Effetti della risoluzione del concordato preventivo per grave inadempimento

in Giuricivile, 2020, 6 (ISSN 2532-201X), nota a Trib. Campobasso, Sez. Fall., 17/06/2019 n. R.G. 10/2019, Pres. Dr.ssa Laura Scarlatelli, Rel. Dr.ssa Rosa Napolitano

Si analizzano i problemi posti dalla disciplina della risoluzione del concordato preventivo. A tale proposito, è utile evidenziare come la risoluzione del concordato debba far seguito ad una valutazione d’insieme degli interessi della massa dei creditori, da compiere avendo riguardo alla tenuta complessiva dell’accordo, senza limitarsi ad un esclusivo riferimento dell’interesse del singolo creditore istante.

Il caso in breve

Il provvedimento del tribunale molisano, in quest’occasione, è chiamato ad esaminare un’azione di risoluzione di un concordato preventivo con continuità aziendale, con contestuale richiesta di declaratoria di fallimento, proposte da due creditori concordatari.

Da un lato, i ricorrenti deducono un grave inadempimento della proposta, soprattutto in ordine al mancato rispetto del timing concordatario riguardante sia l’impossibilità di pagamento dei creditori chirografari che l’integrale pagamento dei creditori privilegiati.

Di contro, la società in concordato, ha sollevato delle eccezioni contestando la natura dei crediti istanti (secondo cui i due creditori istanti sarebbero da qualificare come chirografari e non come privilegiati).

Allo stesso modo, nel giudizio sono risultate non pertinenti le eccezioni sollevate dalla società in concordato in merito ad un presunto ritardo degli organi della procedura nel compimento delle attività di liquidazione.

Gli eccepiti profili di ritardo nell’attività di liquidazione, laddove in concreto sussistenti, non inciderebbero in alcun modo sulla natura dell’inadempimento rilevante ex. art. 186 legg. fall. che, in quanto meramente oggettivo, prescinde dai profili di colpa non solo del debitore ma anche del liquidatore.

Da ciò è derivata, dopo le opportune verifiche in merito alla sussistenza dei presupposti, alla contestuale dichiarazione di fallimento della società.

Inquadramento normativo e giurisprudenziale

Il provvedimento in commento, offre l’opportunità di una rilettura, anche alla luce dei recenti dibattiti dottrinali e giurisprudenziali, sulla definizione di inadempimento di non “scarsa importanza” da una parte, e sul rapporto esistente tra la risoluzione della proposta di concordato preventivo e successiva dichiarazione di fallimento, dall’altra.

Il punto di partenza dell’analisi non può prescindere da una rigogliosa ricognizione in merito all’attuale “stato dell’arte”. Difatti, nel corso degli anni, si è assistito a una volontà riformatrice del legislazione che ha interamente mutato le finalità dell’istituto del concordato preventivo, canalizzandolo sempre più al favor della continuità aziendale[1].

ll modello di concordato preventivo introdotto dalla c.d. “Miniriforma” del 2005 aveva chiara ispirazione al primato della negozialità, tuttavia tale principio appare oggi superato. Con lo sguardo rivolto ai format giuridici d’Oltreoceano, si auspicava che la migliore soluzione della crisi dovesse sortire dall’incontro delle volontà negoziali del debitore e dei creditori: di qui la previsione della natura – in potenza – proteiforme del piano concordatario e la prospettazione di differenti modalità di soddisfazione dei crediti, ivi compresa la falcidia dei crediti privilegiati, poi esplicitata dal D.Lgs. “correttivo” del 12 settembre 2007, n. 169[2].

Si vengono a costruire in tale ambito, nuove opportunità, potendo modellare la propria proposta[3]  di concordato ai creditori in funzione delle proprie esigenze imprenditoriali, spaziando tra diverse soluzioni che si distaccano dagli schemi tradizionali, prima fra tutte quella della cessio bonorum, che sino ad oggi ha fatto da padrona.

Qualsiasi sia la proposta offerta ai creditori, il piano che la supporta deve essere realizzabile e gli obblighi assunti devono essere soddisfatti.

Difatti, nella fase esecutiva, che inizia con l’omologazione della procedura ex. art. 180 l.f., il debitore o il liquidatore devono porre in essere tutte quelle operazioni che permettano di pervenire all’adempimento del “patto concordatario”, attribuendo ai creditori quanto nella proposta è stato previsto.

Nel caso contrario, in cui la procedura venga meno alla sua funzione di rimuovere l’insolvenza, il creditore ha diritto, alle condizioni indicate nell’art. 186 l.f., di chiedere al Tribunale che esso venga risolto.

Tale disciplina, ha portato, a seguito della profonda revisione dell’impianto generale dell’istituto, un’inevitabile riscrittura dell’articolo 186[4],  andiamone ad analizzare le principali problematiche.

I profili procedimentali della risoluzione

Per comprendere interamente le motivazioni della Collegio, in merito al caso esaminato, è necessario proseguire per gradi e affrontare quelle che sono state negli anni le questioni poste in merito ai profili procedimentali della risoluzione.

La risoluzione del concordato preventivo non può essere chiesta dal debitore; ne sono, invece, legittimati i creditori sia privilegiati, sia chirografari, anche se rimasti esterni alla procedura[5], ed allo stesso tempo viene esclusa qualunque iniziativa del commissario o del tribunale d’ufficio[6].

Ma quale è stata la voluntati legislatoris di tale decisione? Possiamo dire che la scelta del legislatore riflette una volontà ben precisa e non deve essere lasciata al caso; infatti, così come l’approvazione del concordato è rimessa ai creditori (tanto che in sede di omologazione il tribunale non può più sovvertire l’esito favorevole della votazione né sulla scorta della non meritevolezza del debitore, né su quella della diversa fattibilità economica del piano[7]) così la risoluzione del concordato può essere dichiarata solo nell’eventualità in cui l’istanza provenga da uno o più creditori.

Queste considerazioni, oltre ad escludere non solo la legittimazione di soggetti terzi diversi dai creditori, estromette anche la possibilità per il debitore, preso atto del proprio inadempimento, di rinunciare agli effetti esdebitatori ex art. 184[8], infatti, il decreto di omologazione ha impresso all’impresa tornata in bonis una direzione che soltanto i creditori sono in grado di invertire attraverso, appunto, l’azione di risoluzione loro riservata, senza che vi sia spazio per atteggiamenti abdicativi da parte del debitore, invece sempre possibili fino all’omologazione.

In relazione al momento a partire dal quale i creditori possono ottenere la risoluzione, la formulazione dell’art. 186 rende manifesta la necessaria sussistenza di un inadempimento già in essere all’epoca in cui viene radicata l’azione, non essendo sufficiente la probabilità, neppure se alquanto elevata, che gli obblighi concordatari non vengano onorati.

In linea di principio, pertanto, non è configurabile la risoluzione del concordato preventivo ante tempus rispetto alla scadenza stabilita per l’adempimento. Solo nell’ipotesi, piuttosto rara nella pratica, di conclamata e irreversibile impossibilità di adempiere da parte del debitore (si pensi alla distruzione dei beni aziendali per caso fortuito e all’assenza di adeguate coperture assicurative) una domanda di risoluzione anticipata potrebbe essere considerata ammissibile e meritevole di accoglimento.

Oltre alle verifiche in tema di legittimazione viene imposta, in via pregiudiziale, la verifica in merito alla tempestività della domanda. Di fatti, la domanda per la risoluzione del concordato preventivo va avanzata “entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto dal concordato” [9](art. 186, comma 3, l.fall.).

Partendo da tali accezioni è semplice constatare che se nel piano concordatario è stata prevista una puntuale scansione temporale, secondo la quale verranno adempiuti gli atti validi al soddisfacimento dei creditori, quest’ultimi non potranno appellarsi alla procedura prevista dall’art. 186 l.f. sino alla scadenza del termine.

Inoltre, fissando il dies a quo con riferimento all’ultimo adempimento, invece che all’ultimo pagamento[10], il legislatore ha voluto adeguare la disciplina della risoluzione alle nuove caratteristiche del concordato, che può prevedere il soddisfacimento anche con modalità diverse di pagamento[11].

In base alla nuova formulazione dell’art. 161, comma 2, lett. e) come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, il piano deve indicare i tempi di adempimento della proposta; quando ciò non accada, è opportuno ricordare che nel regime antecedente, la giurisprudenza riteneva che, ove non fossero stati indicati i tempi di esecuzione del concordato, il termine annuale per la proposizione dell’azione di risoluzione decorresse dall’ultimo atto esecutivo e, nel caso di concordato per cessioni di beni, dall’esaurimento delle operazioni di liquidazione, che presupponevano non soltanto la vendita dei beni, ma anche la predisposizione e comunicazione del piano di riparto con i conseguenti effettivi pagamenti[12].

Il giudizio introdotto con la domanda di risoluzione, in forza del rinvio all’art. 137, sarà svolto nella forma del rito camerale previsto all’art. 15 per l’istruttoria prefallimentare. Il provvedimento con il quale il tribunale risolve il concordato avrà forma di sentenza.

Differenza tra proposta e piano: rilevanza ai fini della risoluzione

La fattibilità rappresenta un requisito sostanziale del piano come stabilisce l’art. 161 l.fall. e dunque è decisivo compiere un confronto fra il piano e la proposta anche ai fini della rilevanza in tema di risoluzione.

Nell’art. 160 l.fall. si fa riferimento sia alla proposta che al piano e spesso, nell’analisi di questa disposizione, si finisce col sovrapporre e confondere i due concetti che vanno fra loro tenuti ben distinti benché anche coordinati[13].

In particolar modo, la proposta consiste sostanzialmente nel contenuto negoziale del concordato, mentre il piano ha la diversa funzione di illustrare la descrizione analitiche delle modalità e dei tempi con cui verrà adempiuta la proposta[14].

Nella formulazione della proposta il debitore è ormai svincolato dai rigidi schemi, salvo i limiti di cui all’art. 160, secondo comma, l.fall.[15] (che riguardano il trattamento dei creditori privilegiati).

Per valutare in sede di risoluzione se vi sia o meno inadempimento bisogna avere riguardo non al piano, ma alla proposta ed agli impegno che il debitore assume con la stessa, anche se nella maggior parte dei casi tale distinzioni non avrà effetti concreti. Atteso che l’inadempimento il più delle volte riguarderà sia le azioni programmate che i risultati da conseguire e quindi sia il piano che la proposta[16].

Così, ad esempio, nel caso osservato, la dismissione dei beni immobili da liquidare, è lo strumento del piano, e costituisce il percorso operativo attraverso cui il debitore avrebbe dovuto adempiere all’obbligo assunto con la proposta, sia in relazione al pagamento dei creditori privilegiati che chirografari.

Per cui, nell’ipotetico caso in cui il debitore, abbia provveduto all’osservanza del piano mettendo a disposizioni i propri beni, nonostante la liquidazione non sia stata realizzata una somma adeguata per pagare le percentuali promesse nella proposta concordataria, questo non costituisce motivo di impedimento di risoluzione (nel caso di specie era prevista una soddisfazione monetaria e quindi è stato valutato se la percentuale promessa sia stata pagato o meno).

Partendo da tali assunti, la violazione del piano non determina la risoluzione del concordato se il debitore è comunque in grado di soddisfare i temi della proposta[17].

In termini assai dissimili, sarebbe stata l’ipotesi in cui la proposta avrebbe previsto l’attribuzione ai creditori di beni di altra natura, non venendosi a configurare nessuna promessa di pagamento. In tal caso, il concordato sarebbe da ritenersi adempiuto nel momento in cui il debitore abbia assicurato ai debitori la disponibilità materiale e giuridica dei beni promessi, quale che sia il loro valore di mercato[18].

L’inadempimento come causa di risoluzione

La risoluzione del concordato trova ancora, il suo indefettibile presupposto nell’inadempimento.

L’art. 186 l.fall., difatti, prevede che  “il concordato non si possa risolvere se l’inadempimento ha scarsa importanza”, risulta quindi necessario procedere a una valutazione dell’inadempimento nella sua dimensione e consistenza.

A tale proposito un concetto che si viene a richiamare per la valutazione dell’inadempimento è l’articolo 1455 del Codice Civile riguardante la risoluzione contrattuale.

Tale valutazione viene compiuta alla stregua di un duplice criterio: in primo luogo, il giudice, applicando un parametro oggettivo, deve verificare che l’inadempimento abbia inciso in maniera apprezzabile nell’economia complessiva del rapporto sì da dar luogo ad uno squilibrio sensibile del sinallagma contrattuale; nell’applicare il criterio soggettivo, invece, il giudicante deve considerare il comportamento di entrambe le parti che può, in relazione alla particolarità del caso, attenuare il giudizio di gravità[19].

Vi è, a tale proposito, chi sostiene[20] che sotto il profilo oggettivo, è ineseguibile compiere un’analisi che tenga conto degli elementi che costituiscono il contratto per la mera ragione che un contratto non esiste all’interno di un procedimento di concordato preventivo. Tuttavia, all’interno della procedura vengono a svilupparsi molteplici obbligazioni derivanti dal piano concordatario che riguardano i singoli creditori, sicché l’unica constatazione che va effettuata nel procedimento di delibera, è quella di comprendere se in ragguaglio a quella singola obbligazione, fatta valere nel procedimento di risoluzione, l’inadempimento sia o meno di scarsa importanza.

Sulla scia di tali considerazioni la giurisprudenza[21] formatasi in materia di risoluzione del concordato preventivo ha sentenziato che, in definitiva, il grave inadempimento, diviene sia presupposto sostanziale per l’accoglimento della domanda sia presupposto di ammissibilità̀ dell’istanza, nel senso di tradursi in una doppia verifica: a) prima che il grave pregiudizio sia affermato ed effettivamente subito da chi agisce per la risoluzione del concordato (c.d. prius); b) poi che un detto pregiudizio riguardi in modo esiziale le stesse obbligazioni discendenti dall’omologazione del concordato, nel senso di riflettersi sull’equilibrio e sul fondamento dell’impianto obbligatorio così come ridisegnato dall’accettazione e successiva omologa del concordato (c.d. posterius).

Bisognerà, pertanto chiedersi rispetto a cosa vada valutata l’importanza dell’adempimento, se in relazione all’intera massa dei creditori concordatari ovvero in relazione all’interesse del singolo creditore istante.

Per saggiare appieno l’importanza della problematica, si riporta il seguente esempio, teorizzato da un noto giurista[22] (che probabilmente nella pratica non si verificherà mai): concordato con 100 creditori, di cui 99 pagati integralmente secondo il piano, nel mentre ad un creditore portatore di un piccolissimo e modestissimo credito non è stato corrisposto neppure un euro.

È chiaro, infatti, che se come parametro si prende in considerazione l’adempimento del concordato nel suo complesso, la domanda dev’essere sicuramente respinta. Al contrario, se la valutazione viene effettuata rispetto al credito di quel singolo creditore, si deve pervenire alla conclusione che l’inadempimento c’è ed è grave perché il debitore non ha adempiuto neppure in parte a quella singola obbligazione[23].

Pertanto, il tribunale dovrà procedere a una valutazione complessiva delle eventuali ricadute che la risoluzione avrà sull’intero ceto creditorio, per cui l’inadempimento sarà valutato di “non scarsa importanza” nel caso in cui si venga a compromettere il funzionamento complessivo della procedura (nel caso di specie tale considerazioni sono venute meno in virtù del fatto che il debitori non ha provveduto nemmeno in minima parte, a soddisfare i creditori chirografari e privilegiati, per cui si può facilmente comprendere come l’interesse riguardi l’intero ceto creditorio e non i singoli creditori che hanno agito per la risoluzione).

Segue. Il rispetto del timing concordatario

Proprio il profilo temporale, nel caso di specie esaminato, rappresenta un ulteriore elemento di verifica oggettivo dell’inadempimento. Proviamo a effettuare qualche considerazione su questo elemento di ragguaglio.  Difatti, post -riforma i tempi di esecuzione del concordato preventivo hanno acquisito con il tempo un peso rilevante; ragion per cui il debitore è tenuto ad indicare nel piano come stabilito dall’articolo 161, comma 2 lettera e) L.F.)  “la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta”[24].

Ciò si spiega con la considerazione che il consenso della proposta del debitore interviene attraverso il meccanismo del voto nell’ambito di una platea di soggetti che non hanno scelto volontariamente di assoggettare i loro diritti di credito al volere della maggioranza, il cui potere incontra quindi dei limiti legali imposti, posti a tutela della minoranza non consenziente, il rispetto dei quali è condizioni di ammissibilità del concordato[25].  Tra questi limiti, secondo la giurisprudenza di legittimità, vi è quello relativo alla tempestività dell’adempimento dell’obbligazione; da qui l’inevitabile corollario secondo il quale non vi è spazio per la soluzione concordataria allorquando i tempi necessari per la liquidazione del patrimonio o il risanamento non coincidono con quelli massimi entro i quali è ragionevole posticipare il soddisfacimento dei creditori anche dissenzienti[26]. 

La risoluzione del concordato preventivo con continuità aziendale

Prima di analizzare gli aspetti che caratterizzano la risoluzione del concordato preventivo con continuità aziendale appare opportuno soffermarci brevemente sugli elementi che contraddistinguono questa fattispecie giuridica nella fase esecutiva. All’interno del concordato con continuità aziendale viene confermata la distinzione tra continuità diretta (in cui l’attività d’impresa è proseguita dallo stesso debitore) e continuità indiretta[27].

Il concordato si chiude con l’omologazione, e, gli organi della procedura cessano le proprie funzioni attive e assumono una funzione di controllo.

L’imprenditore ritrova la sua piena libera operativa e la piena capacità di compiere qualunque atto gestorio.

Ma quali le reazioni che l’ordinamento affida all’autorità giudiziaria e ai creditori in presenza di scostamenti da un piano che vincola l’impresa in fase di concordato preventivo con continuità diretta?

La risposta dipende molto dal contenuto della proposta, e su questo punto dobbiamo fare delle riflessioni. In particolare, sulla tematica c’è una ferma convinzione da parte della giurisprudenza che questa tipologie di concordato debba essere assimilato a un concordato in garanzia[28], tale per cui devono essere offerte ai creditori una percentuale vincolante. La continuità, in questa accezione, non rappresenterebbe altro che la modalità attraverso cui far fronte alla provvista concordataria necessaria per eseguirne l’adempimento. A tale proposito è utile rimarcare quanto stabilito dal Tribunale di Monza[29]: “poiché nel caso del concordato con continuità soggettiva il pagamento dei creditori deriva solitamente dagli utili della continuazione dell’attività d’impresa, il controllo del commissario non può limitarsi alla verifica del corretto adempimento della proposta, avuto esclusivo riguardo al momento in cui è previsto il pagamento dei creditori, ma può e deve estendersi anche al periodo precedente il termine previsto per l’adempimento, e riguardare il rispetto delle previsioni del piano e ciò in quanto un andamento della gestione disallineato, in negativo, dalle previsioni del piano, avrebbe, naturalmente, delle conseguenze dirette ed immediate sulle sorti della proposta. Il commissario deve pertanto verificare che l’andamento economico della società sia in linea con quanto previsto dal piano ed omologato dal tribunale, che non vengano compiuti atti gestionali estranei alle previsioni del piano omologato che rendano probabile, se non certo, il futuro inadempimento della proposta”

Anche qui si rende necessario effettuare una rilevante differenziazione fra proposta e piano ai fini della risoluzione. Se vi è una proposta vincolante, nel momento in cui c’è uno scostamento dal piano, rende verosimilmente o quasi certo l’inadempimento vi sono i presupposti per chiedere la risoluzione del concordato. Ma se lo scostamento dal piano porta all’adempimento della proposta concordataria e i creditori ricevano la percentuale prefissata, non c’è spazio per la risoluzione. Questo per dire che gli scostamenti sintomatici dell’inadempimento posso di per se produrre risoluzione.

Prendiamo l’ipotesi in cui l’impresa, può fare un buon affare ad esempio incremento il proprio volume di vendita attraverso l’acquisto di ramo di azienda che nel breve e medio termine va a comprimere gli utili dell’esercizio. In questa casistica, c’è un netto contrasto tra gli interessi dell’impresa e l’interesse del ceto creditorio interessati più che altro ad una gestione lucrativa nel breve periodo.

Il problema che viene ad esistere è quello di fornire ai creditori strumenti di reazione allo scostamento di un piano che non sia adempimento, per esempio prevedendo nella continuità diretta attraverso l’assegnazione di quote di capitale sociale ai creditori[30].

Si ricorda che l’art. 160, comma 1, l.fall. concede all’imprenditore in stato di crisi di presentare ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano che può prevedere la soddisfazione dei crediti attraverso operazioni straordinarie ivi compresa l’attribuzione di azioni, quote o obbligazioni convertibili in azioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito.

Gli effetti della risoluzione

Nel caso osservato, alla risoluzione del concordato, verificata la fondatezza dei relativi presupposti, si è provveduto in consecutio alla dichiarazione di fallimento della società.

Osserviamo quindi le conseguenze derivanti dalla risoluzione del concordato preventivo. Essa opera retroattivamente, facendo caducare gli effetti modificativo esdebitatori dell’accordo concordatario omologato tramite l’emanazione da parte del Tribunale del decreto ex art. 180 l.fall. anche se non potranno essere travolti gli atti legittimamente compiuti nel corso della procedura ed in esecuzione della stessa.

Per le ragioni sopra esposte, si ritiene applicabile analogicamente, anche nel caso di risoluzione di concordato preventivo l’art. 140, comma 3[31], in tema di concordato fallimentare, per cui i creditori sono esonerati dalla restituzione di quanto hanno riscosso in base al concordato risolto[32].

D’altra parte, la dichiarazione di fallimento non segue automaticamente alla risoluzione, in quanto il debitore, come visto, potrebbe tornare in bonis ed il fallimento esser dichiarato contestualmente o, invece, dopo un prolungato lasso di tempo ed i creditori dovrebbero essere ristorati dall’inutile tempo trascorso per l’esperimento del tentativo di concordato preventivo, o almeno non dovrebbero subire danni per esso. Proprio quest’ultimo aspetto, ossia il passaggio dal concordato preventivo al fallimento ha dato origine a molteplici interpretazioni giuridiche non sempre univoche. Nell’attuale sistema la risoluzione o l’annullamento del concordato determinano solo il venir meno degli effetti derivanti dall’omologazione: “La risoluzione o annullamento del concordato preventivo non provoca l’automatico fallimento del debitore, sia perché la procedura non presuppone necessariamente lo stato di insolvenza, sia perché nell’attuale disciplina la dichiarazione di fallimento non conosce più l’iniziativa ufficiosa[33].

Infatti, mentre nel caso del concordato fallimentare alla risoluzione dello stesso segue la riapertura della procedura di fallimento, nell’ipotesi del concordato preventivo, non è ipotizzabile una dichiarazione di fallimento d’ufficio[34].

Il Tribunale in questo caso sarà tenuto, a constatare la sussistenza dello stato di insolvenza ma non la qualità di imprenditore commerciale su cui il decreto di omologazione del concordato preventivo ha costituito, ormai, giudicato[35]. Quanto al requisito dell’insolvenza, quale presupposto oggettivo per l’assoggettamento dell’impresa al fallimento, il giudizio deve essere formulato sulla base di un preciso quadro normativo. Certamente, può considerarsi legittimo, l’assunto prevalente in dottrina secondo cui l’insolvenza differisce dall’inadempimento, giacché non si viene ad indicare un singolo fatto, ossia una situazione precisa, ma per l’appunto uno “status”, e cioè una condizione caratterizzata da un indiscusso stadio di stabilità.

Lo stato di insolvenza che costituisce il presupposto della dichiarazione di fallimento consiste nell’incapacità del debitore di adempiere con regolarità e tempestività alle proprie obbligazioni, condizione, sulla quale non può influire la consistenza patrimoniale del debitore[36]. Nel caso di specie, deve ritenersi che la società debitrice versi in un palese stato d’insolvenza[37], resa manifesta dal reiterato inadempimento di debiti di rilevante importo e dall’impossibilità, ormai accertata, di provvedere al relativo adempimento secondo normali modalità di pagamento.

Conclusioni

Con l’analisi svolta in questa sede, come detta in apertura, si è voluto mettere in luce i contrasti esistenti nell’attuale normativa in merito alla risoluzione del concordato preventivo.

La sentenza in commento appare in linea con le ultime disposizioni dottrinali e giurisprudenziali in merito alla risoluzione del concordato preventivo per inadempimento.
In tale contesto, la valutazione della gravità dell’inadempimento non ha presentato significativi problematiche, in quanto l’inadempimento era pressoché totale, non venendosi ad innescare eventuali conflitti fra il creditori istanti e l’altra massa di creditori.

Un aspetto che la sentenza non mette in rilievo è quello derivante dell’ammissibilità della risoluzione di un concordato preventivo quando non si provi che il fallimento possa ammettere una migliore e più celere soddisfazione ai creditori.

Appare evidente, che se dalla procedura fallimentare non si potrà ottenere alcuna situazione satisfattoria migliorativa, la risoluzione del concordato, muta la propria funzione diventando uno strumento sanzionatorio che, con l’effetto di un aggravio del passivo dovuto alle ulteriori spese di prededuzione.

La posizione del Tribunale molisano, nel complesso, appare coesa con la lettura del sistema disegnato dalle riforme che hanno interessato la disciplina della crisi di impresa a partire dal 2007, sia nell’ottica dell’ordinamento vigente, sia in una visione prospettica in base alla quale il futuro codice della crisi prevede un accesso molto più agevole per i creditori al rimedio risolutorio attraverso la sollecitazione dello stesso al commissario giudiziale[38] da parte dei creditori.


[1] In questo senso, S. Ambrosini, Il nuovo concordato preventivo alla luce della “miniriforma” del 2015, Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2015, 359.

[2] Cfr. G. Macagno, Il concordato preventivo riformato nel segno della continuità aziendale, Il Fallimento, 2016, 1074.

[3] Vacchiano, Evoluzione della proposta di concordato preventivo, Il Fallimento, 1/2011, 65.

[4] Silvestrini, La risoluzione del concordato preventivo, Il Fallimento, 5/2016, 509.

[5] Lo Cascio, Legittimazione dei creditori estranei al concordato, Il Fallimento, 7/2004,723. Risulta pacifico che il creditore anche estraneo alla procedura abbia diritto di ottenere il soddisfacimento della pretesa obbligatoria vantata, sia pure nella stessa percentuale riconosciuta agli altri creditori, resta da stabilire se la dichiarazione di fallimento successivamente al concordato preventivo debba porsi necessariamente in relazione ad una nuova insolvenza dell’imprenditore, oppure possa ancora trovare fondamento in quella stessa insolvenza che ha caratterizzato la procedura minore (nel senso che la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore successiva al concordato preventivo, in assenza di risoluzione per essere trascorso il termine dell’anno, possa essere pronunciata in relazione ad una nuova attività d’impresa si sono pronunciati: Trib. Nocera 23 luglio 1997, in Dir. fall. 1997, II, 1072; Trib. Piacenza 15 settembre 1993, Il Fallimento 1993, 1182; Trib. Lucca 18 febbraio 1988, ivi, 1988, 994; Trib. Milano 9 ottobre 1976, decr., in Giur. comm. 1977, II, 198), il problema non è tanto quello di accertare se l’insolvenza si riferisce ad obbligazioni contratte successivamente all’omologazione oppure prima, quanto di considerare che la risoluzione non può essere pronunciata quando sia scaduto il termine dell’anno, sicché´ per una nuova dichiarazione devono sussistere le condizioni oggettive e soggettive che la legittimano.

[6] C. Mancuso, Risoluzione del concordato preventivo ed abolizione del fallimento d’ufficio: la Corte Costituzionale conferma la coerenza del sistema, Il Fallimento, 2018, 20.

[7] Fabiani, Per la chiarezza di idee su proposta, piano e domanda di concordato preventivo e riflessi sulla fattibilità, Il Fallimento, 2011, 172.

[8] Frascaroli, Gli effetti del concordato preventivo per i creditori (art. 184 l. fall.), Il Fallimento, 6/2006, 1041.

[9] In questo senso, Cassazione civile, Sez. I, 20 dicembre 2011 n. 27666 pubblicata su Giust. civ. Mass. 2011, 12, 1799. Il termine per proporre il ricorso volto alla risoluzione del concordato preventivo decorre, ai sensi dell’art. 137 legge fall., dalla data di scadenza fissata per l’ultimo pagamento previsto nel concordato, mentre soltanto allorché questa data non sia stata fissata il termine annuale, entro cui può richiedersi la risoluzione del concordato, decorre dall’esaurimento delle operazioni di liquidazione che si compiono non soltanto con la vendita dei beni, dell’imprenditore, nonché con la predisposizione e comunicazione del piano di riparto, ma anche con gli effettivi pagamenti, compresi quelli conseguenti ad eventuali sopravvenienze attive.

[10] Ci riferiamo al regime precedente, l’art. 186 faceva rinvio all’art. 137, secondo cui la risoluzione non poteva essere pronunciata trascorso un anno dalla scadenza dell’ultimo “pagamento” previsto nel concordato.

[11] Cfr. A. Silvestrini, La risoluzione del concordato preventivo, Il Fallimento, 2016, 516.

[12] Cfr, Coppola, La risoluzione e l’annullamento del concordato preventivo omologato, in Didone (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, II, Torino, 2011, 1946.

[13] Cfr. Fabiani, Per la chiarezza di idee su proposta, piano e domanda di concordato preventivo e riflessi sulla fattibilità, Il Fallimento, 2011, 172.

[14] Anche F. Filocamo, L’art. 173, primo comma, l.fall. nel «sistema» del nuovo concordato preventivo, in Il Fallimento, 2009, 1473, distingue piano e proposta ma osserva che sarebbe il piano che si trasforma in proposta una volta che il tribunale dispone l’ammissione con decreto.

[15] La proposta può prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d). Il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione.

[16] Cfr. A. Silvestrini, La risoluzione del concordato preventivo, Il Fallimento, 2016, 510.

[17] In questo senso, Nardecchia, La risoluzione del concordato preventivo, Il Fallimento, 2012, 259.

[18] Cfr. A. Silvestrini, op. cit., Il Fallimento, 512.

[19] In questo senso v., fra le tante, Cass. 28 marzo 2006, n. 7083, in Impresa , 2006, 1036 e Cass. civile sez. III, 22/10/2014, n. 22346, in Giustizia Civile Massimario, 2015.

[20] Tribunale di Prato, 12 ottobre 2012, decreto inedito.

[21] Tribunale Ravenna, 07/06/2012, (ud. 07/06/2012, dep. 07/06/2012), pubblica su dejure.it

[22] Rago, La risoluzione del concordato preventivo fra passato, presente e … futuro, Il Fallimento, op.cit., 1214;

[23] Rago, op.cit., 1214;

[24] In questo senso, Cass. SS.UU. , 23/01/2013, n.1521, pubblicata su Giurisprudenza Commerciale 2013, 4, II, 621. In senso difforme rispetto a questo orientamento, Tribunale Busto Arsizio, 08/10/2019, in www.ilcaso.it, 1413 ha constatato che “il mancato rispetto del termine previsto per l’esecuzione del concordato non costituisce inadempimento che giustifichi la risoluzione del concordato quando l’andamento positivo della liquidazione consente di ipotizzare, in chiave prospettica, che il piano troverà concreta attuazione”.

[25] Silvestrini, op.cit.,  La risoluzione del concordato preventivo, Il Fallimento, 5/2016, 509.

[26] Cfr., al riguardo, Zanichelli, Sindacato del tribunale sui tempi di esecuzione del concordato preventivo, Il Fallimento, 2015, 823.

[27] Brogi, Il concordato con continuità aziendale nel codice della crisi, Il Fallimento, 7/2019, 845.

[28] In particolare, Lo Cascio, L’esercizio dell’impresa nel concordato preventivo, Fall. 1999, 725.

[29] Tribunale di Monza, 13 febbraio 2015. Estensore Nardecchia pubblicato su www.ilcaso.it.

[30] In tal senso si veda, Tribunale di Reggio Emilia, decreto 16 aprile 2014, pubblicato su www.ilcaso.it.

[31] L’art. 140, comma 3, legge fallimentare prevede: “I creditori anteriori conservano le garanzie per le somme tuttora ad essi dovute in base al concordato risolto o annullato e non sono tenuti a restituire quanto hanno già riscosso”.

[32] In senso contrario, nel caso in cui non siano state rispettate nei pagamenti le cause legittime di prelazione, Cass. 3 agosto 2007, n. 17059, Il Fallimento, 2008, 358: “in materia di risoluzione del concordato preventivo si applica il principio per cui gli obblighi di restituzione posti dall’art. 140 a carico dei creditori consecutivo ogni qual volta non vi sia stata salvezza, nei pagamenti attuali in costanza della procedura concorsuale minore, delle cause legittime di prelazione, per cui deve confermarsi la pronuncia del giudice di merito che, per cui deve confermarsi la pronuncia del giudice di merito che, sul presupposto che alla banca creditrice chirografaria era stato effettuato un pagamento senza che prima fosse stato soddisfatto il credito privilegiato dell’Inps, aveva contattato il creditore accipiens alla restituzione in favore del fallimento di quanto riscosso”.

[33] Cass. SS.UU. 15.05.2015, n. 9934, pubblicata su Rivista dei Dottori Commercialisti 2015, 4, 665 (s.m) e Cass. 22.02.2012, n. 2671 pubblicata su Giust. civ. Mass. 2012, 2, 200.

[34] Si veda Corte Costituzione, ordinanza n.222 del 27/09/2017, pubblicata su ilfallimentarista.it. L’eliminazione del potere del tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento è coerente con il nostro ordinamento processuale civile che, sia pure in linea tendenziale e non senza qualche eccezione, è ispirato dal principio ne procedat judex ex officio. L’abrogazione espressa del potere del tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento, nel caso di risoluzione del concordato preventivo, realizzata dall’art. 17, comma 1, D.lgs. n. 169/2007, che ha modificato l’art. 186 l.fall., ha avuto valore meramente ricognitivo di una abrogazione implicita che è stata indotta dalla riformulazione dell’art. 6 l.fall., in modo da rendere incompatibile la sopravvivenza dell’istituto nell’ambito della disciplina del concordato preventivo.

[35] Cassazione civile sez. I, 07/06/2007 n. 13357, pubblicata su ilcaso.it viene stabilito che “nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento pronunciata in seguito alla risoluzione del concordato preventivo non è possibile rimettere in discussione la sussistenza della qualità di imprenditore commerciale del debitore, né del suo stato di insolvenza, vale a dire i presupposti per la dichiarazione di fallimento, atteso che nei confronti di tali presupposti la sentenza irrevocabile di omologazione esercita autorità di cosa giudicata”.

[36] Tribunale Trani, Sezione Civile, Sent. n.41/2013 del 18 Luglio 2013, pubblicata su unijuris.it.

[37] Nel caso osservato, la società in concordato eccepisce l’insussistenza dello stato di insolvenza sulla scorta una “mutuata situazione debitoria ed economico finanziaria della società” derivante dalla riduzione del passivo frutto, principalmente, della scelta del legale rapp.te della società in concordato di aderire alla “rottamazione-ter” D.L. Fiscale 2019 del 15.12.2018, con conseguente riduzione dei debiti tributari nei confronti dell’Agenzia della Riscossione.

[38] Art. 119 comma 1 CCII: “Ciascuno dei creditori e il commissario giudiziale, ove richiesto da un creditore, possono richiedere la risoluzione del concordato per inadempimento”.

SCRIVI IL TUO COMMENTO

Scrivi il tuo commento!
Per favore, inserisci qui il tuo nome

13 − sette =

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.