Con la sentenza n. 10233 del 19 maggio 2015, la sesta sezione civile della Cassazione, in tema di equo indennizzo, ha chiarito quale sia la durata ragionevole delle procedure fallimentari e quando sia dovuto il pagamento del danno non patrimoniale per irragionevole durata del fallimento.
La Suprema Corte ha ribadito che, in conformità ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la durata ragionevole delle procedure fallimentari può essere stimata in cinque anni per quelle di media complessità, ed è elevabile fino a sette anni allorquando il procedimento si presenti notevolmente complesso.
A tal riguardo, la Cassazione ha chiarito che si possono considerare “complesse” le procedure fallimentari caratterizzate dalla presenza di un numero elevato di creditori, da una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi ecc.), dalla proliferazione di giudizi connessi alla procedura, ma autonomi e quindi a loro volta di durata condizionata dalla complessità del caso, oppure dalla pluralità delle procedure concorsuali interdipendenti (v. Cass. n. 8468 del 2012).
Ebbene, nel caso di specie, i creditori ricorrenti avevano chiesto la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento del danno non patrimoniale derivato dalla irragionevole durata della procedura concernente il fallimento della ditta debitrice, iniziato oltre 16 anni prima e non ancora concluso. Discostandosi dal predetto orientamento, la Corte d’appello aveva tuttavia considerato ragionevole la durata di nove anni per via della “complessità del caso”, ritenendo indennizzabile un ritardo di 14 anni.
Accertata dunque la irragionevole durata della procedura fallimentare in anni 16 (eccedenti i 7 previsti per procedure fallimentari di particolare complessità quale quella in oggetto, stante l’altissimo numero di domande di ammissione allo stato passivo e la pluralità di azioni giudiziarie intraprese nell’interesse del fallimento per il recupero di crediti), la Corte di legittimità ha accolto il ricorso condannando il Ministero della giustizia al pagamento, in favore di ciascuno dei ricorrenti, della somma di € 8.000,00.
Quanto alla somma liquidata, la Suprema Corte ha inoltre rilevato che nel caso di specie doveva ritenersi esclusa la diretta applicabilità della nuova normativa di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, la quale prevede che l’indennizzo non possa superare il valore della causa in relazione alla quale viene chiesto, trattandosi di ricorso depositato prima dell’entrata in vigore della legge di conversione. In siffatte circostanze, infatti, “la maggiore o minore entità della posta in gioco può incidere sulla misura dell’indennizzo, consentendo al giudice di scendere anche al di sotto della soglia minima (Cass. n. 12937 del 2012), ma non anche di parificare la liquidazione al valore della causa in cui si è verificata la violazione“.
(Corte di Cassazione, Sesta sezione civile, Sentenza n. 10233 del 19 maggio 2015)