Con la sentenza n. 11272 del 10.5.2018, la III Sezione Civile della Corte di Cassazione ha statuito che la condotta di chi abbia liberamente scelto di fumare per molti anni nonostante la notoria nocività di tale pratica, vale ad escludere il nesso causale tra la distribuzione delle sigarette e l’insorgenza della malattia cagionata dal consumo delle stesse.
In particolare, si legge nella sentenza della Suprema Corte che il rigetto della domanda è avvenuto ‘in applicazione del principio della causa prossima di rilievo costituito nella fattispecie da un atto di volizione libero, consapevole ed autonomo di soggetto dotato di capacità di agire, quale, appunto, la scelta di fumare nonostante la notoria nocività del fumo’.
Detta motivazione, in realtà, non risulta pienamente convincente nella misura in cui tendesse ad elevare – almeno secondo i primi commenti – ad assunto indiscutibile ed universalmente applicabile quello per cui la nocività del fumo debba essere considerata quale ‘nozione di comune esperienza’, indipendentemente dagli elementi che concretamente caratterizzano il singolo caso, primo fra tutti il periodo in cui il fumatore ha iniziato il consumo di sigarette ed ha pertanto maturato la propria dipendenza in relazione a detta pratica.
Sarebbe infatti irragionevole trasporre automaticamente gli standard di conoscenza di oggi nel mondo di 50 / 60 anni fa.
Nocività del fumo e “nozione di comune esperienza”
Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, l’espressione “nozione di comune esperienza” deve essere considerata in senso rigoroso, facendo riferimento esclusivamente a quei fatti acquisiti alla conoscenza della collettività con un grado di certezza tale da apparire indubitabili e incontestabili (Cass., n. 16959 del 2012).
In ragione di tale significato attribuito all’espressione anzidetta, appare evidente come la nocività del fumo, nozione sicuramente di comune esperienza da circa 30 anni a questa parte, non poteva essere considerata tale in epoca anteriore. Basti pensare che la tesi circa la dannosità del fumo, oramai unanimemente riconosciuta come fondata, ha dovuto faticare non poco ad imporsi, anche – e soprattutto – a causa delle campagne poste in essere dalle case produttrici di sigarette volte a sminuire la fondatezza degli studi scientifici sul punto ovvero a presentare come controverse delle circostanze che invece, sul piano scientifico, dovevano considerarsi acclarate.
Si guardi alle dichiarazioni del Dott. Clarence Cook Little, celebre ricercatore americano che, da direttore scientifico del comitato consultivo scientifico del comitato per la ricerca dell’industria del tabacco (ribattezzato Council for Tobacco Research nel 1964), ancora negli anni Sessanta sosteneva la insussistenza di alcuna relazione causale dimostrata tra il fumo o qualsiasi malattia.
E ancora, nel 1961 la American Cancer Society, la American Heart Association e la National Tubercolosis Association spedirono una lettera congiunta al Presidente Kennedy per chiedergli di nominare una commissione nazionale che indagasse in ordine ai profili di collegamento tra fumo e salute. Negli Stati Uniti d’America, patria dei primi studi in ordine alla nocività del fumo, negli anni Sessanta tale circostanza era tutt’altro che ricompresa nel patrimonio della comune esperienza se autorevoli società scientifiche avvertivano la necessità di chiedere formalmente al Presidente Kennedy di nominare una commissione che approfondisse adeguatamente la questione. A maggior ragione, appare dunque poco plausibile che un fumatore italiano, che avesse magari compiuto un percorso di studi tutt’altro che avanzato, potesse intendere, in quegli stessi anni, la nocività del fumo come dato certo, incontestabile ed immediatamente percepibile.
Peraltro, se solamente dal 1991 è stato apposto per legge sui pacchetti di sigarette l’avvertimento relativo alla nocività del prodotto, è perché la consapevolezza di tale circostanza, anche a causa delle ovvie resistenze manifestate dalla case produttrici, ha tardato ad imporsi e ad essere unanimemente riconosciuta.
In ragione di tali argomentazioni, certa giurisprudenza ha osservato: ‘si consideri che la diffusione di informazioni circa il rischio cancerogeno dell’assunzione del fumo coesiste, sovente, con argomentazioni… tese a sminuire la valenza degli studi epidemiologici quale argomento di prova del nesso causale fra fumo e cancro al polmone e a minimizzare la rilevanza del nesso causale tra l’assunzione di tabacco e la contrazione del cancro al polmone, argomentazioni la cui attitudine disorientante nel grande pubblico non può essere ritenuta insignificante prima del 1991 quando tale rischio fu certificato incontrovertibilmente dalla apposizione degli avvisi sulle confezioni di tabacco’ (Trib. Milano, sent. 11.7.2014; nello stesso senso, Corte di Appello di Roma, sent. n. 1015 del 7.3.2005).
Conclusioni
È allora auspicabile, in definitiva, un approccio che guardi agli elementi del singolo caso al fine di valutare se la decisione di fumare possa essere correttamente definita come ‘libera’ e ‘consapevole’, ovvero se il difetto di informazioni in ordine allo specifico rischio cancerogeno del consumo di sigarette possa aver indotto il fumatore ad una scelta che, in presenza di una piena consapevolezza del rischio, non avrebbe compiuto.