Esterovestizione: criteri per l’individuazione della residenza fiscale delle società

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23707/2025 (clicca qui per consultare il testo integrale della decisione), offre un’importante occasione per fare il punto sul controverso tema dell’esterovestizione societaria. La pronuncia si inserisce nel solco di un consolidato orientamento giurisprudenziale, sia nazionale che unionale, volto a contrastare i fenomeni di abuso del diritto, ma al contempo a salvaguardare la libertà di stabilimento garantita dai Trattati UE. La questione centrale, affrontata con estrema chiarezza dai Giudici di legittimità, riguarda i criteri per l’individuazione della residenza fiscale di una società formalmente localizzata all’estero, ma sospettata di avere in Italia la propria sede effettiva. Per un approfondimento su questi temi, segnaliamo il volume “Come cancellare i debiti fiscali”, acquistabile cliccando su Shop Maggioli o su Amazon.

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Il caso

La controversia trae origine da un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, con cui veniva contestata la natura fittizia della sede legale in uno Stato estero (Portogallo) di una società di navigazione. Secondo l’Amministrazione finanziaria, la sede effettiva della società si trovava in Italia, presso gli uffici di altre società italiane riconducibili a due fratelli, ritenuti i reali proprietari e amministratori di fatto.

L’Agenzia delle Entrate, qualificando la società come esterovestita e quindi fiscalmente residente in Italia ai sensi dell’art. 73, comma 3, del TUIR, emetteva diversi avvisi di accertamento per recuperare a tassazione imposte dirette e IVA. Il contenzioso vedeva i contribuenti soccombere in primo grado. La Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado, tuttavia, riformava integralmente la decisione la quale escludeva l’ipotesi di esterovestizione. I giudici di merito ritenevano che la società portoghese avesse una reale e radicata operatività al di fuori del territorio italiano, con una propria autonomia gestionale e organizzativa.

L’Agenzia delle Entrate proponeva quindi ricorso per Cassazione, lamentando, tra i vari motivi, la violazione dell’art. 73 del TUIR e un’errata valutazione dei criteri per l’identificazione della residenza fiscale.

La decisione della Suprema Corte

La Cassazione, con la sentenza in commento, ha rigettato integralmente i ricorsi dell’Agenzia delle Entrate, confermando le conclusioni della Corte d’appello. Il cuore del ragionamento dei Giudici di legittimità risiede nell’applicazione dei principi consolidati in materia di esterovestizione, letti in chiave di coerenza con il diritto dell’Unione Europea.

Il principio affermato

La Corte ha ribadito che, per contestare la residenza fiscale di una società, non basta individuare il luogo da cui provengono gli impulsi gestionali. È necessario, invece, dimostrare che l’insediamento estero costituisca una costruzione artificiosa, priva di effettività economica e finalizzata esclusivamente a eludere il fisco nazionale.

La scelta di stabilire la sede in uno Stato membro che offra una legislazione fiscale più vantaggiosa non integra, di per sé, un abuso della libertà di stabilimento garantita dal diritto europeo.

Il metodo di accertamento

Secondo la Corte, l’accertamento non può ridursi a un approccio “atomistico”, incentrato soltanto sulla figura degli amministratori di fatto. Occorre invece una valutazione complessiva e olistica degli elementi concreti che dimostrino la genuinità e la sostanza economica dell’attività svolta all’estero.

È proprio su questo punto che i giudici di legittimità hanno valorizzato la ricostruzione operata in appello, ritenuta approfondita, coerente ed esaustiva.

Gli elementi di effettività riscontrati

La sentenza impugnata aveva accertato la sussistenza di un radicamento reale della società in Portogallo, sulla base di una serie di elementi fattuali significativi:

  • sede operativa effettivamente utilizzata nello Stato estero;

  • due rimorchiatori impiegati per attività di traino di natanti e assistenza a piattaforme petrolifere;

  • 52 dipendenti di diverse nazionalità, con contratti di lavoro, organigrammi e mansionari depositati in giudizio;

  • formazione del personale svolta all’estero, con esami sostenuti per gli imbarchi;

  • riunioni del CdA e dell’assemblea sempre svolte presso la sede estera, come provato dalla relativa documentazione;

  • remunerazione del Presidente del CdA corrisposta in Portogallo, con pagamento delle imposte tramite istituto di credito locale.

La qualificazione giuridica

Sulla base di tali elementi, i giudici hanno concluso che la società presentava un insediamento effettivo e svolgeva una attività economica reale, non riconducibile a una semplice “casella postale” o a uno schermo formale.

In altre parole, l’organizzazione societaria aveva un radicamento sostanziale in Portogallo, con strutture, personale e operatività concreta, tali da escludere ogni ipotesi di esterovestizione artificiosa.

Conclusioni

La sentenza n. 23707/2025 rappresenta un’importante conferma della necessità di un approccio fondato sulla prevalenza della sostanza sulla forma nell’analisi dei fenomeni di esterovestizione. La Corte lancia un chiaro monito contro l’applicazione di presunzioni e automatismi: la presenza dei soci o degli amministratori di fatto in Italia non è un elemento di per sé sufficiente a determinare la residenza fiscale della società nel nostro Paese, se a ciò non si accompagna la prova, a carico dell’Amministrazione finanziaria, dell’assenza di una reale e concreta struttura operativa nello Stato estero. La decisione, pertanto, offre un fondamentale punto di riferimento per gli operatori del diritto e per le imprese che operano in un contesto internazionale, rafforzando la certezza del diritto e ponendo un argine a interpretazioni eccessivamente estensive della norma antielusiva che potrebbero indebitamente limitare la libertà di stabilimento.

Esterovestizione societaria: la decisione in sintesi

Ecco infine una pratica e breve checklist per orientarsi nell’applicazione dei principi affermati dalla Sezione Tributaria della Cassazione con la sentenza n. 23707/2025.

Che cos’è l’esterovestizione societaria?

È il fenomeno per cui una società, pur avendo la sede legale all’estero, mantiene in Italia la propria sede effettiva, ossia il luogo di direzione e gestione principale. In tali casi, la società è considerata fiscalmente residente in Italia ai sensi dell’art. 73, comma 3, TUIR.

Quando l’Amministrazione finanziaria può contestare la residenza estera di una società?

Solo quando riesca a provare che la localizzazione all’estero è una costruzione artificiosa, priva di effettività economica e finalizzata unicamente a eludere il fisco nazionale.

La scelta di uno Stato a fiscalità più vantaggiosa è di per sé abuso del diritto?

No. La Cassazione ribadisce che la libertà di stabilimento garantita dal diritto UE consente di scegliere uno Stato con regime fiscale favorevole, purché vi sia un radicamento economico reale.

Quali elementi provano la sostanza economica di una società estera?

Strutture operative, personale dipendente, mezzi strumentali, attività di formazione e riunioni degli organi sociali svolte effettivamente all’estero, oltre al pagamento locale di imposte e retribuzioni.

Qual è il principio di diritto affermato dalla sentenza?

La mera presenza in Italia di soci o amministratori di fatto non basta a qualificare la società come esterovestita. Occorre invece un accertamento complessivo che dimostri l’assenza di un’effettiva operatività all’estero.

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