La sentenza in commento affronta la controversa questione della configurabilità di un diritto soggettivo perfetto dei genitori degli alunni delle scuole elementari e medie di optare per i propri figli tra la refezione scolastica e il pasto portato da casa e di consumarlo nei locali della scuola nell’orario destinato alla refezione scolastica.
Inoltre, la decisione risolve l’annessa problematica avente ad oggetto la sentenza del Consiglio di Stato n. 5156 del 2018, in particolare stabilendo se la stessa possa essere interpretata in senso ricognitivo del diritto di cui sopra.
La suddetta pronuncia del Consiglio di Stato, infatti, ha annullato per eccesso di potere una delibera di un Comune che vietava, nei locali in cui si svolge il servizio di refezione scolastica, il consumo, da parte degli alunni, di cibi diversi da quelli forniti presso l’istituto scolastico.
Il fatto
Nel novembre 2014 i genitori di alcuni alunni delle scuole primarie e secondarie di primo grado convenivano in giudizio il Comune di X e il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR) per fare accertare il diritto menzionato in premessa.
Successivamente, il Tribunale di Torino rigettava le domande, rilevando l’insussistenza dì un diritto soggettivo come quello azionato, esistendo una sola modalità di espletamento del servizio mensa, per il quale neanche sussiste un diritto, avendo le famiglie la possibilità di scegliere tra il “tempo breve” e il “tempo pieno” e “prolungato” che prevede il servizio mensa.
Inoltre, lo stesso Tribunale, sottolineava che nel caso in cui le famiglie avessero scelto il tempo pieno sarebbero state libere di prelevare i figli da scuola durante l’orario della mensa scolastica, farli mangiare in casa e riaccompagnarli per le attività pomeridiane.
Con sentenza del 21 giugno 2016, la Corte d’appello di Torino accoglieva parzialmente il gravame dei privati, in quanto accertava il diritto dei genitori di scegliere per i figli tra la refezione scolastica e il pasto domestico da consumare a scuola nell’orario destinato alla refezione, ma si asteneva dal dettare «le modalità pratiche per dare concreta attuazione alla sentenza», non ritenendo possibile «consentire indiscriminatamente agli alunni di consumare il pasto domestico presso la mensa scolastica».
Avverso questa sentenza della Corte d’appello di Torino proponevano ricorso in Cassazione, in via principale, il Comune di X e, in via incidentale, il Ministero dell’istruzione, cui si sono opposti i privati con controricorso.
La Suprema Corte con ordinanza dell’1 marzo 2019, ha rimesso gli atti di causa al Primo Presidente per sottoporre alle Sezioni unite della Corte medesima la risoluzione della seguente questione: “se sia configurabile un diritto soggettivo perfetto dei genitori degli alunni delle scuole elementari e medie, eventualmente quale espressione di una libertà personale inviolabile, il cui accertamento sia suscettibile di ottemperanza, di scegliere per i propri figli tra la refezione scolastica e il pasto portato da casa o confezionato autonomamente e di consumarlo nei locali della scuola e comunque nell’orario destinato alla refezione scolastica, alla luce della normativa di settore e dei principi costituzionali, in tema di diritto all’istruzione, all’educazione dei figli e all’autodeterminazione individuale, in relazione alle scelte alimentari (artt. 2, 3, 30, comma 1, 32, 34, commi 1 e 2, Cost.); se possa essere interpretata in senso ricognitivo dì un simile diritto la sentenza del Consiglio di Stato n. 5156 del 2018, confermativa di sentenza che ha annullato per eccesso di potere una delibera di un Comune che vietava, nei locali in cui si svolge il servizio di refezione scolastica, il consumo, da parte degli alunni, di cibi diversi da quelli forniti dalla ditta appaltatrice del servizio.”
Normativa del caso
A livello costituzionale, le doglianze dei genitori e, di riflesso, la pronuncia delle Sezioni Unite, hanno come fondamento normativo gli articoli 2, 3, 30, comma 1, 32, 34, commi 1 e 2, Cost., i quali statuiscono rispettivamente: il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo non solo come singolo ma come parte integrante le formazioni sociali ove esplica al meglio la propria personalità; l’uguaglianza formale e sostanziale tra i cittadini; il dovere e diritto dei genitori di istruire, educare e mantenere i figli, non solo quelli nati all’interno del vincolo matrimoniale ma anche quelli nati fuori lo stesso e quelli adottati; la tutela della salute e la libertà di autodeterminarsi in tale ambito e, dunque, anche nelle scelte alimentari; la gratuità ed obbligatorietà dell’istruzione inferiore.
Per quanto concerne la normativa di settore, gli artt. 3 e 6 d. Igs. n. 63 del 2017 dispongono che, tra gli altri, il servizio di mensa è erogato in forma gratuita, “ovvero con contribuzione delle famiglie a copertura dei costi, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.”, guardando al c.d. ISEE, l’indicatore della situazione economica equivalente, che misura la condizione economica delle famiglie tenendo conto di molteplici fattori. Inoltre, il “tempo mensa” incluso nel c.d. “tempo scuola” a “tempo pieno” è un servizio facoltativo offerto ai genitori, non un diritto.
Il fatto che il “tempo mensa” integri il “tempo scuola” risulta da diversi indici normativi, quali l’art. 6, D.lgs n. 63/2017, il quale rinvia all’art. 130, comma 2, del decreto legislativo 16 aprile 1994, dal cui combinato disposto ne deriva l’attivabilità del servizio mensa da parte degli interessati nel contesto del “tempo pieno” avente un orario settimanale stabilito a priori che deve ricomprendere il “tempo mensa”.
Ancora, l’art. 1, D.l. n. 147/2007, convertito nella legge n. 176/2007 che, nel reintrodurre il “tempo pieno” nell’organizzazione della scuola primaria, prevede un “orario settimanale di quaranta ore, comprensivo del tempo dedicato alla mensa”.
Il D.P.R n. 89/2009, all’art. 5 dispone che nella scuola secondaria di I grado l’orario settimanale deve comprendere il tempo dedicato alla mensa, in concorso con quello per l’insegnamento e per le attività.
Oltre alla presenza nel nostro ordinamento di normativa volta a chiarire la collocazione del servizio mensa, vi sono fonti primarie e secondarie che si preoccupano di stabilirne la finalità, di modo da non dare adito a dubbi in merito.
In tal senso, s’inserisce la circolare ministeriale n. 29/2004 del MIUR che stabilisce la necessità del servizio mensa a garanzia dello svolgimento delle attività didattiche ed educative.
Il servizio mensa, dunque, assolve alle finalità educative proprie del progetto formativo scolastico in quanto porta con sé una propria funzione didattica, ovvero quella dell’educazione alla sana alimentazione.
Infatti, l’art. 4, comma 5 del D.l. n. 104/2013, convertito nella legge n. 128/2013, statuisce che “Il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, al fine di favorire il consumo consapevole dei prodotti ortofrutticoli nelle scuole, elabora appositi programmi di educazione alimentare, anche nell’ambito di iniziative già avviate.”
D’altra parte, l’art. 9 del D. Igs. n. 59/2004 pone in luce l’importanza della scuola secondaria di primo grado nel rafforzamento delle capacità d’interazione sociale del singolo alunno, offrendo al “tempo mensa” l’ulteriore finalità di socializzazione in concorso con quella educativa.
Per quel che concerne l’organizzazione del servizio mensa, quale servizio offerto dall’istituto scolastico in piena autonomia e nel rispetto del principio di buon andamento, l’art. 7, comma 4 del D. Igs. n. 59 del 2004 tratta di “assistenza educativa da parte del personale docente nel tempo eventualmente dedicato alla mensa”.
L’art. 7 del D. Lgs. N. 59/2004 continua al comma 5 statuendo che “L’organizzazione delle attività educative e didattiche rientra nell’autonomia e nella responsabilità delle istituzioni scolastiche” ed infatti, ai sensi del D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275, le stesse godono di autonomia didattica (art. 4) ed organizzativa (art. 5).
La decisione della Corte e osservazioni
Solo a seguito delle suddette premesse normative si comprende perché la Corte abbia deciso per l’inammissibilità di un diritto soggettivo perfetto e incondizionato all’autorefezione individuale, nell’orario della mensa e nei locali scolastici.
Ripercorrendo l’iter argomentativo della Corte, la stessa ha rilevato, in primis, l’inesistenza di una violazione del principio di gratuità dell’istruzione scolastica, in quanto questo non implica una totale gratuità di tutte le prestazioni connesse al diritto allo studio. Infatti, la stessa deve coniugarsi con i doveri assistenziali dei genitori nei confronti dei figli, con la disponibilità dei mezzi finanziari degli studenti risultanti dalle tasse corrisposte o rette di fruizione dei servizi scolastici, nonché con gli obblighi statali nei confronti delle famiglie sulla base della legislazione vigente.
Per quanto concerne questi ultimi, è noto che lo Stato non possa fornire fondi economici illimitati ad ogni servizio scolastico annesso al diritto allo studio, dovendosi anch’essi conformare a quanto disposto con la legge di bilancio, fulcro della manovra finanziaria.
In questo senso deve ritenersi ragionevole che l’intervento pubblico per il servizio mensa sia previsto «nei limiti delle effettive disponibilità finanziarie, umane e strumentali disponibili a legislazione vigente», come altri interventi a sostegno del diritto allo studio (art. 2 del D. Igs. n. 63 del 2017).
Neppure sussistono profili discriminatori tra coloro che partecipano alle attività formative pomeridiane, avendo aderito all’offerta formativa del «tempo pieno» e «prolungato», comprensivo del servizio mensa, e coloro che alla suddetta offerta formativa non hanno aderito per la loro libera scelta di rifiutare la mensa, preferendo il pasto domestico.
La discriminazione non si profila perché, in virtù del principio di eguaglianza ai sensi dell’art. 3 Cost., le categorie di alunni di cui trattasi non sono rapportabili in quanto diverse.
La Corte prosegue dichiarando che, sulla base della normativa vigente, il “tempo mensa” debba considerarsi parte integrante il “tempo scuola”, ma questo non può portare all’errata conclusione di una compromissione del diritto all’istruzione dell’alunno.
Infatti, nulla vieterebbe ai genitori di prelevare il proprio figlio nell’ora della somministrazione del pasto per poi riportalo presso l’Istituto scolastico lasciandolo assistere alle lezioni pomeridiane.
Inoltre, se il “tempo mensa” assolve alle finalità educative proprie del progetto formativo scolastico in quanto porta con sé una propria funzione didattica, ovvero quella dell’educazione alla sana alimentazione, l’alunno che non vi partecipasse non gioverebbe dei benefici che tali insegnamenti portano con sé.
A tal proposito, anche in conformità ai programmi di educazione alimentare elaborati dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, il “tempo mensa” risulta il più idoneo a concretizzare la finalità di cui sopra, facendo sì che gli alunni possano prendere coscienza del significato della locuzione “sana alimentazione”, consumando consapevolmente i prodotti loro proposti.
Alla finalità educativa si aggiunge anche la finalità di socializzazione che si manifesta specialmente al momento del consumo del pasto con i propri compagni di classe, profilandosi una fondamentale occasione di condivisione che permette al bambino di sviluppare maggiormente anche la propria personalità, in linea con l’art. 2 della Costituzione.
Per questi motivi la Corte ritiene che riconoscere il diritto in capo agli alunni di portare un pasto diverso non sarebbe in linea con le finalità proprie del “tempo mensa”, al quale deve guardarsi come una parte del percorso educativo stabilito per i bambini.
D’altronde, l’art. 9 del D. Igs. n. 59/2004 pone in luce l’importanza della scuola secondaria di primo grado nel rafforzamento delle capacità d’interazione sociale del singolo alunno, offrendo al “tempo mensa” l’ulteriore finalità di socializzazione in concorso con quella educativa.
La Corte afferma che “non è agevole comprendere come il pasto solitario degli alunni con cibo proprio, in locali destinati nella scuola, possa realizzare gli obiettivi di socializzazione e condivisione che ineriscono all’invocato diritto di usufruire del cosiddetto «tempo scuola».”.
In ultimo, le Sezioni Unite riflettono sulle conseguenze logistiche e pratiche a cui andrebbero incontro le istituzioni scolastiche se si dovesse riconoscere un diritto soggettivo del genere, ponendo l’attenzione sull’autonomia di tali organizzazioni.
Invero, ai sensi del D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275, dal 2000 le istituzioni scolastiche, pur facendo parte del sistema scolastico nazionale, godono di una propria autonomia didattica (art. 4) ed organizzativa (art. 5).
La scuola, nel rispetto delle scelte educative delle famiglie, applica la normativa di riferimento, considerando la diversità di ogni alunno, promuovendo le capacità di ciascuno e predisponendo attività di sostegno allo scopo di creare un percorso formativo il più soddisfacente possibile.
A livello organizzativo, la scuola è libera di individuare gli strumenti più idonei per cui dedicare risorse, anche e soprattutto guardando all’era digitale che stiamo vivendo, allo scopo di raggiungere gli obbiettivi prefissati nel rispetto dei principi di efficienza ed efficacia.
In virtù di tale autonomia, le famiglie non possono imporre alcun obbligo circa il servizio pubblico della mensa, che resta soggetto alla sola disciplina vigente.
A tal proposito, le Sezioni Unite statuiscono che “Le famiglie in tal modo hanno esercitato una libertà dì scelta educativa (art. 21 della legge n. 59 del 1997), dalla quale scaturisce il loro diritto di partecipazione al procedimento amministrativo per influire sulle modalità di gestione del servizio pubblico di mensa (ai fini dell’individuazione dell’impresa che lo gestisce e dei cibi offerti), ma non il diritto sostanziale di performarlo secondo le proprie esigenze individuali.”
A ciò, si aggiunga che l’art. 7, comma 4 del D. Igs. n. 59 del 2004 prevede “assistenza educativa da parte del personale docente nel tempo eventualmente dedicato alla mensa”.
Ergo, la legge assicura la super visione di un insegnante a degli alunni che consumano dei pasti controllati dal punto di vista sanitario, ma anche calibrati a seconda delle esigenze del minore, quali la religione, eventuali intolleranze o specifiche necessità di salute.
Risulta di tutta evidenza il fatto che acconsentire a che gli alunni consumino cibo esterno alla struttura scolastica, implicherebbe l’assunzione di precauzioni ben diverse da quelle previste dalla normativa vigente, come ad esempio una vigilanza ulteriore, comportante maggiori costi, una diversa organizzazione interna che preveda dei controlli accurati della refezione casalinga.
In più, qualora uno o più alunni dovessero incorrere in danni per via della refezione casalinga, la scuola potrebbe incorrere in responsabilità di natura contrattuale o derivante da contatto sociale.
Per questi motivi, il diritto di libertà personale, nonché quello all’autodeterminazione del singolo e dei genitori a scegliere per il figlio in campo alimentare, oltre al diritto dei genitori di non subire interferenze nell’adempimento dei loro doveri come lavoratori, a causa della necessità di accudire i figli durante l’orario della mensa, non possono invocarsi come violati.
Invero, le Sezioni Unite affermano che tali doglianze trascurano “il contesto nel quale i suddetti diritti dovrebbero essere esercitati, che è quello delle istituzioni scolastiche, le quali, nell’ambito dell’autonomia organizzativa oltre che didattica che è loro conferita dalla legge (15 marzo 1997, n. 59), possono istituire il servizio mensa che è un servizio pubblico a domanda individuale (d.m. 31 dicembre 1983, p. 10), prestato in favore degli alunni che hanno optato per il «tempo pieno» e «prolungato» e, quindi, accettato l’offerta formativa comprendente la mensa.”.
In conclusione, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ritiene non configurabile “un diritto soggettivo perfetto e incondizionato all’autorefezione individuale, nell’orario della mensa e nei locali scolastici”
Conseguentemente, la tesi espressa dal Consiglio di Stato nella sentenza della Sez. V, n. 5156 del 2018, secondo cui la «scelta alimentare» costituisce oggetto di «una naturale facoltà dell’individuo afferente alla sua libertà personale e, perciò, può esercitarsi anche nelle scuole a prescindere dalle decisioni delle istituzioni scolastiche, non può assurgere a fondamento di un diritto soggettivo perfetto ed incondizionato degli alunni all’autorefezione nei locali scolastici.
Dunque, la suddetta sentenza del Consiglio di Stato non può considerarsi ricognitiva di un tale diritto, suscettibile di accertamento in giudizio e di ottemperanza ad istanza degli interessati.