L’eccezione di carenza di titolarità del diritto dedotto in giudizio dall’attore

in Giuricivile 2018, 1 (ISSN 2532-201X)

Sommario: 1. Inquadramento della questione – 1.1. Differenza tra legitimatio ad causam e titolarità del diritto dedotto – 2. L’orientamento della Suprema Corte precedente alla pronuncia S.U. n. 2951/2016 – 3. Criticità della ricostruzione operata dall’orientamento maggioritario – 4. La tesi minoritaria e la svolta delle S.U. n. 2951/2016 – 5. Considerazioni conclusive

1. Inquadramento della questione

Questione da tempo al centro di orientamenti giurisprudenziali ondivaghi è quella della natura processuale dell’eccezione proponibile dal convenuto volta a contestare la titolarità (attiva o passiva) del diritto dedotto in giudizio dall’attore.

Con maggiore sforzo esplicativo (e limitando per ora il discorso all’ipotesi del difetto di titolarità attiva) è possibile affermare che la questione concerne il caso in cui il convenuto intenda sostenere che la titolarità del diritto rivendicato in giudizio dall’attore non appartiene a quest’ultimo ma ad un altro soggetto.

L’interrogativo che, in particolare, si è posto all’attenzione degli interpreti, ha riguardato la
riconducibilità di tale opzione difensiva praticabile del convenuto alla categoria delle eccezioni in senso stretto o a quella delle mere difese. La risposta al suddetto interrogativo ha grande rilevanza pratica posto che propendere per l’una o per l’altra delle soluzioni prospettate comporta conseguenze del tutto differenti per ciò che attiene il regime decadenziale cui è assoggettato il convenuto nello svolgimento di tale eccezione.

Se, infatti, si dovesse ritenere, come fatto dalla giurisprudenza maggioritaria precedente al 2016, che la deduzione relativa al difetto di titolarità nel diritto azionato in giudizio costituisca eccezione in senso stretto, la stessa dovrà essere proposta dal convenuto, a pena di decadenza, secondo la previsione dell’art. 167, comma 2, c.p.c., nell’atto di costituzione in giudizio depositato tempestivamente.

Laddove, al contrario, si optasse per la tesi che vuole la deduzione del convenuto relativa alla carenza di titolarità del diritto riconducibile ad una mera difesa quest’ultimo poterebbe proporla senza alcun limite di tempo e addirittura per la prima volta in sede di gravame.

Oltre all’aspetto appena esaminato, si evidenza che la riconducibilità della contestazione in oggetto all’una o all’altra delle due categorie di cui sopra comporta anche diverse conseguenze in tema di rilevabilità d’ufficio, come meglio sarà chiarito nel prosieguo.

1.1. Differenza tra legitimatio ad causam e titolarità del diritto dedotto

Prima di passare ad analizzare gli orientamenti giurisprudenziali che si sono contrapposti
sull’argomento, è necessario evidenziare che la questione relativa al regime di deducibilità del difetto di titolarità attiva del diritto dedotto in giudizio è questione da tenere distinta rispetto a quella relativa al regime di deducibilità della carenza di legittimazione ad agire in giudizio, c.d. legitimatio ad causam.

Ed, infatti, la legitimatio ad causam si sostanzia nella titolarità del potere potestativo di promuovere un giudizio finalizzato all’ottenimento di una pronuncia da parte del giudice in ordine ad un determinato rapporto giuridico e rientra nella categoria delle condizioni dell’azione (insieme all’interesse ad agire), ovvero dei requisiti imprescindibili che devono sussistere perché un’azione giudiziale sia appunto proposta ed esaminata nel merito.

Tale riconducibilità al novero delle condizioni dell’azione comporta, come costantemente
sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità [1], che la verifica relativa alla sussistenza della legitimatio ad causam attiva e passiva costituisca presupposto per ottenere una pronuncia di merito e sia rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo.

Appare subito evidente, dunque, la differenza tra l’eccezione relativa alla titolarità del diritto azionato in giudizio, costituente questione inerente al merito della lite e dall’esame della quale può derivare una pronuncia circa la fondatezza o infondatezza della domanda, e l’eccezione relativa alla carenza di legitimatio ad causam, costituente condizione dell’azione il cui esame può condurre ad una pronuncia di rito preclusiva dell’esame nel merito [2].

È bene, inoltre, evidenziare che la verifica, da parte del Giudice, relativa alla sussistenza della legitimatio ad causam attiva o passiva, è compiuta sulla base della sola prospettazione attorea, senza il passaggio per alcuna attività istruttoria; è, in altre parole, sufficiente che l’attore si presenti in giudizio come titolare del diritto e, di conseguenza, come soggetto legittimato a richiederne la tutela giurisdizionale, per fondare la sua legittimazione ad agire [3] (medesime considerazioni possono farsi riguardo alla legittimazione a contraddire, anch’essa da verificarsi sulla base della sola prospettazione
attorea).

Si rileva comunque che, nonostante la differenza ontologica tra legittimazione ad agire e titolarità del diritto, le stesse nella maggior parte delle ipotesi (ed esclusi i casi di sostituzione processuale) appartengono al medesimo soggetto, posto che ogni posizione giuridica attiva (o di vantaggio) reca con sé il diritto di richiederne la tutela in giudizio per il suo titolare.

Ciò detto è possibile comprendere appieno l’opportunità della rilevabilità d’ufficio da parte del Giudice in ogni stato e grado del processo dell’eventuale difetto di legittimazione ad agire. Tale regola, infatti, si comprende sol se si consideri che una decisione emessa nei confronti di un soggetto che era sprovvisto di detta legittimazione ad agire, dal lato attivo o passivo – a parte i casi di sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c. – sarebbe inutiliter data posto che non vincolerebbe i soggetti effettivamente provvisti del diritto potestativo a proporre il giudizio e della relativa titolarità del diritto sostanziale dedotto, che rimarrebbero estrani agli effetti del giudicato.

Semplificando è possibile quindi affermare che la legittimazione ad agire appartiene al soggetto in capo al quale sussiste il diritto potestativo a promuovere un giudizio per la tutela di un certo diritto sostanziale; la questione relativa alla effettiva titolarità di tale ultimo diritto sarà questione attinente al merito della controversia che il Giudice esaminerà solamente all’esito della positiva verifica circa la sussistenza della legitimatio ad causam.

2. L’orientamento della Suprema Corte precedente alla pronuncia S.U. n. 2951/2016

Così ricostruite le differenze tra legittimazione ad agire e titolarità del diritto azionato ed esaminato succintamente il regime di deducibilità del difetto della prima, sul quale non si registrano contrasti giurisprudenziali, è ora necessario passare all’esame del regime di rilevabilità dell’eventuale carenza nella titolarità del diritto dedotto in giudizio dall’attore.

L’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente prima del 2016 ha considerato la rilevabilità della questione relativa alla effettiva titolarità del diritto azionato in giudizio ricompresa all’interno del potere dispositivo e dell’onere deduttivo e probatorio della parte, tanto proprio in conseguenza del fatto che, differentemente da quanto previsto in tema di legitimatio ad causam, tale questione di titolarità concerne il merito della controversia [4].

In particolare, è stato affermato dalla giurisprudenza consolidatasi sull’argomento che: “La
legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento. Da essa – pertanto – va tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito l’esame d’ufficio, poiché la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata” [5].

Da tale ricostruzione di principio derivavano alcuni importanti corollari.

Anzitutto, come già accennato, il convenuto che intende eccepire la carenza di titolarità del diritto dell’attore deve farlo, a pena di decadenza dall’eccezione, nell’atto di costituzione in giudizio depositato tempestivamente nei termini di cui all’art. 166 c.p.c. [6].

Alla stregua dell’orientamento giurisprudenziale citato, infatti, l’eccezione relativa alla carenza della titolarità attiva del diritto dedotto rientra nel novero delle eccezioni in senso stretto e, dunque, nella previsione di cui al secondo comma dell’art. 167 c.p.c.

Ulteriore corollario dell’inquadramento della questione in oggetto nell’ambito delle eccezioni in senso stretto è quello del divieto di rilievo d’ufficio del difetto di titolarità del diritto azionato, in conformità con il già richiamato principio dispositivo [7].

In definitiva, a mente del costante orientamento giurisprudenziale citato, una volta verificata la legittimazione ad agire dell’attore, la dichiarazione dell’eventuale difetto di titolarità del diritto sostanziale da quest’ultimo dedotto in giudizio (per esserne l’effettivo titolare un soggetto diverso) sarebbe preclusa al Giudice in assenza di un’apposita e specifica eccezione del convenuto tempestivamente sollevata.

3. Criticità della ricostruzione operata dall’orientamento maggioritario

L’orientamento giurisprudenziale di cui si è dato conto non chiarisce però un passaggio importante.

Come noto ai sensi dell’art. 2697 c.c. il soggetto che intende far valere in giudizio un diritto deve provare i fatti costitutivi dello stesso, mentre chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti costitutivi, ovvero deduce che il diritto si è modificato o estinto, deve fornire la prova dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi sui quali l’eccezione si fonda.

Secondo la pacifica ricostruzione di dottrina e giurisprudenza, posto che la regola generale è quella della rilevabilità d’ufficio delle eccezioni, per individuare quali siano, in deroga a tale principio, le eccezioni proponibili solo dalle parti (c.d. eccezioni in senso stretto) è necessario far riferimento in primo luogo ad eventuali previsioni normative espresse, che riservino appunto solo a queste ultime la possibilità di sollevare una determinata eccezione.

In caso di assenza di una previsione espressa è poi necessario valutare se i fatti costitutivi dell’eccezione (ovvero i fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto dedotto dall’attore) corrispondono all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte di colui che la solleva [8].

In quest’ultimo caso, infatti, dipendendo l’esercizio di un tale diritto potestativo – idoneo a
contrastante il diritto dedotto in giudizio dall’attore – dalla volontà della parte convenuta che ne è titolare, solo quest’ultima sarà legittimata ad introdurre nel giudizio quei fatti che, da una parte fondano il proprio ridetto diritto potestativo (e quindi l’eccezione) e dall’altra estinguono, bloccano o modificano, il diritto azionato in giudizio dall’attore.

Un esempio utile a chiarire il concetto può individuarsi in tema di eccezione di compensazione. Posto che con la detta eccezione il convenuto aziona un proprio diritto di credito in opposizione alla pretesa creditoria dell’attore, ed a parte la considerazione per cui in tema di eccezione di compensazione il divieto del rilievo d’ufficio è espressamente stabilito dall’art. 1242 c.c., è ovvio che in tal caso il soggetto che solleva l’eccezione, nell’introdurre il fatto costitutivo del proprio diritto di credito in compensazione (estintivo del diritto di credito dell’attore) esercita un diritto potestativo in relazione al quale il Giudice non ha alcun potere di rilievo officioso.

Ciò detto, e tornando alla giurisprudenza che ha considerato la deduzione inerente il difetto nella titolarità attiva del diritto come eccezione in senso stretto, è doveroso chiedersi, al fine di valutare la bontà di tale ricostruzione, se il convenuto nello svolgere l’eccezione in argomento introduce nel giudizio fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto dedotto dall’attore o meno.

La giurisprudenza esaminata non argomenta espressamente sul punto. Tuttavia nella ricostruzione effettuata nelle pronunce citate pare essere presupposta una risposta
positiva al problema. Ed infatti, solo ritenendo che il convenuto, nel momento in cui contesta la titolarità attiva del diritto, in realtà allega (e deve quindi provare) un fatto impeditivo, modificativo o estintivo del diritto dedotto in giudizio – che deve peraltro essere in qualche modo inerente l’esercizio di un proprio diritto potestativo – si può giungere alla conclusione che l’eccezione in oggetto è eccezione in senso stretto non rilevabile d’ufficio dal Giudice.

Il problematica viene meglio chiarita con un esempio. Nel caso di un giudizio introdotto dall’attore per ottenere l’adempimento di un contratto, qualora il convenuto si difenda deducendo che in realtà il soggetto in capo al quale sorge il diritto di credito derivante da tale contratto è un soggetto diverso rispetto all’attore, è possibile affermare che tale convenuto introduca in giudizio fatti modificativi, estintivi o impeditivi del diritto dedotto?

A ben vedere in un caso simile il convenuto non deduce l’avvenuta estinzione o modificazione del diritto azionato dall’attore in conseguenza di un fatto preesistente o sopravvenuto al sorgere dello stesso, bensì contesta che il diritto controverso sia mai sorto in capo all’attore perché deduce che l’effettiva titolarità di tale diritto appartiene ad altro soggetto.

In altre parole, nell’eccepire la carenza di titolarità attiva del diritto azionato il convenuto non allega alcun fatto estintivo modificativo o impeditivo del diritto, bensì contesta l’esistenza di un fatto costitutivo della pretesa attorea, ovvero proprio l’effettiva titolarità del ridetto diritto. Ed infatti, mentre la semplice affermazione dell’attore di essere titolare del diritto azionato è sufficiente, come chiarito, a ritenere integrato il requisito della legittimazione ad agire, passando all’esame del merito della lite tale deduzione attorea non varrà di per sé sola a dimostrare l’elemento dell’effettiva titolarità di quel diritto, essendo onerato lo stesso attore, ai sensi del primo comma dell’art. 2697 c.c., della prova dei fatti costitutivi del diritto vantato, ed in particolare di quei fatti che ricollegano quel determinato diritto alla sua persona [9] fondandone la titolarità.

La contestazione relativa alla titolarità attiva del diritto, quindi, essendo volta semplicemente a negare l’esistenza di un fatto costitutivo del diritto dedotto in giudizio, la cui prova spetta ex art. 2697 c.c. all’attore, risulta difficilmente inquadrabile nella categoria delle eccezione, a fortiori in senso stretto, ma può essere più agevolmente ricondotta alla categoria delle mere difese, ovvero delle deduzioni attraverso le quali la parte, proponendo una ricostruzione giuridica alternativa o prendendo posizione rispetto ai fatti allegati dall’attore, si limita appunto a negare l’esistenza dei fatti costitutivi del diritto oggetto del giudizio.

Così ricostruita la questione in oggetto, è possibile affermare che il convenuto, nel contestare la titolarità attiva del diritto fatto valere, non dovrebbe soggiacere ad alcun termine decadenziale, rientrando le mere difese tutt’al più nell’ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 167 c.p.c., norma, quest’ultima, che non prevede alcun limite temporale per la proposizione di tali difese.

4. La tesi minoritaria e la svolta delle S.U. n. 2951/2016

Passando ad analizzare l’orientamento giurisprudenziale che sulla questione è stato assolutamente minoritario, almeno fino alla pronuncia delle Sezioni Unite di cui si darà conto più avanti, una prima timida apertura della giurisprudenza di legittimità verso la riconducibilità dell’eccezioni di difetto di titolarità del diritto al novero delle mere difese può essere rintracciata nella ormai risalente pronuncia della Terza Sezione Civile della Suprema Corte n. 10843/1997.

In tale sentenza la Corte afferma che: “Giacchè la “legitimatio ad causam” attiene alla regolare instaurazione del contraddittorio, il suo difetto è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, con il solo limite che, sulla relativa questione si sia eventualmente formato il giudicato. Viceversa, non attiene alla “legitimatio ad causam”, ma al merito della lite la questione relativa alla reale titolarità attiva o passiva del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, risolvendosi una situazione di fatto favorevole all’accoglimento o al rigetto della pretesa azionata. Essa questione – inoltre – non è – a differenza di quella concernente la “legitimatio ad causam” – rilevabile d`ufficio in ogni stato e grado del giudizio, essendo invece, di regola, affidata alla disponibilità delle parti. Più in particolare, e fra l’altro, il convenuto può, con il suo comportamento processuale, influire -eliminandoli o alleviandoli
– sugli oneri probatori incombenti sull’attore, anche a proposito della sua asserita titolarità attiva del rapporto, ove non contesti oppure riconosca espressamente la verità dei fatti dall’attore allegati a fondamento della domanda; ciò in applicazione del principio per cui “non egent probatione” i fatti pacifici o incontroversi.”

Nel provvedimento in esame i Giudici della Corte, pur riaffermando il principio, sancito dalla
giurisprudenza maggioritaria, secondo cui il difetto nella titolarità del diritto dedotto non può essere rilevato d’ufficio, ma rientra “di regola” nei poteri dispositivi della parte, afferma altresì, con un ragionamento invero poco lineare, che in realtà il convenuto può con il suo comportamento processuale solo alleviare l’onere probatorio esistente in capo all’attore anche in relazione alla prova dell’effettiva titolarità del diritto.

Così argomentando la Corte sembra quindi sottintendere che l’onere probatorio incombente
sull’attore si estende anche alla prova dell’effettiva titolarità del diritto dedotto, sicché tale elemento dovrebbe per logica rientrare nel novero dei fatti costitutivi del diritto ex art. 2697 c.c.. Ed infatti, intanto ha un senso affermare che il convenuto può alleviare l’onere probatorio dell’attore anche con riferimento alla prova della effettiva titolarità del diritto, in quanto si presuppone che tale elemento rientri tra i fatti costitutivi del diritto la cui prova rientra appunto tra gli oneri del soggetto che introduce la domanda.

La giurisprudenza di legittimità successiva al provvedimento esaminato si è comunque assestata in maniera pressoché unanime sulla posizione analizzata in precedenza in base alla quale l’eccezione inerente la carenza di titolarità del diritto è da considerarsi eccezione in senso stretto.

Tale granitico orientamento giurisprudenziale ha subito però un turbamento a seguito della sentenza emessa ancora una volta dalla Sezione Terza Civile della Cassazione n. 15759/2014. Con tale provvedimento la Suprema Corte, richiamato il precedente di sezione risalente al 1997, ed in dichiarato contrasto con la giurisprudenza maggioritaria, ha affermato che: “…la contestazione della titolarità passiva (ma il discorso è identico per la titolarità attiva), investendo un fatto costitutivo della domanda, e cioè che il soggetto convenuto non è quello che nella fattispecie concreta è tenuto per legge al comando richiesto al giudice, non integra un’eccezione in senso stretto (e cioè un fatto modificativo o estintivo), ma una mera difesa (Cass. n. 15832/2011), consistente nella contestazione del fatto costitutivo della domanda, non modifica il principio secondo cui l’onere della prova del fatto costitutivo grava sull’attore”.

La Suprema Corte, dunque, con uno sforzo esplicativo maggiore rispetto a quello compiuto nel precedente del 1997, stabilisce che la titolarità del diritto (sia dal lato attivo che passivo) rientra tra i fatti costitutivi della domanda, sicché la parte che ne eccepisca la carenza non svolge alcuna eccezione in senso stretto bensì propone un mera difesa consistente, appunto, nella negazione di un fatto costitutivo posto a base dell’avversa domanda.

Da tanto deriva che nel valersi di tale opzione difensiva la parte non è tenuta al rispetto di alcun termine decadenziale.

Proprio sulla base del contrasto insorto tra la tesi sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria e quella espressa nella pronuncia n. 15759/2014 appena citata, la Sezione Sesta dalla Corte di Cassazione, chiamata nuovamente a pronunciarsi sull’argomento, con ordinanza n. 2977/2015, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per la valutazione dell’opportunità di una pronuncia delle Sezioni Unite ex 374 c.p.c., comma 2.

La decisione delle Sezioni Unite sull’argomento è intervenuta con la pronuncia n. 2951/2016, probabilmente destinata a risolvere in modo definitivo la questione.

Con tale sentenza le Sezioni Unite, come già anticipato in una precedente nota a sentenza, rovesciando completamente l’orientamento maggioritario di cui si è dato conto, con un ragionamento in parte sovrapponibile a quello seguito al punto 3 della presente trattazione, e pur condividendo la tesi della netta differenza ontologica tra legitimatio ad causam e titolarità del diritto sostanziale, nonché quella della riconducibilità di quest’ultima ad una questione di merito, hanno stabilito che:

  1. la titolarità della posizione soggettiva rappresenta un fatto costitutivo
    del diritto fatto valere con la domanda, il cui onere probatorio incombe, ai sensi dell’art. 2697 c.c., sul soggetto che propone la stessa;
  2. di conseguenza la parte che contesti tale titolarità svolge una mera difesa e non soggiace ad alcun termine decadenziale, potendo esercitare tale opzione difensiva finanche in Cassazione, salvo il limite dell’eventuale giudicato formatosi sul punto;
  3. come ulteriore conseguenza il difetto di titolarità (attiva o passiva) del diritto dedotto può essere rilevata anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, purché la stessa emerga dagli atti del processo.

Sembra opportuno evidenziare che, temperando parzialmente il principio suddetto, secondo il quale è onere dell’attore provare la riconducibilità del diritto azionato alla sua persona, ovvero l’effettiva titolarità attiva del diritto, con la stessa pronuncia le Sezioni Unite hanno chiarito che tale prova può essere fornita: “… in positivo dall’attore, ma può dirsi provata anche in forza del comportamento processuale del convenuto, qualora quest’ultimo riconosca espressamente detta titolarità oppure svolga difese che siano incompatibili con la negazione della titolarità.”

Nel passaggio in oggetto le Sezioni Unite sembrano accogliere, quindi, il principio di diritto espresso nella pronuncia n. 10843/1997 (di cui si è dato conto in precedenza) emessa dalla Terza Sezione Civile della stessa Corte, in base alla quale

“…il convenuto può, con il suo comportamento processuale, influire -eliminandoli o alleviandoli – sugli oneri probatori incombenti sull’attore, anche a proposito della sua asserita titolarità attiva del rapporto”.

Ciò detto però, le Sezioni Unite compiono un passaggio ulteriore e si occupano dell’ipotesi in cui il convenuto sia rimasto contumace.

In tal caso, posto che il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. non si estende alla parte che non sia costituita e che dunque la contumacia non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall’altra parte né ad alterare la ripartizione degli oneri probatori tra le parti, resta a carico dell’attore l’onere di provare, tra l’altro, i fatti da cui deriva la propria titolarità del diritto azionato.

Ulteriore conseguenza di quanto appena affermato, e tenendo presente quanto stabilito dalla sentenza in oggetto sul punto della riconducibilità dell’eccezione di carenza di titolarità nel diritto al novero delle semplici difese, è che il contumace che si costituisca tardivamente, pur dovendo accettare il giudizio nello stato in cui si trova e con le preclusioni già maturate, potrà comunque assumere una posizione di mera negazione dei fatti costitutivi la cui prova gravi sulla controparte, tra i quali rientra senz’altro l’effettiva titolarità del diritto [10].

5. Considerazioni conclusive

A parere di chi scrive, con la svolta segnata dalla sentenza delle Sezioni Unite di cui si è appena dato conto la Suprema Corte ha superato le criticità e le lacune (evidenziate al paragrafo n. 3) che avevano caratterizzato la giurisprudenza di legittimità precedente.

A riprova della maggior linearità del percorso argomentativo seguito dalla Cassazione nella pronuncia del 2016 e della maggior coerenza sistematica dei principi di diritto espressi nella stessa, si osserva che la giurisprudenza di legittimità e di merito successiva si è sin da subito concordemente uniformata a tali principi di diritto in relazione al regime di rilevabilità del difetto di titolarità (attiva e passiva) del diritto dedotto in giudizio [11].


1 Ex multis Cass. n. 7776/2017; Cass. S.U. n. 1912/2012 e Cass. n. 16878/2005.

2 Cass. n. 10551/2003.

3 Cass. n. 355/2008.

4 Ex multis Cass. n. 4166/2015; Cass. , n. 11284/2010; Cass. 18/11/2005, n. 24457.

5 Cass. Civ., Sez. III, 09/04/2009 n.8699, Cass. Civ., Sez. III, 30/05/2008 n.14468 e Cass. Civ., Sez. III, 14/06/2006, n. 13756

6 Cfr. Cass. n. 12832/2009.

7 Cass., 23/11/2005, n. 24594.

8 Ex multis Cass. S.U. 15661/2005; Cass. Sez. Lav. n. 2468/2006; Cass. Sez. Lav. 11108/2007.

9 Cass. S.U. n. 2951/2016.

10 “Costituendosi tardivamente il contumace deve accettare il giudizio nello stato in cui si trova, con le preclusioni maturate, ma potrà assumere posizioni di mera negazione dei fatti costitutivi la cui prova gravi sulla controparte.” Cass. S.U. n. 2951/2016.

11 Cfr. Cass. n. 23526/2016 e Corte d’Appello Bari sent. n. 1201/2017

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