In sede fallimentare, una volta ammesso il giuramento decisorio, che effetti può avere la dichiarazione del curatore di non essere a conoscenza dell’avvenuta estinzione del debito? L’affermazione è favorevole al giurante, lasciando in vita la presunzione di pagamento, o assume invece gli effetti del rifiuto del giuramento, favorevole al creditore? La questione è stata affrontata (e risolta) dalle Sezioni Unite con la sentenza del 29 agosto 2023, n. 25442.
Il giuramento decisorio
L’art. 2736 c.c. disciplina il giuramento decisorio come “quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa”.
Ai sensi dell’art. 2738 comma 1 c.c., “se è stato prestato il giuramento deferito … l’altra parte non è ammessa a provare il contrario, né può chiedere la revocazione della sentenza qualora il giuramento sia stato dichiarato falso”.
Si potrebbe pensare che se il debitore dichiara di aver pagato quando invece ciò non è vero, ossia se giura il falso, il creditore possa ulteriormente tutelarsi chiedendo di poter provare il contrario oppure chiedendo la revocazione della sentenza (favorevole al debitore) nel caso in cui poi si dovesse scoprire che il giuramento era falso. Invece, l’art. 2738 c.c. comma 1 impedisce al creditore di utilizzare tali strumenti: l’unica tutela che gli viene concessa (comma 2) è quella di poter chiedere il risarcimento del danno nel caso in cui il debitore dovesse essere condannato penalmente per falso giuramento, ma egli, a tal fine, deve avere appunto instaurato un giudizio penale.
Il deferimento al curatore fallimentare
La fattispecie oggetto della sentenza in commento riguardava l’ipotesi in cui il creditore aveva deferito il giuramento (decisorio) al curatore, affinchè questi, il quale aveva eccepito che il credito si era prescritto, giurasse per l’appunto che il debitore non aveva adempiuto, ciò che avrebbe determinato l’ammissione del credito alla procedura fallimentare.
Ebbene, nel caso di specie, il curatore, in sede di giuramento, aveva reso la seguente dichiarazione: “non so se l’obbligazione sia stata adempiuta”.
La Cassazione, con ordinanza n. 17821 del 01.06.2022, aveva rimesso alle SSUU la seguente questione: “se, una volta ammesso il giuramento de scientia o de notitia, la dichiarazione del curatore di non essere a conoscenza dell’avvenuta estinzione del debito equivalga a prestazione favorevole al giurante, lasciando in vita la presunzione di pagamento (Corte Cost. 162/1973; Cass. 3353/1968, 3621/1969, 1424/1973, 315/1978, 1033/1980, 1148/1983, 7713/1990, 5163/1993, 6940/2010; in tema di fallimento, Cass. 647/2008, 15570/2015, 13298/2018), o assuma invece gli effetti del rifiuto del giuramento, favorevole al creditore (Cass. 20622/2022) – come avviene nel giuramento de veritate”
Tesi secondo cui la dichiarazione del curatore di “non sapere” costituisce prova dell’avvenuto adempimento
La tesi secondo la quale il giuramento del curatore, consistito nella dichiarazione “non so se il pagamento sia stato eseguito”, deve essere interpretato in senso favorevole al curatore stesso, ossia come se il pagamento sia stato già eseguito (il che comporterebbe l’esclusione del credito dal passivo fallimentare), poggia sui seguenti argomenti:
- per effetto dell’art. 2738 comma 1 c.c., anche se il curatore avesse giurato (falsamente) che l’obbligazione era stata adempiuta, il creditore non avrebbe comunque potuto essere ammesso a provare il contrario.
Di conseguenza il discorso è questo: il creditore, se non può ricevere (quanto meno nell’immediato) alcuna tutela neanche quando il debitore abbia giurato il falso, e quindi in presenza di un comportamento illecito del debitore, non dovrebbe poter avere nessuna tutela neanche quando il curatore abbia reso una dichiarazione non falsa bensì “incerta”, dal momento che un’affermazione incerta è oggettivamente meno grave di un’affermazione falsa.
Del resto, il divieto di prova contraria di cui all’art. 2738 c.c. ha una sua ratio, che è la seguente:
- il giuramento decisorio è disciplinato dagli artt. 2736 e ss. ed è “quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa”.
Il creditore, deferendo al curatore il giuramento in merito all’avvenuto pagamento o meno del debito, ha sostanzialmente “rinunciato” a fornire, lui direttamente, la prova che il pagamento non sia avvenuto.
Pertanto, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. è stato già esercitato dal creditore deferendo al curatore fallimentare il giuramento decisorio: anziché dimostrare in maniera diretta di non aver mai ricevuto il pagamento, ha preferito che il curatore giurasse in tal senso; ma avrebbe dovuto sapere che poi, nel caso di falso giuramento, non avrebbe avuto nessuna tutela se non quella di ottenere una condanna penale, con ulteriori oneri difensivi. La sua è stata quindi una precisa scelta difensiva, risolta tuttavia con un nulla di fatto giacchè il curatore non ha giurato, né ha ammesso ciò che il creditore avrebbe voluto sentir dichiarato (e cioè che il debito non è stato ancora pagato). La scelta del creditore di deferire al curatore il giuramento, dovendo avvenire con la consapevolezza di non poter poi provare il contrario nel caso in cui tale giuramento dia un esito opposto a quello sperato dal creditore stesso (e ciò anche nel caso in cui ne venga scoperta la falsità), è equiparabile a colui che propone una domanda giudiziale con dolo o colpa grave, ossia alla c.d. “lite temeraria”, un comportamento quest’ultimo che, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comporta la condanna alle spese in quanto fondato sulla consapevolezza della infondatezza della domanda: in altre parole, si richiede al Giudice qualcosa che, come noto già in partenza, difficilmente potrà essere concesso. Stessa consapevolezza del rischio di una scelta processuale che potrebbe rivelarsi controproducente la assume il creditore il quale, anziché dimostrare in maniera diretta l’inadempimento del debitore, decide di far dipendere tale dimostrazione dal giuramento del curatore.
- c’è la possibilità che il creditore, il quale abbia deferito al debitore (o a chi per lui, come il curatore) il giuramento decisorio, possa revocarlo?
L’art. 235 cpc stabilisce che “la parte, che ha deferito o riferito il giuramento decisorio, non può più revocarlo quando l’avversario ha dichiarato di essere pronto a prestarlo”.
Quindi, la revoca della delazione del giuramento è ammessa solo quando colui al quale lo stesso è stato deferito (il curatore) non si sia ancora dichiarato pronto a prestarlo. Se il giuramento viene revocato, allora il creditore, proprio perché il giuramento non è stato prestato, potrà dimostrare in altro modo che l’obbligazione non è stata adempiuta.
Invece, nel diverso caso in cui il giuramento sia stato comunque prestato, ossia quando colui al quale esso è stato deferito (il curatore) abbia in ogni modo reso una dichiarazione, anche se incerta (quale quella in esame: “non so se il pagamento sia stato eseguito”), la delazione del giuramento non è più revocabile, e, se non è più revocabile, ciò vuol dire che ormai il creditore ha esaurito la possibilità di dimostrare che l’obbligazione non è stata adempiuta.
Del resto, affinchè il giuramento possa considerarsi “prestato”, non occorre che esso consista in una dichiarazione univoca, chiara ed inequivocabile, ma è sufficiente che venga resa una dichiarazione, anche se incerta (tipo, per l’appunto: “non so se il pagamento sia stato eseguito”), e ciò vale anche per le altre prove orali (come p. es. la testimonianza);
- l’art. 2959 c.c. stabilisce che l’eccezione di prescrizione è rigettata se chi la oppone “… ha comunque ammesso in giudizio che l’obbligazione non è stata estinta.”
Il codice, come contrappeso alla presunzione di prescrizione ma soprattutto al fatto che si tratta di una prescrizione breve (come quella di cui all’art. 2956, n. 2, oggetto della sentenza in commento), prevede una tutela per il creditore: se il debitore, pur eccependo la prescrizione, riconosce che l’obbligazione è rimasta comunque inadempiuta, tale eccezione viene respinta, in quanto, tra la “presunzione” che il creditore non abbia mai chiesto al debitore il pagamento e la “certezza”, derivata dall’ammissione del debitore, che il pagamento non è mai stato eseguito, viene tutelata tale certezza.
Ma, nel diverso caso in cui chi oppone la prescrizione (ossia il curatore) renda una dichiarazione incerta (“non so se il pagamento sia stato eseguito”), tale dichiarazione come dovrebbe essere interpretata? Qui il curatore non “ammette” che il debitore ha pagato; egli dice semplicemente: “non so se il debitore abbia pagato”. Ne consegue che, in virtù del principio del “favor debitoris”, l’eccezione di prescrizione dovrebbe essere accolta, e quindi il pagamento del credito dovrà intendersi come eseguito, con conseguente esclusione del medesimo dal passivo fallimentare.
Tesi secondo cui la dichiarazione del curatore di “non sapere” equivale a “mancato giuramento”
La tesi – sostenuta dalle SSUU – secondo la quale il giuramento del curatore, consistito nella dichiarazione “non so se il pagamento sia stato eseguito”, debba essere interpretata in senso favorevole al creditore (ossia come se il pagamento non sia mai stato eseguito), poggia invece sui seguenti argomenti:
- l’inviolabilità e la sacralità del diritto di difesa (art. 24 Cost.) dovrebbero implicare la necessità di concedere al creditore la possibilità di dimostrare il mancato adempimento dell’obbligazione anche nel caso in cui il deferimento del giuramento decisorio al debitore non abbia fornito la prova di ciò (vedi dichiarazione incerta da parte del curatore).
Come abbiamo visto, la disciplina sul giuramento decisorio è già abbastanza penalizzante per il creditore, poiché quest’ultimo, nel caso di falso giuramento, non è ammesso né a provare il contrario né ad impugnare per revocazione la sentenza.
Allora, proprio per compensare questa disciplina di sfavore nei riguardi del creditore, si dovrebbe ritenere che se colui al quale il giuramento è stato deferito dichiara di non sapere se il debitore abbia soddisfatto l’interesse del creditore (ossia di colui che ha deferito il giuramento), tale dichiarazione sia da equiparare alla dichiarazione con cui il curatore afferma che l’obbligazione non è stata adempiuta, altrimenti il creditore verrebbe danneggiato in due casi, e cioè sia quando il curatore ha giurato (sempre falsamente) che l’obbligazione è stata estinta sia quando ha reso una dichiarazione incerta, e questo determinerebbe, ai danni del creditore, un vulnus di tutela il quale tuttavia risulterebbe difficilmente accettabile alla luce dell’art. 24 Cost.;
- ammettere al passivo fallimentare un credito la cui prescrizione presuntiva non sia stata contrastata da un giuramento decisorio il quale ne abbia confermato il mancato soddisfacimento, determinerebbe un appesantimento della procedura fallimentare.
Anche tale obiezione non sembra del tutto convincente, in quanto vi sono altri casi in cui la procedura attivata per il soddisfacimento di più creditori non viene per nulla bloccata qualora tra i crediti coinvolti ve ne siano alcuni non caratterizzati dalla certezza della loro esigibilità. È il caso dell’art. 2852 c.c., a norma del quale “l’ipoteca prende grado dal momento della sua iscrizione, anche se è iscritta per un credito condizionale”. Anche se la condizione prevista per l’esistenza del credito non si è ancora verificata, non soltanto il (futuro) creditore può comunque iscrivere ipoteca, ma quest’ultima prende grado da quando è stata iscritta, e quindi acquista rilevanza, quale diritto di prelazione rispetto alle altre ipoteche iscritte sul medesimo bene, prima ancora che il credito possa dirsi sussistente. Quindi, intanto, la procedura per il soddisfacimento dei crediti nei riguardi del medesimo debitore subisce comunque un appesantimento.
Pertanto, se si può iscrivere ipoteca anche per un credito che deve ancora venire ad esistenza, a maggior ragione dovrebbe essere garantito il creditore il cui credito sia comunque certo nella sua esistenza, anche se non sia stata fornita la prova del suo mancato soddisfacimento, non potendosi certamente sostenere che in tale secondo caso si determinerebbe un “inammissibile appesantimento” della procedura fallimentare.
- per quanto riguarda il principio del “favor debitoris”, questo costituisce senza dubbio un importante pilastro della disciplina delle obbligazioni.
Tuttavia, si consideri quanto segue.
A norma dell’art. 1219 c.c., il creditore non è tenuto a costituire in mora il debitore quando quest’ultimo abbia “dichiarato per iscritto di non volere eseguire l’obbligazione”.
L’onere del creditore di lamentare, attraverso la costituzione in mora, il mancato adempimento dell’obbligazione, non sussiste dunque solo nel caso in cui sia stato il debitore stesso a confermare, in forma scritta, tale inadempimento: infatti, alla dichiarazione di non voler eseguire l’obbligazione, consegue la conferma che quest’ultima non sia stata adempiuta.
Quindi, è solo quando il debitore abbia dichiarato, in modo chiaro ed inequivocabile, che l’obbligazione non sia stata adempiuta che il creditore sarà liberato dall’onere di dimostrare tale mancato adempimento e, conseguentemente, di richiedere la prova del suo credito.
Con riferimento al caso di specie, il curatore non ha dichiarato, in modo chiaro ed inequivocabile, che il debitore abbia adempiuto; egli afferma di non sapere se il debitore abbia adempiuto; di conseguenza, alla luce dell’incertezza che trapela da tale dichiarazione, non avendo certezza dell’inadempimento (certezza che invece si avrebbe nel caso previsto dall’art. 1219 c.c.), il creditore dovrebbe avere il diritto/dovere di dimostrare che l’obbligazione è rimasta inadempiuta, senza che l’incertezza del giuramento da parte del curatore (“non so se il pagamento sia stato eseguito”) possa precludergli la possibilità di dimostrare in altro modo il mancato adempimento e decretare, di conseguenza, l’inammissibilità del credito alla procedura fallimentare.