Fallimento delle Società in house: la storica svolta della Cassazione

in Giuricivile, 2018, 11 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., sez. I civ., sent. 7/2/2017 n. 3196

Anche le società in house possono fallire: la svolta della sentenza della corte di cassazione alla luce del D.lgs 175/2016

Con sentenza n° 3196 del 07/02/2017, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha espressamente affermato la fallibilità delle società in house prendendo in considerazione, per la prima volta, anche le disposizioni del D. Lgs. 19 agosto 2016 n.175, pur non applicabile ratione temporis alla fattispecie.

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Il contrasto in dottrina e giurisprudenza

Per meglio comprendere la portata innovativa di questo dictum è necessario ripercorrere le principali fasi del dibattito che ha visto dottrina e giurisprudenza confrontarsi sulla possibilità di  assoggettare le società in questione alle procedure concorsuali previste per le società di diritto comune.

In particolare, secondo un primo orientamento c.d. “privatistico puro” sarebbe necessario dare rilevanza alla natura privatistica della forma giuridica prescelta per la società in house e dunque, il fatto che si tratti di società di capitali, consentirebbe una piena e incondizionata soggezione alla disciplina di diritto comune in materia concorsuale.[1] Fondamentale a tal proposito è la sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 27 settembre 2013 n. 22209[2] con la quale la Corte ha avuto modo di affrontare ex professo l’annoso problema relativo alla fallibilità della società in mano pubblica. [3] Sottolineando l’incontestabile rilievo che il rapporto tra società ed ente pubblico sia di assoluta autonomia, la Suprema Corte ha ribadito la natura privatistica, ed il conseguente assoggettamento a fallimento, delle società di capitali, malgrado l’eventuale partecipazione di enti pubblici al capitale sociale.

Il secondo degli orientamenti sviluppatisi in dottrina e in giurisprudenza è quello c.d. “tipologico” o “pubblicistico”[4] secondo il quale non sarebbe possibile assoggettare tali società alla disciplina fallimentare in ragione del fatto che esse sono strumentali per l’ente concedente. Si ritiene infatti che, al di là della forma, sia necessario entrare nel merito degli aspetti organizzativi e gestionali al fine di comprendere se permangono o meno quei caratteri privatistici delle società comuni. La prima pronuncia che ha aperto la strada a soluzioni differenziate rispetto al metodo c.d. “privatistico puro”, fino ad allora dominante, è la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 2009[5]. Con tale provvedimento veniva dichiarato il fallimento di una società a partecipazione pubblica. Rilevante è il ragionamento che aveva portato a tale decisione: in particolare, i giudici ritenevano che la qualificazione in termini pubblicistici delle società in mano pubblica sarebbe stata possibile esclusivamente qualora l’aspetto della gestione e dell’attività della società risultassero avulsi dagli schemi del diritto commerciale.

Parallelamente al metodo c.d. “tipologico” sopra esposto, parte della giurisprudenza ha sviluppato un altro orientamento c.d. “funzionale”.[6] Secondo tale orientamento l’esenzione dal fallimento sarebbe possibile soltanto per quelle società a partecipazione pubblica che svolgono un’attività di servizio pubblico essenziale qualificabile come attività “necessaria” per l’ente concedente. A corroborare tale tesi, viene menzionata la sentenza del Tribunale di Catania del 2010[7], secondo cui il carattere della necessarietà si rinviene nel tipo di attività svolto dalla partecipata. In particolare, nel caso di erogazione di un servizio pubblico essenziale, si dovrà esentare la stessa dal fallimento al fine di tutelare la collettività che usufruisce di tale servizio.[8]

Al fine di operare una risistemazione della materia, è stato da ultimo approvato il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica[9] in attuazione della delega contenuta nella legge 124/2015.  Con il TUSP il legislatore ha inteso dettare una serie di disposizioni specifiche in tema di “crisi d’impresa” delle società a partecipazione pubblica. Dal primo comma dell’art. 14 TUSP[10] si evince come il legislatore abbia inteso prendere una posizione espressa al fine di risolvere la questione che aveva creato spaccature in seno alla dottrina e alla giurisprudenza. Alla luce della formulazione adottata, si rinviene come il legislatore abbia adottato il metodo c.d. “privatistico puro”.

Il caso in esame

Nel caso in oggetto, la Cassazione aderisce al primo degli orientamenti su esposti e statuisce che le  società c.d. in house providing sono soggette a fallimento al pari di qualsiasi altro soggetto privato. La possibilità, per gli enti pubblici, di perseguire l’interesse pubblico mediante strumenti di carattere privato, non deve pregiudicare i terzi che maturano un legittimo affidamento nel riscontrare che la società di capitali costituita dall’ente è regolarmente iscritta al registro delle imprese. Tale iscrizione è condizione che fa acquistare al soggetto lo status di imprenditore commerciale.

Nel caso di specie una s.r.l., affidataria della gestione e della manutenzione del patrimonio immobiliare proprio e del Comune, con capitale partecipato da quest’ultimo al 97,76%, veniva dichiarata fallita in primo grado; la relativa sentenza veniva impugnata da alcuni creditori (s.n.c. e l’ex amministratore) ma senza successo.

La decisione della Corte

La Suprema Corte, respingendo il ricorso, dispone la fallibilità della società in questione confermando la decisione dei giudici di merito e ribadisce il proprio orientamento sul punto con l’intento esplicito di consolidarlo al fine di renderlo un punto fermo del diritto vivente.

I giudici di legittimità sottolineano che la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza. [11]

Diversamente opinando, sarebbero violati i principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto, e sarebbe altresì disattesa la necessità del rispetto delle regole di concorrenza, che impone la parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità.[12] In ragione del fatto che esistono specifiche normative di settore che, negli ambiti ad esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato, può ricavarsi a contrario che ad ogni altro effetto tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica. [13]

La Suprema Corte valorizza taluni rilevanti dati positivi, riferendosi innanzitutto all’art. 1 della Legge Fallimentare che, nel determinare l’ambito di esenzione dalle procedure concorsuali, discorre esclusivamente di “enti pubblici” e non di “società pubbliche”.[14]

Non da ultimo, i Giudici di ultima istanza hanno evidenziato che anche il decreto legislativo di attuazione della specifica delega governativa in tema di società partecipate da amministrazioni pubbliche [15] ha riconosciuto la piena valenza di tale regola “equiparatrice”, inserendo una specifica previsione all’art. 14,[16] che fuga ogni perplessità in merito e che chiarisce, una volta per tutte, che le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento, sul concordato preventivo ed anche, ove ovviamente ne sussistessero i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria.

Non limitandosi agli argomenti di carattere formale – di per sé già decisivi nell’escludere ogni sperequazione tra “imprenditori” privati e pubblici – la Cassazione ha anche evidenziato che, a sovvertire l’assetto testé ricordato, non sovviene la nozione di organismo di diritto pubblico[17] elaborata, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, dai T.A.R. e dal Consiglio di Stato, giacché tale concetto risulta irrilevante per l’attività con finalità lucrative della società in house o a partecipazione pubblica[18].

Non risulta decisivo neanche il richiamo al  c.d. “controllo analogo” da parte dell’Ente pubblico di riferimento, giacché l’esistenza di poteri di vigilanza, di coordinamento e di indirizzo nei confronti della società partecipata assimilabili alle prerogative che l’Ente esercita nei confronti dei propri dipendenti (e, più in generale, dell’attività istituzionale) non determinano una “sovraqualificazione” del soggetto in questione rispetto al tipo societario assunto, ma caratterizzano semplicemente l’intensità dei poteri nei suoi confronti esercitabili dal socio pubblico.

Non è altresì rilevante neanche la sottoposizione degli amministratori e degli altri dipendenti della società in house a specifiche regole del diritto pubblico, quali quelle attinenti alla responsabilità erariale e contabile, dato che ciò implica sì una responsabilità aggiuntiva in capo a tali soggetti, ma non fa certo discendere per la società “l’effetto di perdere l’applicazione dello statuto dell’imprenditore”.[19] Al contrario, la Corte ha voluto precisare che altri elementi di carattere sistematico forniscono l’ulteriore riprova della fallibilità delle società partecipate.

Difatti, da un lato, l’esclusione di una società in house dalla disciplina del fallimento comporterebbe una lesione del legittimo affidamento dei terzi che, in ragione dell’iscrizione di tali soggetti al sistema di pubblicità legale del registro delle imprese, confidano che anche ad essi sia applicabile l’ordinario regime di diritto societario.[20]

Dall’altro, la sussistenza, in ogni caso, di una netta separazione tra Ente pubblico e società partecipata, costituendo principio dell’ordinamento quello secondo cui la società di capitali costituisce soggetto diverso e separato dal socio, il quale, anzi, costituendolo, ha la garanzia che il proprio patrimonio non venga intaccato dai creditori della società; e costituendo, per converso, pure noto principio che il regime societario sfugga a quello proprio del soggetto controllante.

Ebbene, la Cassazione è parsa voler perentoriamente fugare ogni perplessità in ordine alla piena equiparazione delle società in house, e più in generale delle società partecipate, alle società di diritto privato, anche per quel che attiene i momenti di “crisi societaria”, e a voler ribadire che, operi o non operi il D.lgs. n. 175/2016, le società pubbliche possono fallire.

In ogni caso, nonostante le diverse opzioni interpretative che si sono avvicendate relativamente al problema della fallibilità delle società pubbliche abbiano rivelato svariati punti deboli, la codificazione di un’espressa disposizione in argomento non può che salutarsi con favore; ciò, probabilmente, non assicurerà il definitivo superamento delle tendenze riqualificatorie delle società pubbliche in enti pubblici ma fornisce, allo stato, un appiglio normativo stabile.


[1] Le argomentazioni tradizionali addotte a sostegno di tale tesi si fondano principalmente su due disposizioni normative: l’articolo 2221 c.c. e l’articolo 1, primo comma, legge fallimentare. Tali articoli circoscrivono l’esclusione dal fallimento e dal concordato preventivo ai soli enti pubblici. I sostenitori del metodo “privatistico puro” richiamano, per suffragare la tesi da essi sostenuta, anche l’art. 4 della legge 70/1975 secondo cui “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”. Dunque, posto il principio di legalità di cui all’articolo 4, la più recente giurisprudenza di legittimità ha adottato al riguardo un’interpretazione rigorosa, secondo la quale la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro e inequivoco. Pertanto, non si può discrezionalmente qualificare un ente come pubblico.

[2] Per maggiori dettagli, Cass., sez. I, 27/09/2013, n. 22209 in ilcaso.it; e anche Cass., SS. UU., 25/11/2013, n. 26283 in Giur.it.

[3] La soluzione “privatistica pura” era stata accolta anche nelle prime pronunce della Suprema Corte di Cassazione. Emblematica è la sentenza n.158/79[3] relativa alla questione della fallibilità o meno di una società concessionaria della costruzione e dell’esercizio di un’autostrada. Dal testo del provvedimento si evince che “una società per azioni, concessionaria dello Stato per la costruzione e l’esercizio di un’autostrada, non perde la propria qualità di soggetto privato e quindi, ove ne sussistano i presupposti di imprenditore commerciale, sottoposto al regime privatistico, sarà suscettibile di essere sottoposta ad amministrazione controllata (art 187 l. fall.)”.

[4] Tale metodo viene definito “tipologico” poiché “giunge a fare applicazione della normativa pubblicistica o privatistica, previa analisi degli indici rivelatori della pubblicità o meno dell’ente societario.

[5] Cfr., Tribunale Santa Maria Capua Vetere 9/01/2009 in www.ilcaso.it.

[6] Quest’ultimo, partendo dall’analisi delle finalità perseguite e degli interessi protetti in una determinata materia, perviene ad un’applicazione “a scacchi”  delle disposizioni di diritto pubblico, nel caso siano espressamente previste e di diritto privato qualora, in assenza di diverse previsioni, non vi sia ragione di derogarle.

[7] Cfr. Tribunale di Catania 26 marzo 2010 n. 2338 in www.ilcaso.it.

[8] Nel caso di società in mano pubblica che presentano il carattere della “necessità”, si verifica certamente la lesione dell’interesse pubblico.  Per “necessità” si deve intendere che l’esistenza della società in questione è considerata “vitale” dall’ente territoriale, in quanto inerente allo svolgimento di servizi pubblici  essenziali destinati al soddisfacimento di bisogni collettivi.

[9] Cfr. Decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (G.U. 8 settembre 2016, n. 210).

[10] Cfr. art. 14 D.Lgs. n.175/2016:  “le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza di cui al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, e al decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39.”

[11] Cfr. pag. 3 della sentenza.

[12] Sul punto, Corte di Cassazione, sentenza n. 3196 del 7/02/2017, p.3, in dirittodeiservizipubblici.it,  sottolinea che tale scelta del legislatore “di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità”.

[13] Ibidem, la Corte prosegue ritenendo che sono da respingere le suggestioni dirette a una compenetrazione sostanzialistica tra tipi societari e qualificazioni pubblicistiche, al di fuori della riserva di legge di cui all’art. 4 della legge n.70 del 1975 che vieta l’istituzione di enti pubblici se non in forza di un atto normativo, “così ponendo un argine ad una ricognizione interpretativa che assuma dai tratti materiali dell’attività quel titolo ad ogni effetto nei rapporti con i terzi”.

[14] Cfr. art. 1, comma 1,  rubricato “imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo” del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, il quale dispone che “Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”.

Si ricorda inoltre come lo stesso legislatore abbia chiarito, all’art. 4, comma 13, del D.L. n.95 del 2012 (c.d. spending review),  ora abrogato, che la sussistenza di una norma generale di rinvio alla disciplina codicistica, secondo cui “le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali”.

[15] Il D.lgs. n. 175 del 2016.

[16] Cfr. art. 14, comma 1, rubricato “Crisi d’impresa di società a partecipazione pubblica” del D. Lgs. n.175/2016 dispone che “le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza”.

[17] Che individua le “articolazioni” degli Enti pubblici che soggiacciono agli obblighi di carattere specificamente pubblicistico, quali l’indizione di procedure ad evidenza pubblica per l’acquisizione di beni e di servizi.

[18] Concernendo, invece, specifici doveri (quelli di affidamento di lavori e servizi) che nulla hanno a che fare con “l’impresa commerciale” in sé e per sé considerata (essendo questa esercitata in regime concorrenziale e privatistico).

[19] Cfr. pag. 5 della sentenza in esame, in cui si sottolinea che “Su tale società, in questi casi, per quanto intesa come articolazione organizzativa dell’ente, ove posta in una situazione di delegazione organica o addirittura di subordinazione gerarchica, alla luce di una disamina materiale, si determina solo una responsabilità aggiuntiva (contabile) rispetto a quella comune — secondo i dettami di Cass. S.U. 26283/2013, poi ripresi dall’art.12 d.lgs. n.175 del 2016 — ma senza il prospettato effetto di perdere l’applicazione dello statuto dell’imprenditore. “

 

[20] Ibidem, la Corte specifica che “Le norme speciali volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non possono dunque incidere — come parimenti notato in dottrina – sul modo in cui essa opera nel mercato, né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell’affidamento di terzi contraenti contemplate dalla disciplina civilistica. Sul punto già Cass. 21991/2012 aveva precisato che, ai fini dell’esclusione di una società mista dal fallimento, non è di per sé rilevante la soggezione al potere di vigilanza e di controllo pubblico, che consista nella verifica della correttezza dell’espletamento del servizio comunale svolto, riguardando, pertanto, la vigilanza l’attività operativa della società nei suoi rapporti con l’ente locale o con lo Stato, non nei suoi rapporti con i terzi e le responsabilità che ne derivano. Il sistema di pubblicità legale, mediante il registro delle imprese, determina invero nei terzi un legittimo affidamento sull’applicabilità alle società ivi iscritte di un regime di disciplina conforme al nomen juris dichiarato, affidamento, che, invece, verrebbe aggirato ed eluso qualora il diritto societario venisse disapplicato e sostituito da particolari disposizioni pubblicistiche.”

 

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