I beni non compresi nella liquidazione giudiziale (art. 146 nuovo Codice Crisi Impresa e Insolvenza)

in Giuricivile, 2023, 9 (ISSN 2532-201X)

La legge n. 155/2017 ha rilasciato la delega al governo per una riforma complessiva delle procedure concorsuali e in attuazione della delega è stato emanato il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza con D.lgs. n. 14 del 2019 che riunisce in un unico testo normativo le discipline delle procedure concorsuali prima regolate dalla legge fallimentare n. 267 del 1942. Con l’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, il nuovo sistema delle procedure concorsuali, menziona la liquidazione giudiziale quale procedura concorsuale riservata agli imprenditori commerciali che superano determinate soglie dimensionali (imprenditore non minore) e versano in stato di insolvenza[1].

“Liquidazione giudiziale” è il nuovo nome dato dal Codice della crisi di insolvenza alla procedura di fallimento e, pertanto, è espressamente previsto che tutte le disposizioni di legge che contengono l’espressione fallimento e fallito devono intendersi riferite alla procedura di liquidazione giudiziale e al debitore che vi è sottoposto[2]. Nella sistematica del Codice della crisi, la liquidazione giudiziale è considerata come extrema ratio, come si desume dall’art. 7 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ove si stabilisce che tutte le domande presentate  dall’imprenditore, o contro di lui, per l’apertura di una procedura concorsuale devono essere trattate in un unico procedimento, ma il tribunale esamina in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale.

Il nuovo Codice n.14/2019 fissa i presupposti per l’apertura della liquidazione giudiziale sono:

  • a) la qualità di imprenditore commerciale del debitore;
  • b) lo stato di insolvenza dello stesso;
  • c) il superamento di almeno uno dei limiti dimensionali fissati dall’articolo 2, co. 1 lett. d, CCI;
  • d) la presenza di inadempimenti complessivamente superiori all’importo fissato dalla legge.

Al riguardo, è l’art. 295 del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza che determina i presupposti soggettivi e l’ambito di applicazione della liquidazione giudiziale, mentre è presupposto oggettivo della stessa lo stato di insolvenza dell’imprenditore. Dunque, l’imprenditore versando in stato di insolvenza, non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, essendo quest’ultima una situazione patologica e irreversibile che coinvolge l’intero patrimonio dell’imprenditore non consentendogli di soddisfare le obbligazioni assunte. La dottrina ha distinto lo stato di insolvenza dall’inadempimento. La prima si manifesta con l’inadempimento di uno o più obbligazioni o anche indipendentemente dagli inadempimenti ed è una situazione del patrimonio del debitore; il secondo, l’inadempimento, rileva come uno dei possibili indici dello stato di insolvenza e l’imprenditore può essere inadempiente senza essere insolvente[3].

Dall’art. 46 del D.lgs. n. 5/2006 all’art. 146 del nuovo CCI.

Il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza n. 14/2019 ha modificato l’art. 46 del precedente D.lgs. n. 5/2006, rubricato beni non compresi nel fallimento, sostituendo la locuzione fallimento con l’espressione liquidazione giudiziale, ed il riferimento all’imprenditore fallito con il termine debitore. Già con la novella del D.lgs. n. 5/2006, il legislatore aveva attuato una inversione di marcia nell’interpretazione della disposizione normativa di cui all’art. 46 D.lgs. n. 5/2006, ed attualmente, art. 146 D.lgs. n. 14/2019. Il legislatore del 2006 aveva già ritenuto di dover sacrificare le ragioni dei creditori alla luce dell’esigenza di tutelare valori considerati dall’ordinamento di rango superiore[4].

In effetti, nonostante la legge fallimentare si ispirava alla tutela primaria delle esigenze della produzione dello scambio, con protezione dei rapporti economici degli interessi del ceto creditorio, la tutela del credito non costituiva un valore assoluto[5]. Il nuovo art. 146 del Codice della crisi e dell’insolvenza del 2019, sostituisce il precedente art. 46 del D. lgs. N. 5/2006, ed esclude dalla liquidazione giudiziale i beni indicati alla lett. a), dell’articolo in commento. Le ragioni di tale esclusione sono da ricercarsi, più che in un generico favor verso l’imprenditore-debitore, il quale, attraverso la conservazione di un patrimonio minimo, vede garantita la possibilità di una ripartenza, nella volontà del legislatore di attribuire concreta rilevanza all’interesse familiare sotto l’influsso della concezione pubblicistica del diritto di famiglia dominante nel nostro ordinamento al tempo in cui fu emanata la legge fallimentare n. 267 del 1942, che ravvisava nella famiglia la cellula primaria e fondamentale dello Stato, postulando la necessità di renderla oggetto di una tutela, addirittura, entro la sfera del diritto pubblico[6].

Infatti, la famiglia doveva ritenersi alla base dello Stato ed entrambi dalle istituzioni costituivano organismi etici aventi ragione in un interesse superiore agli interessi individuali e quindi postulanti l’assoggettamento degli individui a tale interesse superiore[7]. Di fatto, ritornando all’idea che la famiglia è cellula del corpo sociale, monade, nucleo irriducibile, pietra angolare della società è quella di un nesso fra società domestica e società politica, fra famiglia è stato nesso che viene indicato come genetico, in quanto, l’attuale organizzazione della società avrebbe come punto di partenza, come elemento primo costitutivo, la famiglia[8]. Così come l’art. 46 del D.lgs. n. 5/2006, l’attuale art. 146 del nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza impone un collegamento con gli artt. 170,188 e 326 c.c., al fine di salvaguardare la famiglia. Tale collegamento appare necessario per risolvere un conflitto tra due interessi quello della famiglia a poter destinare i frutti dei beni di proprietà dei suoi componenti alle esigenze della comunità e, quello opposto, dei creditori ad apprendere tali frutti per la realizzazione delle proprie pretese. In tale solco di interessi, il legislatore ha privilegiato il primo, consentendo l’esecuzione solo ai titolari di crediti concessi per soddisfare i bisogni della famiglia, sacrificando i crediti assunti dall’imprenditore debitore nella gestione dell’impresa che, per definizione, non attengono ai bisogni della famiglia. Al contempo, attraverso siffatto meccanismo, si promuove lo sviluppo della famiglia e la realizzazione delle esigenze dei suoi componenti, dando impulso, seppur indirettamente, all’esercizio del credito in favore di tale comunità, favorito dalla riserva esclusiva dei beni indicati dall’attuale art. 146 D.lgs. n. 14/2019, lett. c) e d), ed alla sua garanzia[9].

La chiave ermeneutica dei beni “strettamente personali” esclusi dalla procedura di liquidazione giudiziale.

Il nuovo art. 146, lett. a), stabilisce che sono esclusi dalla procedura di liquidazione giudiziale i beni e i diritti di natura strettamente personale che vengono individuati dalla dottrina e della giurisprudenza alla luce dell’art. 2 Cost., inserendovi i beni della vita sempre più numerosi e di ingente valore economico. Ritenendo che rientrino in tale categoria i beni diritti che attengono alla sfera della persona, sia sotto il profilo dell’integrità fisica dell’individuo, sia nell’ottica di tutela dei suoi valori umani essenziali[10]. Si è posto così l’accento sull’avverbio <<strettamente>>, e che l’art. 146 lett. a), faccia riferimento anche ai diritti attribuiti dall’ordinamento in considerazione primaria della protezione della persona e non solamente sanciti anche in vista di siffatta tutela[11]. Sono, quindi, ritenuti esclusi dalla procedura di liquidazione giudiziale, in base alla disposizione in commento, i diritti e le azioni non avente contenuto patrimoniale, quale le azioni di separazione personale e di scioglimento del matrimonio, così come le azioni di disconoscimento e di reclamo della paternità[12].

Del pari, pacificamente, vengono inclusi tra i diritti aventi contenuto non patrimoniale sottoposti alla disciplina dell’art. 146 lett. a), i diritti della personalità, quali il diritto all’onore, al nome, alla reputazione, alla riservatezza, all’immagine[13], sebbene alcuni degli stessi siano suscettibili di sfruttamento economico, attraverso il consenso prestato dal loro titolare. Inoltre, si è posto il problema se il carattere strettamente personale dei diritti della personalità si comunichino al risarcimento dei danni conseguenti alla loro violazione. La dottrina più attenta, considerando la varietà di situazioni cui può dar luogo la lesione di numerosi diritti non avente contenuto patrimoniale, dal diritto all’integrità fisica a quello all’onore, pone l’accento sulla diversità delle conseguenze della loro violazione nelle singole fattispecie concrete, potendo essere riguardare la persona ma anche il suo patrimonio e, in quest’ultima ipotesi, tutelata dalla normativa sul risarcimento, non è la persona bensì il patrimonio[14]. In ragione di ciò, quando il risarcimento sia finalizzato a reintegrare il diritto primario leso esso spetterà al debitore, (prima del nuovo CCI, al fallito), sottoposto alla procedura di liquidazione giudiziale. Ove, invece, sia diretto a compensare il mancato guadagno da perdita di un affare, esso verrà acquisito, e dunque, non escluso dalla procedura di liquidazione giudiziale[15].

In applicazione di tale criterio, l’art. 146 lett. a), è stato ritenuto applicabile alle somme spettanti al debitore sottoposto alla procedura di liquidazione giudiziale a titolo di risarcimento del danno biologico il danno morale e non invece a quelle riconosciute al medesimo soggetto a titolo di danno patrimoniale in senso stretto per perdita totale o parziale di capacità lavorative e di guadagno[16]. In quest’ultima ipotesi, operando l’art. 146 lett. b), del nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, si è ritenuto che la capacità lavorativa venga normalmente utilizzata dal debitore soggetto alla procedura di liquidazione giudiziale per trarre i mezzi necessari per il sostentamento proprio e della sua famiglia[17], con la conseguenza, che viene comunque escluso dalla liquidazione giudiziale quanto necessario al mantenimento del debitore e della sua famiglia. In applicazione del medesimo criterio, si ritengono poi escluse dalla procedura di liquidazione giudiziale le somme percepite dal debitore, ad essa assoggettato, a titolo di risarcimento in base alla legge c.d. Pinto sulla ragionevole durata del processo e quelle di liquidazione a titolo di danno non patrimoniale[18].

Dottrina autorevole ha ritenuto strettamente personali e quindi esclusi dalla procedura di liquidazione giudiziale il diritto di revoca delle donazioni per ingratitudine o per sopravvenienza di figli, trattandosi di un potere attribuito dalla legge a tutela dei figli che non può essere esercitato a tutela dei creditori, è quello di chiedere la risoluzione della donazione per inadempimento del modus[19], in quanto anche il diritto di accettare o di rinunziare all’eredità o la donazione sono stati ritenuti di natura strettamente personale e quindi rientranti nel novero del nuovo art. 146 lett. a), del nuovo Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza[20].

Gli emolumenti esclusi dalla liquidazione giudiziale.

Nel solco di tutele delineato, si escludono dalla liquidazione giudiziale gli emolumenti indicati dall’attuale art. 146 lett. b), entro i limiti necessari al mantenimento dell’imprenditore e della sua famiglia. La disposizione in esame accentua ancora di più, rispetto all’art. 46 del D.lgs. n. 5/2006, la tutela dell’interesse familiare recependo un’interpretazione evolutiva del sistema resa possibile anche dalla giurisprudenza nell’acquisita consapevolezza, che in caso di conflitto tra la legge di riforma del diritto di famiglia e quella della crisi di impresa e dell’insolvenza, entro limiti ragionevoli, prevale la prima, sul presupposto che la tutela dell’interesse familiare, riguardando valori fondamentali della persona, sia preminente rispetto alla protezione dei diritti dei creditori dell’impresa, di natura strettamente e puramente patrimoniale. Già in precedenza, si precisava che la legge fallimentare non poteva porsi in contrasto con il sistema costituzionale delineato dagli artt. 31 Cost. (che impone di agevolare la formazione della famiglia), dall’art. 29 Cost. (che fonda l’istituto del matrimonio), e dall’art. 3 Cost., che rafforza l’esigenza di tutela della famiglia, con l’implicito divieto di far l’oggetto di misure di sfavore dovendo essere interpretata coordinatamente con i principi generali sui rapporti patrimoniali fra i coniugi sui quali interferisce, ritenuti valori prevalenti, in quanto attuativi di valori costituzionali[21].

Inoltre, la Corte costituzionale con sentenza 286/1995 aveva affermato che le norme della legge fallimentare e quelle introdotte dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 avevano pari rango, con la fondamentale precisazione, che nel processo ermeneutico occorre considerare i principi costituzionali sulla libertà dei coniugi e sulle esigenze di quel nucleo familiare che la Costituzione ha voluto chiaramente privilegiare[22]. In virtù di ciò, nel nostro ordinamento, quando l’interesse della famiglia entra in conflitto con quello dei creditori, il primo tendenzialmente risulta prevalente, giacché la riforma del diritto di famiglia del 1975 ha esaltato la solidarietà familiare e la tutela patrimoniale dei membri della famiglia anche nei rapporti con i terzi[23].

Infatti, l’interesse di natura meramente patrimoniale dei creditori risulta cedevole di fronte alla necessità di garantire i diritti fondamentali della persona e, quindi, in particolare, quando si ponga l’esigenza di tutelare anche il piano economico dei componenti più deboli della comunità familiare, al fine di promuovere il pieno e libero sviluppo della persona rientrante nell’alveo dell’art. 2 Cost. L’art. 146 lett. b) esclude dalla liquidazione giudiziale gli assegni che hanno carattere alimentare, gli stipendi, pensioni, salari e ciò che il debitore guadagna con la sua attività, entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della sua famiglia. Tale esclusione è giustificata dal fatto che il diritto al mantenimento previsto in favore di tali soggetti rappresenta l’aspetto patrimoniale dell’obbligo di protezione e di cura della loro persona garantito dagli artt. 2 e 29 Cost[24].

In ragione di ciò, la giurisprudenza ha ritenuto il diritto al mantenimento avente natura di diritto fondamentale ed assoluto, non aggredibile da parte di soggetti estranei al rapporto coniugale, gli assegni previsti dagli artt. 156 c.c., in favore del coniuge più debole, così come quello di mantenimento per i figli, hanno un carattere assistenziale e dunque ritenuti indisponibili dalle parti, impignorabili ed insequestrabili dai terzi nella loro interezza[25]. In considerazione della preminente tutela dell’interesse familiare si spiega il riconoscimento della possibilità per i coniugi e per i terzi di costituire ex art. 167 c.c., un fondo patrimoniale ossia un patrimonio separato destinato a far fronte ai bisogni della famiglia non aggredibile per i debiti contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia ex art. 170 c.c., tra i quali, rientrano, innanzitutto, quelle assunti nell’esercizio dell’impresa[26]. Difatti, si tratta di una limitazione della garanzia patrimoniale in deroga al principio generale sancito dall’art. 2740 c.c., concessa per il chiaro scopo di facilitare ai coniugi l’accesso al credito per la realizzazione delle esigenze familiari. La dottrina precisato che il concetto di mantenimento richiamato alla lett. b) dell’art. 146, coincida con quello di alimenti ex art. 433 e s.s. c.c., con la conseguenza che è necessario presupposto, del provvedimento di esclusione dalla liquidazione giudiziale di una quota dell’emolumento percepito dall’imprenditore-debitore, sarebbe l’accertamento dello stato di bisogno suo e della sua famiglia, inteso quale mancanza dei mezzi di sussistenza[27].

Sia l’obbligo di mantenimento, sia quello alimentare discendono, da un medesimo concetto di solidarietà familiare e sociale, che costituisce espressione dell’obiettivo primario perseguito dall’ordinamento: il pieno e libero sviluppo della persona umana ex art. 2 Cost[28]. Di contro, è controversa la sorte del credito di mantenimento vantato nei confronti del debitore sottoposto a liquidazione giudiziale dal coniuge separato o dall’ex coniuge divorziato. Parte della giurisprudenza risalente ha ritenuto che, laddove, questi ultimi due soggetti siano titolari rispettivamente di un assegno di mantenimento o di un assegno divorzile dal momento dell’apertura della procedura di liquidazione giudiziale non possono pretendere l’adempimento del credito loro spettante, neppure insinuandosi al passivo per le per le rate maturate nel corso della procedura, infatti, costituendo, tali rate prestazioni autonome sorte dopo la dichiarazione di apertura della procedura di liquidazione giudiziale, le stesse rimangono estranee per definizione alla massa passiva[29].

Dall’altro, presupponendo l’apertura di liquidazione giudiziale lo stato di insolvenza del debitore, lo stesso non è più in grado di corrispondere l’assegno di mantenimento dovuto al coniuge separato o all’ex coniuge. Il dissesto dell’obbligato sarebbe opponibile al coniuge istante direttamente dal giudice delegato che esercita in tal modo nell’esercizio della massa, la facoltà spettante al debitore di eccepire il mutamento della propria condizione economica, pretendendo, in modifica dei provvedimenti regolanti la separazione o il divorzio, la riduzione o la revoca dell’assegno. In verità, le rate di assegno, che maturano dopo la dichiarazione di apertura della procedura di liquidazione giudiziale, trovano titolo nei provvedimenti emessi in sede di separazione o di divorzio e il mero mutamento di fatto delle condizioni economiche del soggetto tenuto a corrispondere l’assegno, non determina automaticamente l’estinzione dell’obbligazione, potendosi conseguire tale risultato soltanto attraverso la modifica dei predetti provvedimenti nelle forme previste dagli articoli 710 e s.s. c.p.c.

Pertanto, l’obbligazione di mantenimento non viene meno, se non dopo che, il curatore abbia vittoriosamente chiesto al tribunale concorsuale che venga accertata la sopravvenuta impossibilità per l’imprenditore- debitore di far fronte alle obbligazioni nascenti dalla pronuncia divorzio. Dunque, appare condivisibile, l’orientamento giurisprudenziale che afferma come gli assegni che maturano dopo la dichiarazione l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale non entrano nella massa passiva. Il coniuge separato o l’ex coniuge, per il soddisfacimento dei loro crediti, possono aggredire i beni e i diritti personali del debitore sottoposto alla procedura di liquidazione giudiziale, ma esclusi dalla medesima procedura ai sensi dell’art. 146 del nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza. Ove tali beni non esistano o non siano sufficienti, tali soggetti sono legittimati a richiedere lo speciale sussidio previsto dal nuovo art. 147 del codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza rubricato alimenti al debitore e alla famiglia.

Il nuovo art. 146 lett. c), stabilisce che sono esclusi dalla liquidazione giudiziale i frutti derivanti dal l’usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di esso, salvo quanto è disposto dall’art. 170 c.c. Alla luce di un orientamento della Corte di Cassazione si escludono dalla liquidazione giudiziale non soltanto i frutti ma anche i beni costituiti in fondo in fondo patrimoniale che li producono in modo da riservarli alle necessità della famiglia, in funzione delle quali i beni stessi erano stati costituiti in patrimonio separato e che tali beni non possono essere distolti dalla loro destinazione. La Corte ha chiarito che, anche in presenza di una non opportuna coordinazione tra l’art. 146 e l’istituto del fondo patrimoniale, sarebbe scorretta l’operazione ermeneutica che dalla contemplazione di una disciplina dell’oggetto della liquidazione giudiziale che ne escluda i redditi dei beni costituiti in fondo patrimoniale familiare, volesse trarre l’intenzione che il legislatore ubi voluit dixit et ubi noluit tacuit, per ritenere circoscritta l’esclusione del concorso ai frutti già prodotti dei beni e non anche i beni stessi che sono destinati a produrre quei frutti che non si intendono sottrarre alla loro destinazione a far fronte ai bisogni della famiglia[30].

Del resto, la sottoposizione alla procedura di liquidazione giudiziale di uno dei coniugi non integra una causa di cessazione del fondo patrimoniale perché la situazione di impotenza patrimoniale non transitoria, derivante dall’apertura della procedura, rende ancora più pregnante la funzione dell’istituto, che deve essere individuata nella destinazione esclusiva dei beni alla soddisfazione dei bisogni della famiglia in una prospettiva solidaristica attraverso il vincolo su di essi apposto[31]. In virtù di siffatto vincolo, i beni non si trovano più nella disponibilità dell’imprenditore sottoposto alla procedura di liquidazione giudiziale, e quindi, dei suoi creditori servendo, invece, alle necessità del nucleo familiare. Parte della dottrina ha ritenuto che l’esclusione dalla liquidazione giudiziale dei beni costituiti in fondo patrimoniale pur appartenendo al debitore, che è assoggetto alla stessa, rappresentano un patrimonio separato destinato a soddisfacimento di specifici scopi che prevalgono sulla funzione di garanzia per la generalità dei creditori[32].

Prendendo in considerazione poi l’ulteriore ipotesi prevista dall’art. 146 lett. c), significativa è l’eliminazione operata dalla recente riforma del riferimento all’assoluta esclusione dalla liquidazione giudiziale dei frutti derivanti dall’usufrutto legale spettante ai genitori sui beni dei figli minori. Si tratta di una scelta operata dal legislatore in favore della famiglia a scapito dei creditori nell’ottica della prevalenza dell’interesse familiare in ipotesi di conflitto[33]. Già una pronuncia risalente della Corte di Cassazione riteneva che, laddove, venisse dichiarato fallito, ed attualmente sottoposto a liquidazione giudiziale, il minore subentrava iure hereditatis nella titolarità di una partecipazione ad una società di persone, l’acquisizione all’attuale procedura di liquidazione giudiziale dei beni di sua proprietà determina anche l’estinzione dell’usufrutto legale su di essi spettante al genitore superstite[34].

Tuttavia, l’assoggettamento del minore alla procedura giudiziale di liquidazione, del pari alla dichiarazione di fallimento del minore, presuppone che lo stesso ai sensi dell’art. 320 co. 5 c.c., sia stato autorizzato alla continuazione dell’impresa commerciale[35] ovvero a subentrare nella posizione di socio di società di persone ex art. 2294 c.c., e che abbia accettato l’eredità con beneficio di inventario tramite il suo rappresentante legale ex art. 471 c. c. Con riferimento alla seconda condizione, la giurisprudenza ha chiarito che, ove l’inventario non venga formato, verificandosi la decadenza del beneficio di inventario, solo dopo un anno dal compimento della maggiore età, l’accettazione dell’eredità effettuata dal rappresentante legale non è idonea a far acquistare al minore la qualità di erede beneficiato né la qualità di erede puro e semplice. Pertanto, il minore rimane nella condizione di chiamato all’eredità e non può essere sottoposto alla procedura di liquidazione giudiziale[36].

Infine, l’art. 146 lett. d), esclude dalla liquidazione giudiziale le cose e dunque beni che non possono essere pignorate per disposizioni di legge. L’opinione prevalente ritiene che la norma si riferisca soltanto ai beni assolutamente impignorabili indicati nell’art. 514 c.p.c., e non già a quelli relativamente impignorabili individuati dagli artt. 515 e 516 c.p.c[37].

Gli organi del giudice delegato, del curatore e del comitato dei creditori nella procedura di liquidazione giudiziale ed il loro ruolo nell’assetto normativo dell’art. 146 ult. comma CCI.

L’ultimo comma dell’art. 146 nel nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza precisa che i limiti previsti al primo comma del medesimo articolo lett. b), sono fissati con decreto motivato del giudice delegato, sentiti il curatore ed il comitato dei creditori, tenuto conto della condizione personale del debitore e di quella della sua famiglia. Appare necessario precisare che la procedura della liquidazione giudiziale comporta lo svolgimento di una complessa attività giudiziaria ed amministrativa rivolta all’accertamento, la ricostruzione, alla liquidazione del patrimonio del debitore e alla ripartizione del ricavato tra i creditori allo svolgimento, ed a questa attività sono preposti quattro organi ciascuno dei quali investito di proprie specifiche funzioni: il tribunale concorsuale, il giudice delegato, il curatore ed il comitato dei creditori. Una volta dichiarata aperta la liquidazione giudiziale su ricorso presentato da uno o più creditori, dal debitore o dal pubblico ministero, il tribunale concorsuale procede a nominare il giudice delegato e il curatore, ne sorveglia l’operato e può sostituirli per giustificati motivi.

In particolare, la figura del giudice delegato è richiamata dall’ultimo comma del nuovo articolo 146 del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, e vigila sulle operazioni della liquidazione giudiziale e controlla la regolarità della procedura, nominando il comitato dei creditori e potendone anche sostituire i componenti oppure può autorizzare il curatore a stare in giudizio. Il giudice delegato adotta provvedimenti con decreto motivato contro i quali chiunque vi abbia interesse può proporre reclamo dinanzi al tribunale concorsuale con la medesima procedura dettata per i reclami contro i decreti dello stesso tribunale concorsuale, tuttavia, il reclamo non sospende l’esecuzione. Alla luce del nuovo art. 146 del CCI, il giudice delegato ha l’obbligo di sentire il curatore e il comitato dei creditori prima di adottare il decreto motivato con cui fissa i limiti previsti dal primo comma lett. b). In particolare, il curatore è l’organo preposto all’amministrazione del patrimonio compreso nella liquidazione giudiziale e compie tutte le operazioni della procedura nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite.

Al curatore sono assegnati compiti specifici la cui funzione centrale è quella di conservare, gestire e realizzare il patrimonio della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori. Quest’ultimo organo vigila sull’operato del curatore, ne autorizza gli atti ed esprime pareri succintamente motivati nei casi previsti dalla legge ovvero su richiesta del tribunale o del giudice delegato ed è composto da tre o cinque membri scelti tra i creditori in modo da rappresentare in misura equilibrata quantità e qualità dei crediti ed avuto riguardo alla possibilità di soddisfacimento dei crediti stessi. Il comitato dei creditori è nominato dallo stesso giudice delegato entro 30 giorni dalla sentenza che ha aperto la procedura di liquidazione giudiziale poiché in questa fase iniziale della procedura non è ancora stato accertato il passivo e, dunque, ancora non si conoscono i creditori concorrenti. In origine il comitato dei creditori era un organo di rilievo marginale con funzioni essenzialmente consultive il cui parere espresso a maggioranza era obbligatorio in una serie di casi ma mai vincolanti salvo quando doveva essere decisa la continuazione o la ripresa dell’esercizio dell’impresa del fallito.

Prima la riforma del 2006, e poi, il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ha rafforzato, fortemente, il ruolo del comitato dei creditori aumentandone i poteri e le funzioni. Tuttavia, come in passato, il parere espresso dal comitato dei creditori è per lo più non vincolante, ritenendosi vincolante, soltanto il parere negativo del comitato dei creditori. Inoltre, l’attuale disciplina prevede che il comitato dei creditori autorizzi alcuni atti del curatore come, ad esempio, a compiere atti di straordinaria amministrazione oppure il subentro del curatore nei rapporti contrattuali pendenti.

Il nuovo art. 146 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza all’ultimo comma precisa che il decreto del giudice delegato deve essere motivato ciò significando, che la determinazione del limite entro il quale gli stipendi e gli altri emolumenti previsti alla lett. b), del medesimo articolo sono esclusi dalla procedura di liquidazione giudiziale, non costituisce una scelta discrezionale. Essa deve essere esercitata applicando il nuovo parametro secondo cui il giudice delegato nel garantire il mantenimento del debitore sottoposto alla procedura di liquidazione giudiziale ed i suoi familiari deve tener conto delle condizioni personali del debitore e della sua famiglia. In quest’ottica appare possibile affermare che l’imprenditore-debitore sottoposto al decreto previsto dall’ultimo comma dell’art. 146, può proporre l’eventuale reclamo innanzi al tribunale concorsuale. Tuttavia, sorge il problema di interpretare il nuovo parametro indicato dal legislatore valutando, se la particolare rilevanza dell’interesse familiare consente al giudice delegato nella determinazione delle somme escluse dalla procedura di liquidazione giudiziale di superare il limite massimo individuato dalla Corte di Cassazione in quella situazione intermedia tra il minimo alimentare ed il minimo socialmente adeguato[38].

In ragione di ciò, l’espresso richiamo contenuto nell’art. 146 lett. b), alla nozione di mantenimento il legislatore sembra aver voluto far riferimento all’obbligo legale rientrante nel dovere di contribuzione ai bisogni della famiglia ex art. 143 co. 3 c.c., e ovvero all’obbligo legale che può sorgere al momento della separazione o dello scioglimento del matrimonio ex art. 156 c.c. Ed infatti, il mantenimento mira al soddisfacimento di tutte le esigenze di vita degli aventi diritto, commisurato al tenore di vita familiare corrispondente alla posizione economica e sociale dei coniugi. La recente riforma dell’art. 146, individuando nella condizione personale del debitore e in quella della sua famiglia, il criterio cui deve attenersi il giudice delegato nella determinazione della soglia entro la quale gli stipendi e gli emolumenti percepiti dal debitore sono esclusi dalla liquidazione giudiziale, appare quale nuovo parametro stabilito dal legislatore richiamando la condizione socio economica di tali soggetti e quindi il loro tenore di vita sia matrimoniale sia in caso di scioglimento dello stesso. Tuttavia, appare necessario analizzare il problema della sorte degli emolumenti previsti dall’art. 146 lett. b), percepiti dal debitore in assenza del decreto dei giudici delegato che fissi il limite entro il quale essi devono essere esclusi dalla liquidazione giudiziale.

L’opinione prevalente della dottrina, ed accolta anche dalla giurisprudenza, ritiene che l’esclusione dalla procedura di liquidazione giudiziale dell’emolumento operi automaticamente anche in mancanza del decreto del giudice legato, avente natura meramente dichiarativa, ed è necessario soltanto allo scopo di individuare gli importi che il debitore debba eventualmente restituire alla procedura in quanto eccedenti rispetto al parametro indicato all’art. 146 lett. b), del mantenimento suo e della sua famiglia[39]. Dunque, anche l’ultimo comma dell’art. 146 del nuovo CCI, così come interpretato risulta maggiormente in sintonia con i principi che hanno ispirato la norma, nella preminenza di tutela, anche economica, della famiglia collegata allo sviluppo e alla formazione personale dei suoi componenti.


[1] Campobasso, Diritto commerciale: contratti, titoli di credito, procedure concorsuali, 2022, p. 344.

[2] Sul punto, Campobasso, Diritto commerciale: contratti, titoli di credito, procedure concorsuali, 2022, afferma che  la continuità delle fattispecie previste dall’art. 349 CCI implica che la liquidazione giudiziale non costituisce una nuova e diversa procedura concorsuale rispetto al fallimento, sebbene non manchino certo le novità rispetto alla vecchia disciplina della legge fallimentare. Ne consegue che possono essere intese alla liquidazione giudiziale anche gli orientamenti interpretativi maturati con riferimento alla procedura di fallimento, ovviamente nei limiti in cui siano ancora attuali alla luce delle nuove regole del codice della crisi e dell’insolvenza.

[3] Cfr., Cass., 13-8-2004, n. 15769, in Dir. fall., 2005, II, 395, con nota di Fabbrini.

[4] Morace Pinelli, Commento agli artt. 46 e 47 del D.lgs. n. 5/2006, in Il nuovo diritto fallimentare, I, 2010, p. 669.

[5] Morace Pinelli, V. nota n. 4.

[6] Sulla concezione pubblicistica del diritto di famiglia, cfr., Morace Pinelli, La crisi, p. 60.

[7] Cicu, Sull’indissolubilità, p. 237 ss.

[8] Così osserva Cicu, in Matrimonium, p. 214.

[9] Cfr., sul punto, Morace Pinelli, Interesse, p. 34 ss.

[10] Cavalli, Gli effetti, p. 342 ss.

[11] Così Cavalli, Gli effetti, p. 343; Torrepadula, Art. 46, p. 738; Morace Pinelli, Artt. 46 e 47 del D.lgs. n. 5/2006, in Il nuovo diritto fallimentare, I, 2010, p. 687.

[12] Sul punto osservava Guglielmucci, Art. 46, p. 81 ss., con riferimento all’art. 46 del D. lgs. N. 5/2006, che questi diritti e queste azioni appaiono manifestamente estranei non soltanto la sostituzione fallimentare, ma alla stessa problematica in esame. L’art. 46 si inserisce infatti in una serie di norme che riguardano gli effetti del fallimento sui beni (art. 42) e, più in generale, sui “rapporti di diritto patrimoniale” del fallito (art. 43) e la stessa rubrica dell’articolo in questione parla di “beni non compresi nel fallimento”.

[13] Cavalli, Gli effetti, p. 343; Genoviva, Gli effetti, p. 460.

[14] Guglielmucci, Art. 46, p. 90, il quale fa l’esempio di << una campagna diffamatoria a seguito della quale il diffamato vede sfumare un grosso affare: nessun dubbio che a essere leso e il diritto all’onore e dunque un diritto attinente alla persona, ma ad essere tutelato e anche il patrimonio>>.

[15] Guglielmucci, Art. 46, p. 90, secondo il quale << non è dunque il contenuto, patrimoniale o meno, dell’obbligazione risarcitoria assegnare il confine fra acquisizione, al fallimento (ed attualmente alla procedura di liquidazione giudiziale), e permanenza nella sfera del debitore, bensì l’oggetto cui si riferiscono le conseguenze dannose risarcibili>>.

[16] Cass., 7 febbraio 2007, n. 2719; Cass., 11 gennaio 2006, n. 392; Cass., 13 giugno 2000, n. 8022, in Foro it., 2001, I, 1241; Id., in Fallimento, 2001, 57, con nota di D’Orazio; Id., in Dir. fall., 2001, II, 100 e 714, con nota di Minutoli; Cass., 20 giugno 1997, n. 5539, in Arch. circolaz. 1998, 45; Id., in Fallimento, 1998, 363, con nota di Napoleoni; Id., in Dir. fall., 1998, II, 486; Trib. Imperia, 30 giugno 1999, in Nuova giur. ligure, 2000, 45; Cass, 22 luglio 2005, n. 15493.

[17] Sul punto osservava Guglielmucci, Art. 46, p. 91, già prima del D. lgs. n. 14/2019, con riferimento all’art. 46 del D. lgs. n. 5/2006, che: << se in caso di invalidità permanente, il risarcimento sia corrisposto in un’unica soluzione, l’amministrazione fallimentare non può acquisire l’intera somma e corrispondere su di essa periodicamente l’importo necessario al soddisfacimento dei bisogni del fallito e della famiglia, perché l’importo liquidato a seguito del sinistro e diretto a risarcire un danno che si manifesta durante l’intera vita lavorativa del leso e, Ehi quindi, anche oltre la procedura fallimentare: se la somma venisse acquisita interamente al fallimento, il fallito potrebbe contare sull’assegno di cui al secondo comma dell’art. 46 legge fallimentare solo sinché dura il fallimento, mentre successivamente non potrebbe contare su di esso, né sulla possibilità di svolgere attività lavorativa, stante il carattere permanente dell’invalidità. Gli deve, quindi, essere lasciata la disponibilità della somma necessaria a far fronte ai suoi bisogni anche per il periodo successivo alla cessazione della procedura fallimentare>>.

[18] Genoviva, Gli effetti, p. 461. In senso contrario, cfr., Cass., 16 febbraio 2005, n. 3117.

[19] Guglielmucci, Art. 46, p. 105.

[20] Sul punto cfr., Cass., 10 marzo 2008, n. 6327; Guglielmucci, Art. 46, p. 105 ss.

[21] Cass., 23 settembre 1994, n. 910, in Foro it., 1995, I, 2355, con nota di Fabiani. Tali principi sono stati in seguito confermati da Cass., SS. UU., 12 giugno 1997, n. 5291, in Giust. civ., 1997, I, 2093, con nota di Giacalone; Id., in Foro it., 1997, I, 2421; Id., in Arch. civ., 1997, 715, con nota di Segreto; Id., in Fallimento, 1997, 1208, con nota di Panzani, e soprattutto, da Corte, cost., 29 giugno 1995, n. 286, in Foro it., 1995, I, 2355.

[22] Corte, cost., 29 giugno 1995, n. 286, in Foro it., 1995, I, 2355. Invero in tale sentenza la Corte costituzionale non prendeva una posizione ferma in favore della famiglia secondo La Corte costituzionale seppur l’articolo 31 della nostra costituzione non si limita ad impegnare la Repubblica ad interventi di promozione sociale a tutela della famiglia, ma implica altresì il divieto per il legislatore di introdurre discipline sfavorevoli alla famiglia stessa, va soggiunto che da ciò non discende tuttavia l’illegittimità costituzionale anche di quelle norme che in un equilibrato bilanciamento di interessi contrapposti pongono a carico dei coniugi oneri giustificati e non pregiudizievoli e delicati compiti che la famiglia assolve anche nell’interesse sociale. La Corte costituzionale auspicava un intervento del legislatore finalizzato ad un razionale riordino della materia, inteso ad armonizzare questo delicato aspetto della precedente legge fallimentare ai principi ispiratori della riforma del 1975 considerando in ogni caso i principi costituzionali sulla libertà dei coniugi e sulle esigenze di quel nucleo familiare che la costituzione ha voluto chiaramente privilegiare.

[23] Oppo, Regimi, p. 19. In via generale la Corte costituzionale ha affermato che il riconoscimento dei diritti della famiglia ex articolo 29, co. 1, Cost., va inteso non già restrittivamente come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto di parentela ispira. Sent. 31 maggio 2003, n. 8827, in Foro it., 2003, I, 2273, con note di La Battaglia, Navarretta; Id., in Guida dir., 2003, fasc. 25, 38, con nota di Piselli.

[24] Monticelli, L’assegno, p. 188. Il mantenimento, notoriamente, mira al soddisfacimento di tutte le necessità di vita dell’avente diritto e si commisura al tenore di vita familiare corrispondente alla posizione economica e sociale dei coniugi. Cfr., Bianca, Diritto civile, p. 189.

[25] Andrioli, Commento, p. 190; Satta, Commentario, p. 316; Barbiera, I diritti, p. 24 ss. In giurisprudenza, cfr., Trib. Roma, 5 marzo 1999, n. 3960; Trib., Roma, 15 gennaio 1960, in Giust. civ., I, 1720 ss.

[26] Auletta, Il fondo, p. 26, il quale osserva che i terzi che hanno concesso credito per i bisogni della famiglia trovano garanzia sui beni del fondo, senza dover subire il concorso dei creditori personali dei coniugi.

[27] De Semo, Diritto, p. 240; Pajardi, Manuale, p. 245, il quale rileva che non si vede perché i creditori presumibilmente poi insoddisfatti debbano mantenere e non invece limitarsi ad alimentare la famiglia del debitore, soddisfacendone cioè le pure esigenze elementari di vita.

[28] Cass. 15 dicembre 1994, n. 10736; Didone, La sentenza, p. 924.

[29] Cass., 16 gennaio 1982, n. 268, in Giust. civ., 1982, I, 946; nel merito cfr., Trib. Milano 5 febbraio 2008, in Guida dir., 2008, n. 15, 60, con nota di Finocchiaro.

[30] Cass., 28 novembre 1990, n. 11449.

[31] Così Cass., 28 novembre 1990, n. 11449, secondo la quale i beni costituiti in fondo patrimoniale sono caratterizzati da una destinazione esclusiva ad uno scopo dal quale non possono essere distolti, servendo alla necessità del nucleo familiare. Sul punto già con riferimento al fallimento Bianca, Vincoli, p. 53, riteneva che ciò non determini lo scioglimento del fondo patrimoniale; Auletta, Il fondo, p. 321, secondo il quale la particolare funzionalizzazione del fondo è la ratio stessa dell’istituto giustificano, infatti, la sua sopravvivenza nonostante il dissesto finanziario del coniuge debitore. Inoltre, lo scioglimento finirebbe con la ripercuotersi sfavorevolmente senza giustificazione sull’altro coniuge, perché renderebbe aggredibile la sua quota del fondo dai propri creditori personali i quali non potrebbero, invece, agire se i beni mantenessero il loro vincolo originario.

[32] Cfr., Cass., 20 giugno 2000, n. 8379.

[33] Pacchi, Art. 46, p. 302, secondo cui l’eliminazione del richiamo all’art. 326 c.c, preclude ogni interferenza Ehi tra l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale del debitore e i beni del figlio minorenne, nell’evidente intento di tutela di quest’ultimo.

[34] Cass., 28 febbraio 1998, n. 2257, in Fallimento, 1999, 163, con nota di Ceccherini; Id., in Dir. fall., 1999, II 71, con nota di Sparano.

[35] Cfr., Cass., 15 maggio 1984, n. 2936, in Giur. comm., 1984, II, 333, in Dir. fall., 1984, II, 720, con nota di Ragusa Maggiore; Id., in Fallimento, 1985, 1239, con nota di Tedeschi; Cass., 9 febbraio 1965, n. 210. Nel merito, cfr., Trib Busto Arsizio, 19 dicembre 1960, in Dir. fall., 1961, II, 542.

[36] Cass., 11 luglio 1988, n. 4561, in Fallimento, 1988, 1183; Id., in Dir. fall., 1989, II, 18 con nota di Ragusa Maggiore.

[37] Genoviva, Gli effetti, p. 464.

[38] Morace Pinelli, Commento agli artt. 46 e 47 del D.lgs. n. 5/2006, in Il nuovo diritto fallimentare, I, 2010, p. 677.

[39] Cavalli, Gli effetti, p. 346, secondo il quale o il decreto intervenga successivamente, l’inefficacia rimane circoscritta alla parte eccedente i limiti ivi fissati; cfr., Genoviva, Gli effetti, p. 462 ss; cfr., Trib. Roma, 28 apile 1997, in Riv. Curatori fallimentari, 1997, fasc. 3, 29; cfr., Cass., 27 settembre 2007, n. 20325, in Foro it., 2008, I, 847.

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