Fallimento e interruzione del processo civile: termine per riassumere e “conoscenza legale”

Nota a Tribunale di Reggio Emilia, sez. II civile, sentenza n. 903 del 14.9.2017, Giudice: Dott. Morlini

Sommario: 1 Il caso. – 2. L’interruzione automatica. – 3. La Corte Costituzionale e la conoscenza “legale” – 4. Conclusioni.

1. Il caso in esame

La sentenza in commento (n. 903 del 14.09.2017) resa dal Tribunale di Reggio Emilia  affronta, in maniera chiara e sistematica, un tema assai rilevante nella quotidianità di processi: quello delle conseguenze dell’intervenuto fallimento di una delle parti in causa, in special modo in caso di volontà alla prosecuzione del giudizio.

Invero, nel caso in esame, una delle due società in lite veniva colpita dalla declaratoria di fallimento da parte del Tribunale di Macerata, circostanza che veniva allegata in causa e sulla cui base veniva dichiarato interrotto il processo.

Allorquando venne dato nuovo impulso alla continuazione del giudizio, ecco venire sollevata l’eccezione di tardività rispetto al termine decadenziale di cui all’art. 305 c.p.c.

Come è evidente, i rapporti tra le conseguenze del fallimento in capo a una parte in causa e gli aspetti prettamente procedurali che involgo anche l’altra parte sono ben più complessi di quello che, all’apparenza, le norme potrebbero mostrare.

A conferma di ciò, la questione e la corretta interpretazione delle disposizione di legge sono state, nel tempo, oggetto di analisi da parte della dottrina nonché di copiosa giurisprudenza, anche da parte della Corte Costituzionale.

Giova sul tema ricordare le norme deputate alla regolamentazione della fattispecie concreta:

  • da un lato vi è l’art. 43 L.F. (rubricato “Rapporti processuali”), secondo cui “1. Nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore.
    2. Il fallito può intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico o se l’intervento è previsto dalla legge.
    3. L’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo…
    ”,
    che per l’appunto detta la disciplina per le conseguenze del fallimento nei giudizi pendenti;
  • dall’altro assume rilievo l’art. 305 c.p.c. (“Mancata prosecuzione o riassunzione”), per il quale “Il processo deve essere proseguito o riassunto entro il termine perentorio di tre mesi dall’interruzione, altrimenti si estingue”,
    che dunque pone precisi limiti temporali volti anche ad assicurare una corretta gestione del processo.

Orbene, innanzi all’apparente linearità delle norme ritrascritte, la loro applicazione e, soprattutto, la loro coordinazione trovano più di una difficoltà.

2. L’interruzione automatica

Come correttamente rileva il Giudice, occorre muovere anzitutto dalla normativa fallimentare, in particolare dal comma terzo.

Essa è correttamente qualificata come norma speciale e derogatoria della disciplina generale di cui all’art. 300 c.p.c..

La principale differenza risiede nel fatto che mentre la normativa codicistica, così come comunemente interpretata, prevede che l’evento interruttivo (e.g. morte della parte) possa determinare la dichiarazione di interruzione solo nel caso in cui il procuratore della parte medesima ne faccia apposita dichiarazione, l’art. 43 citato ha introdotto – grazie alla modifica ex D. Lgs. 5/2006 – un automatismo che sottrae la facoltà di allegazione alla parte stessa per rendere l’interruzione operante ipso iure.

Prima della ricordata novella non era previsto alcun effetto interruttivo automatico, tale per cui non poteva che trovare applicazione la disciplina prevista dal codice di procedura civile, ma ciò provocava occasioni di ritardo nei tempi di definizione del processo in un ambito attenzionato dal Legislatore[1].

Anche con tale scopo, si è dunque optato per l’interruzione automatica[2].

Ma proprio sottolineando questo spirito innovatore, le prime interpretazioni tendevano a valorizzare oltremodo l’automaticità, fino a ritenere rilevante per il prodursi dell’interruzione la semplice e pura acquisizione della notizia del fallimento[3].

Diretta conseguenza era che il termine per la riassunzione del processo automaticamente interrotto (pari a sei mesi, poi ridotti a tre con la L. 69/2009) iniziasse a decorrere addirittura dalla data di annotazione della sentenza dichiarativa di fallimento nel registro delle imprese.

Tuttavia, tale impostazione soffriva di possibili distorsioni pratiche, financo con profili di incostituzionalità.

3. La Corte Costituzionale e la conoscenza “legale”

Ha infatti trovato occasione di pronunciarsi il Giudice delle Leggi, mediante una decisione interpretativa di rigetto, ritenendo che “Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, la q.l.c. dell’art. 305 c.p.c., censurato, in riferimento agli art. 3, 24 e 111, comma 2, cost., nella parte in cui fa decorrere dalla data dell’interruzione del processo per intervenuta dichiarazione di apertura di fallimento ex art. 43, comma 3, della l.fall., e non dalla data di effettiva conoscenza dell’evento interruttivo, il termine per la riassunzione del processo ad opera di parte diversa da quella dichiarata fallita (ovvero diversa dai soggetti che comunque hanno partecipato al procedimento per la dichiarazione di fallimento).

Premesso che, secondo gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale (tra cui sent. 159/1971, ndr) in materia di interruzione del processo civile, recepiti dalla giurisprudenza di legittimità, è da tempo acquisito il principio per cui nei casi di interruzione automatica del processo il termine per la riassunzione decorre non già dal giorno in cui l’evento interruttivo è accaduto, bensì dal giorno in cui esso è venuto a conoscenza della parte interessata alla riassunzione medesima, “la norma censurata non viola gli indicati parametri ove sia interpretata nel senso che, anche nell’ipotesi di interruzione automatica del processo per fallimento di parte costituita, fa decorrere il termine per la riassunzione, ad opera della parte interessata, dalla data di effettiva conoscenza dell’evento interruttivo” (Corte Cost. n. 17/2010).

Pertanto, in forza di una interpretazione costituzionalmente orientata della norma di cui all’art. 305 c.p.c., a seguito della interruzione automatica, comunque imprescindibile stante il tenore letterale del’art. 43 LF, il dies a quo per la riassunzione o prosecuzione è da far coincidere con il momento in cui risulti la dichiarazione, notificazione, comunicazione o certificazione dell’evento nell’ambito del processo.

Solo in tal modo, come ricordato dal Tribunale di Reggio Emilia nel caso de quo, è possibile conciliare le due esigenze che si contrappongo:

  • si ha, per un verso, l’automaticità dell’interruzione ex art. 43, comma 3 LF conseguente al fallimento,
  • e, per l’altro, la decorrenza del termine solo dalla reale conoscenza.

Diverse soluzioni, infatti, avrebbero determinato una prevalenza dell’una sull’altra, ad esempio ove il termine fossa stato fatto decorrere dalla pronuncia fallimentare, cui non consegue immediatamente una conoscenza completa della cause pendenti da parte del Curatore, con conseguenze sua “incolpevole” inerzia ed estinzione del processo.

Oppure ove fosse stata ritenuta necessaria e obbligatoria la declaratoria di interruzione benché non più subordinata all’allegazione della parte colpita, in tal modo abrogando de facto la previsione fallimentare di automaticità.

Giova ricordare anche un’altra pronuncia di merito (Tribunale di Asti, Sez. Lav., 18.05.2015), che ha il merito di fornire un ulteriore tassello logico-giuridico alla sostenibilità di una tale impostazione ermeneutica.

Non può infatti essere dimenticato che la disciplina di cui alla novella, in deroga agli artt. 299 e ss. c.p.c., “è volta a cristallizzare la situazione patrimoniale dell’impresa fallita al fine di permettere al curatore di formulare le opportune valutazioni riguardo alla gestione fallimentare ed evitare la prosecuzione di processi che darebbero luogo a titoli la cui efficacia sarebbe di difficile determinazione.

Non bisogna, infatti, dimenticare che la riforma della legge fallimentare ha introdotto il principio della liquidazione riallocativa dell’azienda disciplinando l’istituto del programma di liquidazione (art. 104 ter l.f.), quale strumento di programmazione della liquidazione dell’attivo fallimentare nel quale rientrano anche le azioni processuali da intraprendere o proseguire ovvero l’opportunità di costituirsi in giudizio”.

Infatti, la ratio della norma deve essere letta nel più complesso quadro innovativo di cui al D. Lgs. 5/2006 al fine di coglierne l’unicità di indirizzo.

Orbene, posti tali principi, essi devono essere ora giocoforza coniugati nel concreto, ovverosia ci si deve interrogare in merito alla realizzazione effettiva della “conoscenza legale”.

La giurisprudenza è granitica nell’affermare che la conoscenza, per assumere un quid ulteriore e potersi considerare quindi come “legale” (e non solo “di fatto”), deve essere determinata e risultare da una dichiarazione nel processo o dalla notificazione, comunicazione o certificazione dell’evento con riferimento a quello specifico processo (si cfr. Cass. n. 27165/2016, n. 5650/2013, nonché Trib. Roma 02.04.2014).

È di tutta evidenza come ciò comporti una allegazione qualificata e specifica dei fatti, ovverosia tanto l’intervenuto fallimento quanto la pendenza del tal lite, e, allo stesso tempo, consente di coniugare le esigenza del giusto processo con (anche) il diritto di difesa[4].

Nel caso di cui alla sentenza in commento, il Tribunale ha inoltre ricordato i principi di cui a Cass. 6331/2013, per cui il procuratore della parte dichiarata fallita è obbligato, giusta il mandato concluso (artt. 1728 e 1710 c.c.), a rendere nota alla curatela il fatto di aver dichiarato/notificato/comunicato nel processo la sentenza di fallimento.

Devono infatti coordinarsi le norme sostanziali sul mandato con quelle relative alla interruzione codicistica (per la parte qui applicabile), tale per cui la rappresentanza processuale sopravvive in capo al mandatario proprio per tutelare gli aventi causa, con obbligo in capo al primo di notiziare i secondi[5].

Proprio per tale ragione si deve ritenere che la conoscenza sia legale da tale momento, con l’effetto che è da tale giorno che iniziano a decorrere i tre mesi entro cui riassumere o proseguire il giudizio.

4. Conclusioni

In conclusione, il Tribunale ha reso una sentenza congruamente motivata e richiamando i principi di cui sopra ha dichiarato tardivo il ricorso in riassunzione in quanto depositato dopo tre mesi ed un giorno dalla conoscenza legale, derivante appunto dalla dichiarazione del difensore e non dalla (successiva e formale) declaratoria di interruzione.

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[1] Così Massimo Ferro (a cura di), in La legge fallimentare – commentario teorico-pratico, 2014, sub. art. 43, § 41.

[2] Ibidem, ivi Caiazzo e Ronco.

[3] Pajardi-Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, 2008, § 8, pag. 293.

[4] Prosegue l’ordinanza del Tribunale di Asti citata che “È chiaro, infatti, che far decorrere il termine dalla data della sentenza dichiarativa di fallimento ovvero dalla sua annotazione nel Registro delle Imprese porterebbe all’ammissione del principio per cui l’organo fallimentare dovrebbe subire passivamente l’estinzione del giudizio, oltre che un contrasto con quanto statuito dalle sentenze della Corte Costituzionale testé citate

[5] Secondo Css. 5650/2013, “incombe sulla pare che eccepisca l’intervenuta decadenza della riassunzione o prosecuzione dimostrarne l’intempestività”. Sul tema, anche Trib. Milano n. 12948/2014

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