse premorire al de cuius-autore, allora il negozio mortis causa perderà tutti i propri effetti, i quali non si produrranno in favore degli eredi del beneficiario premorto all’autore.

Questo perché, come detto, essendo il beneficiario titolare di una mera aspettativa di fatto, e non vantando alcuna situazione giuridica meritevole di tutela, non potrebbe trasmettere una posizione giuridicamente rilevante ai propri eredi.

Del resto, vi sono anche dei dati normativi che, indirettamente, confermano tale impostazione.

Si pensi al contratto a favore di terzi con prestazione da eseguirsi dopo la morte dello stipulante ex art. 1412 c.c.

Si tratta di un contratto inter vivos con effetto post mortem, in forza del quale lo stipulante si obbliga al pagamento di un prezzo, affinché, dopo la sua morte, il promittente esegua una prestazione in favore del terzo beneficiario, o dei suoi eredi, se quest’ultimo premuore allo stipulante.

Secondo una impostazione dottrinale, tale istituto rappresenterebbe una deroga al divieto di patti successori, risolvendosi in un contratto mortis causa, in quanto l’art. 458, co. 1, c.c. prevede che “se la prestazione deve essere fatta al terzo dopo la morte dello stipulante, questi può revocare il beneficio anche con una disposizione testamentaria”.

In senso contrario, tuttavia, si è osservato che l’art. 458, co. 2, c.c. è, invece, incompatibile con la natura mortis causa del contratto in esame, poiché statuisce che “la prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se questi premuore allo stipulante, purché il beneficio non sia stato revocato o lo stipulante non abbia disposto diversamente”.

Ciò non può che significare che il terzo-beneficiario ha già acquisito, inter vivos, una posizione giuridica soggettiva al proprio patrimonio-il diritto alla prestazione, seppur con effetti post mortem, ossia anche se la morte è condizione sospensiva degli effetti.

Ed infatti, se il terzo-beneficiario premorisse allo stipulante, comunque al momento della morte di quest’ultimo, il promittente dovrebbe eseguire la prestazione nei confronti degli eredi del terzo-beneficiario.

Questo prova ulteriormente che il beneficiario ha acquistato un diritto-situazione giuridica rilevante già inter vivos, seppur con effetti post mortem, ossia subordinati alla condizione sospensiva della morte dello stipulante, così che, se il beneficiario muore, la trasmette agli eredi, i quali, al momento della sua morte, avranno diritto alla prestazione, che deve essere eseguita dal promittente.

I patti successori dispositivi e rinunciativi

I patti successori dispositivi sono quelli con cui un soggetto dispone di diritti che gli potrebbero spettare, in base ad una successione non ancora aperta.

I patti successori rinunciativi sono, invece, quelli con cui un soggetto rinuncia a diritti che gli potrebbero spettare, in base ad una successione non ancora aperta.

A mente dell’art. 458 c.c., anche i patti successori dispositivi e rinunciativi, come quelli istitutivi, sono radicalmente nulli.

La ratio della nullità dei patti successori dispositivi o rinunciativi si ravvisa nel fatto che, in entrambi i casi, viene in rilievo un negozio su beni altrui o futuri, disponendo o rinunciando a diritti che potrebbero spettare in base ad una successione non ancora aperta.

Si pone, dunque, una deroga alla regola contrattuale della libera negoziabilità di diritti altrui o di diritti futuri.

Parte della dottrina ha sostenuto che, con tale divieto, si intenderebbe soddisfare l’esigenza etico-morale di evitare il desiderio corvino, ossia la speranza della morte altrui.

Ed invero, se il soggetto dispone o rinuncia a diritti che, tuttavia, acquisirà solo in conseguenza della morte altrui, potrebbe finire per sperare che quest’ultima si verifichi, posto che, in tal modo, costui acquisirà il diritto, e l’atto da lui compiuto, dispositivo o rinunciativo, potrà produrre i propri effetti.

Sul punto, però, si è obiettato che la predetta giustificazione sarebbe semplicistica, dal momento che, a ben vedere, esistono numerosi istituti che prevedono l’acquisizione di un diritto o l’attribuzione di un vantaggio in conseguenza della morte altrui.

Si pensi, ad esempio, alla rendita vitalizia, all’usufrutto, all’assicurazione sul terzo.

Siffatti istituti, che alla stregua dei patti successori dispositivi o rinunciativi, celano il rischio, eticamente e moralmente deplorevole, del desiderio corvino della speranza nell’altrui morte, sono tuttavia pacificamente ritenuti validi dall’ordinamento giuridico.

Conseguentemente, in tale ottica, il divieto di patti successori dispositivi e rinunziativi postulerebbe un quid pluris, ossia l’esigenza di impedire che si possa commercializzare, negoziare e speculare sulla morte altrui.

Considerato che il soggetto dispone o rinuncia a diritti che gli possono spettare solo in ragione della futura morte altrui, quest’ultima potrebbe divenire oggetto di commercializzazione, negoziazione, speculazione e mercimonio, con un profilo ulteriore e più grave rispetto al desiderio corvino.

Quindi, ad esempio, Tizio potrebbe vendere la casa di Caio, disponendo del diritto altrui tout court, come compravendita di cosa altrui. Costui, tuttavia, non potrebbe alienare la predetta casa, prevedendo che diverrà propria in conseguenza della morte di Caio, in quanto il negozio, seppur identico così concepito, renderebbe la morte oggetto di commercializzazione, negoziazione, mercimonio e speculazione, e ciò sarebbe particolarmente immorale e tale da giustificare la sanzione della nullità.

A ben vedere, anche questa è comunque una ratio di tipo etico-morale e, dunque, piuttosto debole, tanto che si è proposta una rivisitazione del divieto dei patti successori, con l’introduzione di talune deroghe ai medesimi.

Il patto di famiglia come deroga al divieto dei patti successori

Come anticipato, una deroga al divieto dei patti successori, secondo taluni, è costituita proprio dal patto di famiglia ex artt. 768-bis ss. c.c.

Si è osservato, più precisamente, che il patto di famiglia si risolverebbe in un patto successorio istitutivo.

Questa tesi, tuttavia, non può facilmente essere accolta, poiché il trasferimento dell’azienda/ramo/quote di partecipazione societaria e la liquidazione delle medesime avvengono con un contratto inter vivos con effetti inter vivos (neanche post mortem) e non con un contratto mortis causa.

L’azienda, il ramo d’azienda o le quote societarie di governance vengono immediatamente trasferite dal disponente al discendente prescelto, tant’è che alle volte si pone il problema di assicurare la continuità del potere decisionale all’originario imprenditore disponente, tra il momento del patto di famiglia e il momento della sua morte, ponendo in essere all’uopo dei patti parasociali o un trust che gli riservino tali poteri.

In questa ottica, si è sostenuto che a venire in rilievo sarebbe, invece, un patto successorio rinunciativo, eccezionalmente ammesso, in ragione della clausola di apertura dell’art. 458 c.c., che, nel dichiarare la nullità dei patti successori, fa espressamente salvo quanto previsto dagli artt. 768-bis ss. c.c.

A fondamento dell’assunto si osserva che i legittimari-non assegnatari, ricevendo la liquidazione della quota a tacitazione delle proprie pretese, rinunciano a diritti che potrebbero spettare in base ad una successione non ancora aperta, ossia a fare valere la propria quota di legittima, e, dunque, ad esperire l’azione di riduzione e la collazione.

In senso contrario, si è, però, osservato che, nella specie, non si potrebbe neppure parlare di patto successorio rinunciativo, atteso che i legittimari-non assegnatari, anche se non volessero rinunciare a tali diritti, ottenendo la liquidazione della quota, li perderebbero comunque.

Ed infatti, non è possibile riconoscere in favore dei legittimari-non assegnatari un potere di veto, cioè di dichiarare di non essere d’accordo con il patto di famiglia, impedendo al medesimo di dispiegare i propri effetti, giacché altrimenti l’istituto in esame diverrebbe poco efficace, fortemente instabile e di rarissima applicazione.

Al medesimo, infatti, non si potrebbe fare ricorso ogni qualvolta il legittimario-non assegnatario dichiari di non volere rinunciare alla legittima, alla riduzione ed alla collazione, a fronte della liquidazione della quota, il che accade frequentemente.

Conseguentemente, se l’assegnatario provvede alla liquidazione della quota, i legittimari non assegnatari ottengono la somma compensativa e perdono automaticamente il diritto ad ottenere la quota di legittima e a esperire l’azione di riduzione e la collazione.

Ecco che allora a venire in rilievo sarebbe, più precisamente, una vicenda bilaterale tra imprenditore-disponente e legittimari-assegnatari, che eccezionalmente potrebbe operare in danno dei terzi legittimati non assegnatari, sottraendo loro dei diritti (quota di legittima, riduzione e collazione), anche a prescindere dal loro consenso.

D’altronde, si ricordi che l’art. 768-sexies c.c. stabilisce che, al momento dell’apertura della successione, i legittimari non assegnatari, che non hanno partecipato al patto di famiglia, sono comunque esposti agli effetti del patto.

Costoro, pertanto, perdono il diritto alla quota di legittima, all’azione di riduzione ed alla collazione, e possono solamente chiedere la liquidazione della quota, aumentata degli interessi legali.

Quindi, sembrerebbe esserci un elemento di apparente contraddizione, poiché, da un lato, l’art. 768-quater c.c. prevede che i legittimari non assegnatari devono partecipare al patto di famiglia, dall’altro lato, l’art. 768-sexies c.c. dispone che, anche se non sono chiamati a partecipare, il patto di famiglia è fatto salvo, non potendo essi minarne la stabilità con un’opposizione.

Questo confermerebbe, ancora una volta, che i legittimari non assegnatari hanno diritto solamente alla liquidazione della quota, non potendo opporsi al patto di famiglia, che, pertanto, ha struttura solamente bilaterale, e non trilaterale.

La tesi consensualistica, però, opina diversamente, osservando che l’art. 768-quater c.c. è univoco nell’affermare che tutti i legittimari “devono” partecipare al patto di famiglia, con la conseguenza che sarebbe contraddittorio sostenere che, per un verso, essi hanno l’obbligo di partecipare, ma, per un altro, anche se non lo facessero, non vi sarebbe mai alcuna conseguenza.

Ed allora, l’art. 768-sexies c.c. deve essere interpretato nel senso che il medesimo, nel contemplare i legittimari che non hanno partecipato al patto, si riferirebbe ai soli “legittimari sopravvenuti”, ossia quei soggetti che, al momento del patto di famiglia, non erano legittimari e che lo sono diventati solo successivamente (come ad esempio il nuovo coniuge).

In questo caso, infatti, l’istituto è stato posto in essere coinvolgendo correttamente tutti i soggetti che, all’epoca, erano legittimari, e la circostanza che ne sopravvengono degli altri non può travolgere quel patto che, al momento in cui era stato stipulato, aveva rispettato tutte le regole.

L’art. 768-sexies c.c. non può, però, applicarsi ai legittimari che già erano presenti al momento del patto e non sono stati coinvolti, in violazione dell’art. 768-quater c.c.

In tal caso, il patto di famiglia non può spiegare i propri effetti, poiché sarebbe colpito da un difetto strutturale.

Tale tesi consensualistica risulta perfettamente coerente con la qualificazione del patto di famiglia in termini di patto successorio rinunciativo.

La stessa, peraltro, spiega la ragione per la quale l’art. 458 c.c., nel prevedere la nullità dei patti successori, ne fa salva la validità proprio con riferimento a quanto previsto dagli artt. 768-bis ss. c.c., ossia dal patto di famiglia.

La volontà e la partecipazione dei legittimari non assegnatari rileva, atteso che costoro “devono” partecipare al patto ex art. 768-quater c.c. e, coerentemente e scongiurandosi ogni contraddizione, l’unica ipotesi in cui si può prescindere dalla loro partecipazione è quella in cui essi siano “sopravvenuti”, ossia venuti in rilievo solo dopo la conclusione del patto, come ad esempio il nuovo coniuge.

 Il patto di famiglia e il contratto a favore di terzo

 Vi è, poi, chi ha sostenuto che il patto di famiglia fosse riferibile al contratto a favore del terzo, nel cui contesto lo stipulante sarebbe l’imprenditore-disponente, il promittente sarebbe l’assegnatario dell’azienda/ramo d’azienda/quote societarie, il terzo beneficiario sarebbe il legittimario non assegnatario.

Questa ricostruzione, però, non è del tutto convincente, dal momento che non rispecchia appieno la sostanza del fenomeno.

Ed infatti, nel contratto a favore di terzo, di solito, il promittente è lo strumento con cui si arricchisce il terzo.

Nel patto di famiglia, invece, colui che trae davvero beneficio non è il terzo-legittimario non assegnatario, ma il promittente-discendente assegnatario.

L’aspetto più importante dell’operazione in esame, invero, non è l’attribuzione della somma di denaro a favore del terzo, ma l’assegnazione dell’azienda al beneficiario.

Conseguentemente, ritenere il beneficiario come un mero promittente significherebbe non prendere in considerazione un aspetto centrale del fenomeno in esame.

Peraltro, ciò che il promittente fa in favore del terzo è una compensazione che gli impone la legge.

A ciò si aggiunga che la prestazione che il promittente esegue in favore del terzo non è volontaria, ma rappresenta una compensazione che gli è imposta dalla legge.

Il patto di famiglia e la divisione anticipata.

Per un’ulteriore impostazione, il patto di famiglia sarebbe una divisione anticipata che opera un “apporzionamento”, in quanto crea delle porzioni, rappresentate, rispettivamente, dalla azienda/ramo d’azienda/quote di partecipazione societaria, in favore dei discendenti assegnatari, e dalla liquidazione della quota, in chiave compensativa, in favore dei legittimati non assegnatari.

Ebbene, si era obiettato che la divisione presupporrebbe l’insorgere di una comunione che, nella specie, non sarebbe presente.

A tale critica, tuttavia, la tesi in esame replica, affermando che, in realtà, l’essenza della divisione non sarebbe rappresentata dalla comunione, bensì dall’apporzionamento.

Tant’è vero che la stessa divisione testamentaria eseguita dal de cuius non scioglie la comunione, ma, al contrario, la previene, impedendo la sua formazione.

Ciò dimostra che vi può essere divisione senza comunione-scioglimento della comunione, a condizione che sia però presente l’apporzionamento.

Sia l’apporzionamento che il profilo distributivo, tra l’altro, sono presenti nel patto di famiglia, la cui disciplina, non a caso, è posta sistematicamente accanto a quella della divisione.

Il patto di famiglia e la donazione modale

Una più recente impostazione dottrinale, infine, ha messo in rilievo la circostanza che solo formalmente le compensazioni sarebbero fatte dall’assegnatario, il quale, nella sostanza, si ritroverebbe ad essere un mero strumento utilizzato dall’imprenditore per dare delle elargizioni di denaro agli altri eredi.

Questo si ricaverebbe dal fatto che la legge prevede espressamente che tutto ciò che viene assegnato a seguito di patto di famiglia non sarà oggetto di azione di riduzione e di collazione.

Se, infatti, è comprensibile che non si possa procedere con l’azione di riduzione e la collazione con riguardo all’azienda – che certamente è oggetto di una liberalità –, risulta più problematico affermare ciò con riferimento alle somme che i non assegnatari ricevono non già dall’imprenditore, ma dal discendente.

Ed allora, è evidente che la legge fa tale specificazione proprio perché siffatte somme, sebbene i non assegnatari formalmente le ricevano dall’assegnatario, sostanzialmente fanno capo al de cuius, e pertanto costituiscono delle liberalità.

In altri termini, è l’imprenditore a realizzare delle liberalità nei confronti dei non assegnatari, indirettamente, tramite l’assegnatario dell’azienda.

Ecco che, in tale ottica, il patto di famiglia sarebbe una donazione modale.

Del resto, si osserva che il trasferimento dell’azienda verrebbe fatto per spirito di liberalità, e non già per un interesse economico.

L’imprenditore, infatti, intende preservare la continuità aziendale, non per ragioni prettamente economiche, ma perché, tenendo moralmente alla stessa, si auspica che l’attività possa continuare nel migliore modo possibile, nelle mani dell’erede che è ritenuto il più bravo a portarla avanti.

La compensazione-liquidazione della quota, poi, sarebbe una sorta di modus, ossia di onere per l’assegnatario, perché limita il valore della sua attribuzione e funge da mezzo per realizzare indirettamente una liberalità a favore dei non assegnatari.

L’unica differenza è che il modus, che normalmente è una clausola contrattuale, in tal caso, invece, sarebbe legale, trattandosi di un onere imposto dalla legge.

In definitiva, verrebbe in rilievo una donazione modale ex lege, dove l’imprenditore-donante esegue la liberalità diretta dell’azienda/ramo d’azienda/quote di partecipazione societaria necessarie a garantire la governance, in favore degli eredi discendenti assegnatari-donatari, con l’onere legale, posto in capo a costoro, di liquidare la quota in favore dei legittimari non assegnatari.

Questa ricostruzione prevale ormai anche nella giurisprudenza di legittimità, soprattutto a fini tributari.

La Corte di Cassazione, ponendosi il problema di come tassare siffatte donazioni, con un orientamento che si sta consolidando sempre più, ed una ricostruzione molto attenta ai profili civili, ha affermato che il patto di famiglia è una donazione modale, e che le compensazioni sono liberalità che fanno capo all’imprenditore, e vanno trattate come se ci fossero più liberalità (queste ultime realizzate attraverso modus).

La questione relativa all’ammissibilità del patto di famiglia verticale.

La qualificazione in termini di donazione modale dell’istituto in esame è interessante, giacché apre la strada all’ammissibilità del patto di famiglia verticale.

L’ipotesi è quella in cui l’imprenditore-disponente, da un lato, assegna l’azienda/il ramo d’azienda/le quote di partecipazione societaria ai discendenti assegnatari, e, dall’altro, elargisce direttamente le somme di denaro (liquidazione della quota) ai legittimari non assegnatari, senza passare per il tramite degli assegnatari.

Tale contratto, secondo taluni, non sarebbe ammissibile, dal momento che la legge è piuttosto chiara nel porre in capo ai discendenti assegnatari l’obbligo di compensare le quote dei legittimari non assegnatari.

Talaltri, invece, ritengono che, qualificando il patto di famiglia come una donazione modale, siffatto contratto sarebbe ammissibile.

Ed infatti, se la liquidazione della quota ai legittimari non assegnatari posto in capo ai discendenti assegnatari si reputa un modus per realizzare una liberalità indiretta con una struttura orizzontale, allora è chiaro che è anche possibile che l’imprenditore disponente-donante, con una struttura verticale, possa direttamente operare la liberalità diretta, sia nei confronti dei discendenti assegnatari, attribuendogli l’azienda/ il ramo d’azienda/ le quote di partecipazione societaria, sia nei confronti dei legittimari non assegnatari, procedendo egli stesso direttamente alla liquidazione della quota.

È vero che la legge pone questo obbligo a carico dell’assegnatario, ma nulla vieta che l’imprenditore possa accollarsi il medesimo.

Diversamente opinando, si correrebbe il rischio di ostacolare l’operatività dell’istituto, posto che l’assegnatario potrebbe anche non avere le disponibilità economiche per liquidare i non assegnatari, soprattutto se l’azienda presenta un valore molto elevato.

Ne deriva che è concepibile procedere con un patto di famiglia con struttura verticale, in cui è lo stesso imprenditore-disponente ad operare i trasferimenti verticali e a farsi carico, con due donazioni dirette, sia del trasferimento dell’azienda, del ramo d’azienda o delle quote di partecipazione societaria in favore dei discendenti-assegnatari, sia della liquidazione della quota in favore dei legittimari non assegnatari, a tacitazione delle loro pretese.

La stessa giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato che non rileva che la liquidazione compensativa sia effettuata dal beneficiario, in quanto la medesima si riconduce comunque ad una donazione posta in essere dal disponente, tant’è vero che si applicano l’aliquota e la franchigia previste con riferimento al rapporto di parentela che intercorre non tra i collaterali, ma tra il disponente e i discendenti.

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