Il presente elaborato prova ad affrontare, senza pretesa di esaustività, le complesse questioni che ruotano attorno alla trascrizione dell’atto di nascita di minore nato all’estero a seguito della tecnica procreativa della GPA, comunemente nota come “maternità surrogata”.
Come noto, tale pratica è vietata nel nostro ordinamento, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 12, comma 6, L. n.40/2004, ma il divieto non basta, rendendosi oltremodo necessaria la regolamentazione delle conseguenze giuridiche che discendono dalla violazione di siffatto divieto, collocandosi dalla parte della soluzione che rappresenti sempre il superiore interesse del minore.
La possibilità di ricorrere all’istituto dell’adozione in casi particolari, ammessa dalle SS.UU. nella dirimente sentenza n. 12193/2019, il cui indirizzo è stato confermato a più riprese anche nelle pronunce ad essa successive, secondo la Corte Costituzionale e le plurime disposizioni sovranazionali, di fatto, costituisce un rimedio non sufficiente, capace solo di determinare una capitis deminutio dei genitori di intenzione rispetto ai genitori che presentano un legame genetico con il minore.
Quid iuris dunque?
Nelle more dell’auspicato intervento del Legislatore, l’adozione piena del minore potrebbe apparire una soluzione, in astratto, potenzialmente risolutiva della questione afferente alla costituzione di un rapporto di filiazione, posto che il nostro ordinamento non subordina l’adozione piena dei minori al requisito della diversità di sesso della coppia adottante, bensì al requisito che i componenti della medesima siano uniti in matrimonio. Invero, essendo incontestabile l’idoneità genitoriale delle coppie omoaffettive, in un’epoca in cui il matrimonio non costituisce certo garanzia di stabilità affettiva, la circostanza secondo cui le stesse possano contrarre solo “unione civile” e non “matrimonio”, non può continuare ad essere una condizione ostativa rispetto all’accesso all’adozione piena, come allo stato dell’arte tutt’ora è.
Con particolare riferimento alla maternità surrogata, poi, la sussistenza del divieto potrebbe essere circoscritta ai casi in cui la pratica della GPA avvenga a titolo oneroso, condizione che, certamente, si pone lungo un pericoloso piano inclinato che spesso realizza mercimonio della gestante, come espressamente ribadito dal Supremo Collegio, secondo cui tale pratica “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. Diversamente, si potrebbe pensare ad aperture alla maternità solidale ed altruistica, sull’idea che la coppia, etero-omoaffettiva che considera di ricorrere a tale tecnica procreativa, sia davvero portatrice di interessi che possiedono rilievo costituzionale, che chiamano la Repubblica a riconoscerli e garantirli sia nei confronti dell’uomo, come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si sviluppa la sua personalità, prima tra tutte la famiglia.
Queste ipotesi, come del resto tutte le altre che saranno proposte, ad umile opinione di chi scrive, dovranno essere valutate alla luce dei principi esistenti ed emergenti, il cui bilanciamento assurge a pregiudiziale di qualunque confronto argomentativo.
Concludendo, nella consapevolezza che l’effettività della norma è data dalla sua accettazione da parte del corpo sociale, e che l’unico dato costante attribuibile al corpo sociale è rappresentato dal dinamismo dei valori nei quali si riflette, per escludere l’ipertrofia interpretativa della giurisprudenza, la quale non può correggere o sostituire la voluntas legis, sarà compito del Legislatore, di fronte ad una realtà oggettivamente sperequata, operarne il mutamento ed apprestare l’invocata tutela.
Breve premessa: regole, principi e clausole generali
La delicatezza della questione da affrontare impone di effettuare una previa specificazione in merito a concetti tutt’altro che banali.
Nel passaggio da un giudizio rigido “a fattispecie”, ad un giudizio elastico “per principi e clausole generali”, l’ordinamento si serve di un novero di strumenti operanti su piani diversi. Un comune denominatore, tuttavia, li lega in maniera indissolubile: il processo di decodificazione costituisce un fatto evidente, così, per colmare le lacune normative presenti nel nostro ordinamento si è fatto ricorso a principi e clausole generali, la cui funzione integrativa ha trovato materializzazione attraverso l’opera degli interpreti.
Ma procediamo con ordine.
Nel nostro ordinamento non esiste una definizione espressa dei principi generali, né è possibile sostenere che quelli esistenti rappresentino un elenco chiuso e definitivo. Nell’attuale sistema giuridico, il ruolo attribuito ai principi è certamente più ampio rispetto a quello assegnato loro dall’art. 12 delle Preleggi[1], quale funzione ermeneutica residuale. I principi, infatti, che possono essere definiti quali regole fondamentali, corrispondono a quelli espressi in Costituzione e in altre fonti sovranazionali ad essa equiparate, su cui si fonda l’ordinamento. Sulla scorta dell’ampiezza che li caratterizza, essi operano per mezzo della tecnica del bilanciamento che, più che in rapporto di prevalenza e soccombenza, li pone in relazione attraverso il criterio della proporzionalità, per evitare un sacrificio integrale del principio eventualmente recessivo. Va da sé che il bilanciamento non si risolve in ponderazioni sregolate ed arbitrarie da parte del giudice, considerato che l’esercizio della discrezionalità opera sempre dentro il perimetro della soggezione alle leggi, in conformità con i più garantistici principi di civiltà giuridica[2].
Sul versante opposto dei principi si pongono le regole, che costituiscono disposizioni specifiche e nette, spesso in grado di acquisire un significato univoco, la cui eventuale oscurità contenutistica trova risoluzione per mezzo dei comuni criteri interpretativi (letterale, logico, sistematico ecc..).
Da ultimo, quando è necessario adattare il significato più intrinseco della disposizione al dinamismo che caratterizza tutti i sistemi giuridici contemporanei, il legislatore in fase normo-genetica, ed il giudice in fase applicativa, fanno ricorso alle clausole generali. Esse, infatti, costituiscono norme giuridiche a contenuto valoriale non fisso, bensì cangiante rispetto al rinnovamento dei paradigmi etico-sociali che connota una data società di riferimento. Ancora, si tratta di enunciati appositamente ampi e generali (come la buona fede, l’ordine pubblico, il buon costume, il principio del neminem laedere, ovvero i doveri di diligenza e correttezza), che assolvono la funzione preminente di tenuta del sistema, intervenendo proprio per sopperire all’impossibilità per il Legislatore di disciplinare in modo analitico ogni fattispecie. Pertanto, si tratta di formule destinate ad essere applicate ad una serie indeterminata di casi attraverso il contributo ermeneutico del giudice, in relazione alle modificazioni del sentire sociale, dei condizionamenti economici e dell’evoluzione delle relazioni giuridiche. Si precisa che, in ogni caso, le clausole generali devono operare solo all’interno dei principi, posto che nel nostro sistema la giurisprudenza non può elevarsi a fonte del diritto[3].
Infine, si evidenzia la rilevanza crescente che ha assunto la legislazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il cui contributo ha dato ingresso a nuovi principi generali del diritto (come ad esempio il principio di prevedibilità delle situazioni giuridiche, il divieto di abuso del diritto, il principio di effettività della tutela), sì da rafforzare i parametri interpretativi di legittimità della normativa derivata.
Il diritto sovranazionale nella gerarchia delle fonti
Sulla scorta della premessa effettuata, che troverà senso compiuto al termine della trattazione mettendo in risalto i principi generali che ruotano attorno al divieto in esame, si procede analizzando la gerarchia delle fonti del diritto, nella consapevolezza che, all’interno del nostro sistema, la collocazione delle norme assolve congiuntamente funzione ordinamentale e sostanziale.
Come noto, vengono definite “fonti del diritto” tutti gli atti e i fatti idonei a produrre norme giuridiche. Il rapporto tra le diverse fonti del diritto, poi, è regolato sia dal principio di gerarchia, sia dal principio di competenza. Ne deriva che, sulla scorta del primo, la fonte subordinata non può contrastare la fonte sovraordinata, mentre, in virtù del secondo assunto, la fonte generale non può confliggere con la fonte finalizzata alla regolamentazione di una specifica materia.
Nell’ambito delle fonti del diritto, e in particolare al vertice, figurano certamente la Costituzione e le leggi costituzionali. Accanto ad esse, di pari rango, rilevano poi le norme internazionali generalmente riconosciute tra gli Stati, ossia le norme formate nell’ambito della comunità internazionale attraverso l’uso. Detto in altri termini si tratta di prassi e usi che, proprio perché seguiti costantemente dagli Stati, hanno assunto con il tempo la vincolatività delle norme. In rapporto ad esse, inoltre, il nostro ordinamento opera una sorta di adeguamento conformativo automatico che, in forza dell’art. 10 Cost., consente ai principi generali di diritto, in condivisione con le altre nazioni civili, di entrare a far parte del Pantheon del nostro sistema ordinamentale.
Un diverso valore deve essere riconosciuto alle norme di diritto internazionale pattizio contenute in Trattati, Accordi, Protocolli, e Convenzioni. Invero, si tratta di regole che, nate dall’incontro di due o più soggetti dell’ordinamento internazionale, in aderenza all’art 87 Cost. assumono vincolatività solo se ratificate ad opera del Presidente della Repubblica previa, quando occorre, autorizzazione delle Camere[4].
Alla luce di quanto anticipato, la disamina delle fonti sovranazionali non può prescindere dalla trattazione della questione inerente ai rapporti tra ordinamento interno ed esterno (precipuamente quello euro-unitario); questione, quest’ultima, tutt’altro che teorica tenuto conto dei riflessi che l’adesione al panorama normativo sovranazionale è in grado di produrre sul tema oggetto di indagine.
Sul punto, in relazione alle diverse posizioni assunte dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea e dalla nostra Corte Costituzionale, erano emerse due posizioni su come intendere i rapporti tra i due ordinamenti: la prima, cd. “monista”, protesa a ricostruire il rapporto in termini di integrazione; la seconda, cd. “dualista”, volta a considerare i due sistemi autonomi e separati. In particolare, secondo il primo orientamento l’ordinamento euro-unitario sarebbe parte integrante dell’ordinamento giuridico degli Stati membri, con la conseguenza che tutte le fonti costituirebbero parte di un medesimo sistema e, in forza del principio di supremazia del diritto europeo, un eventuale contrasto tra sistema dovrebbe risolversi con la disapplicazione delle norme interne contrastanti. Il giudice nazionale, sempre secondo la concezione monista, avrebbe l’obbligo di applicare integralmente il diritto europeo, non applicando le disposizioni della legge interna contrastante, sia essa antecedente o successiva[5].
Ben diversa risulta, invece, la ratio che sorregge la tesi dualista. Secondo questa impostazione, i due sistemi normativi, ancorché coordinati e comunicanti, sono e rimangono distinti.
Ora, in prima battuta, la Corte Costituzionale aveva aderito alla tesi dualista. Storica rileva, sul punto, la sentenza “Frontini”[6], con la quale la Consulta negava al singolo giudice nazionale il potere di disapplicare le disposizioni interne contrastanti con il diritto europeo, avendo lo stesso solo l’obbligo di sollevare la relativa questione di legittimità.
L’adesione della Corte Costituzionale alla tesi monista, che ammetteva l’operatività dello strumento della non applicazione[7], si ebbe con uno storico intervento (cd. caso “Granital”)[8], attraverso il quale la Corte riconobbe in capo al giudice nazionale il potere di disapplicare la norma interna incompatibile con la disciplina comunitaria. All’indomani della sentenza Granital le conseguenze sulla giurisprudenza successiva possono essere così declinate:
- l’obbligo di non applicazione della normativa nazionale vale per tutti gli organi dello Stato (inclusa la PA e le AAI);
- una sentenza passata in giudicato se in contrasto con il diritto Ue;
- la prevalenza garantita al diritto Ue si estende anche alle direttive purché self-executive;
- il legislatore nazionale ha l’obbligo di depurare l’0rdinamneto nazionale dalle norme interne incompatibili con il diritto euro-unitario, sia per soddisfare l’esigenza di certezza del diritto sia per garantire nel concreto la preminenza del diritto Ue.
Ciò espresso, è opportuno operare una precisazione: il primato del diritto dell’Ue sul diritto interno non è però senza limiti.
In merito, la Corte Costituzionale (sorretta dalla Dottrina), ha sempre precisato che il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana e dei principi fondamentali costituiscono un limite “iper-rigido e invalicabile”[9] al recepimento di qualunque disposizione dell’Unione: è questa la teoria dei controlimiti.
Infine, e per completezza espositiva, è necessario sottolineare che tra le fonti di produzione normativa sovraordinate e preminenti si devono includere anche le sentenze della Corte di Giustizia Ue, stante il carattere di vincolatività erga omnes che viene riconosciute loro dai Trattati[10]. Ancora, il dialogo tra le suddette Corti è garantito attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale[11] alla Corte di Giustizia Ue. Ne deriva che, il giudice nazionale è tenuto ad uniformarsi all’interpretazione espressa dall’organo giurisdizionale comunitario e, in caso di contrasto irrimediabile, sarà tenuto a disapplicare la norma interna in contrasto con la norma sovranazionale.
Da ultimo, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, operata in forza della legge costituzionale n.3/2001, la copertura costituzionale al fenomeno dell’integrazione del diritto comunitario non è fornita più, o meglio non solo, dall’art. 11 Cost, bensì dall’art. 117 Cost., il cui primo comma, nel delineare l’esercizio della potestà legislativa statale e regionale, richiama espressamente “i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario[12]” , oltre che dagli obblighi internazionali.
Divieto di maternità surrogata e principio di ordine pubblico internazionale (SS.UU. n. 12193/2019)
Dopo aver ricostruito l’assetto dei rapporti tra ordinamento europeo e nazionale, si procede indagando il divieto di maternità surrogata, che trova giustificazione nell’essere ritenuta dalla Supremo Collegio in contrasto con l’ordine pubblico internazionale[13], oltreché offensiva della dignità della donna, non prima d’aver operato però doverose puntualizzazioni contenutistiche che agevolano la perimetrazione del campo d’analisi.
Per comprendere le peculiarità della questione bisogna innanzitutto porsi una domanda: in cosa consiste la pratica della “gestazione per altri”, cd. “maternità surrogata”?
La maternità surrogata costituisce una tipologia di fecondazione artificiale attraverso cui una donna, estranea alla coppia, si impegna a portare avanti una gravidanza e a consegnare il frutto del parto ai committenti, che diventeranno i genitori, con ciò rinunciando a ogni diritto sul neonato. Nei Paesi in cui è considerata lecita pratica di fecondazione, la causa del relativo contratto può essere di tipo solidaristico come accede in Inghilterra, ovvero oneroso, come avviene in Ungheria.
In Italia, prima dell’introduzione della Legge n.40/2004, che ha vietato categoricamente il ricorso a tale pratica, si rilevavano timidi avvicinamenti circa l’ammissibilità della surrogazione a scopo solidaristico, mentre si considerava nulla ex art. 5 c.c.[14] l’opzione onerosa.
Ancora, la maternità surrogata può essere di tre tipi:
- surrogazione di utero, altrimenti nota come “utero in affitto”: in cui gli ovociti e gli spermatozoi appartengono alla coppia, ma l’embrione viene impiantato nell’utero di un’altra donna. Questa pratica figura come fecondazione artificiale omologa;
- surrogazione di ovocita e di utero: che rileva come fecondazione artificiale eterologa, perché sia gli ovociti che l’utero appartengono alla madre surrogata, la quale assume la duplice veste di madre biologica e madre gestante;
- surrogazione gestazionale: in cui i soggetti coinvolti sono quattro, perché oltre alla coppia e alla donna che si impegna a portare a termine la gravidanza, vi è un’altra donna donatrice dell’ovocita. Anche questa, al pari della precedente, rileva come fecondazione artificiale eterologa.
Ora, a seguito della declaratoria di incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa[15] , ad opera della sentenza n.162/2014 della Corte Costituzionale, il problema emerge in relazione alla ragionevolezza del divieto di maternità surrogata, almeno per quanto riguarda la prima forma, cioè la surrogazione in utero.
“Nella permanenza del divieto” problemi applicativi sono sorti, e continuano a sorgere, in relazione all’ipotesi in cui una coppia si rechi all’estero, in Paesi dove il ricorso a tale pratica di fecondazione è consentito, e una volta tornata in Italia chieda il riconoscimento del rapporto di filiazione. Più in particolare, la Legge n. 40/2004 non prevede alcuna regolamentazione della acquisizione o mantenimento dello stato di filiazione rispetto al nato in violazione del divieto in esame, esponendo lo stesso a conseguenze parzialmente differenti a seconda che sussista, o meno, un legame genetico con uno dei componenti della coppia committente (sia omosessuale che eterosessuale).
Invero, laddove questo legame genetico non esista, il minore può essere esposto all’applicazione della disciplina in materia di adozione e, di conseguenza, all’allontanamento dalla coppia committente. Per converso, una volta rilevata la vigenza del legame genetico, almeno con uno dei componenti della coppia, si pone la diversa questione del possibile riconoscimento del legame di filiazione (solo) intenzionale del componente della coppia che non ha apportato alcun contributo genetico.
Così, mentre i giudici di merito tendono a riconoscere il rapporto di filiazione istaurato all’estero, sempreché siano state rispettate le leggi del Paese estero, in omaggio al favor filiationis; i giudici di legittimità, invece, escludono il riconoscimento del rapporto di filiazione della maternità surrogata avvenuta all’estero ritenendo che non possa esserci coincidenza tra l’ordine pubblico internazionale e l’ordine pubblico interno. Nel dettaglio si anticipa che, secondo la Cassazione, l’ordine pubblico internazionale non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma deve ricomprendere anche i principi fondamentali dell’ordinamento. A tale fine, la Corte ritiene che uno dei principi irrinunciabili del nostro ordinamento sia racchiuso all’art. 269, comma 3, c.c., in forza del quale la madre è colei che partorisce[16].
Ma procediamo con ordine.
Con sentenza n. 12193/2019 le Sezioni Unite civili si sono espresse sul divieto di maternità surrogata cassando l’ordinanza della Corte d’Appello di Trento, la quale aveva riconosciuto efficacia all’atto di nascita, prodotto all’estero, di minori nati mediante il ricorso alla surrogazione di maternità da parte di coppia (nella fattispecie) omosessuale maschile.
Il giudizio incardinato vedeva i genitori, esercenti la relativa responsabilità nei confronti dei minori, chiedere che fosse riconosciuta, sulla scorta dell’art. 67 della Legge n.218/1995, efficacia nell’ordinamento nazionale del provvedimento emesso dalla Corte Superiore di Giustizia dell’Ontario (Canada), mediante il quale veniva accertato il rapporto di genitorialità tra uno dei coniugi e i minori. Si insisteva, altresì, per la trascrizione dell’atto di nascita dei minori all’interno dei Registri dell’Ufficio di stato civile del Comune di Trento. I minori erano nati a seguito di procreazione medicalmente assistita e solo con uno dei due istanti sussisteva legame biologico (stante la donazione del seme da parte di uno dei due genitori e l’assenza di contributo genetico dell’altro), i quali avevano reperito una donna disposta a donare i propri ovociti ed un’altra pronta a portare avanti la gestazione.
A parere della Corte, si trattava di una tecnica procreativa assimilabile alla maternità surrogata e, in quanto tale, in palese contrasto con la disciplina vigente nel nostro ordinamento giuridico.
Il ricorso accolto dalla Corte d’Appello di Trento, invece, mirava ad attribuire preminenza all’interesse superiore del minore alla conservazione dello status figlio (cd. favor filiationis), come suggellato dalla Legge n. 218/1995 e dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo[17]. Nello specifico, la Corte territoriale, pur puntualizzando che la vigente disciplina in Italia (Legge n.40/2004) consente alle sole coppie di sesso diverso di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita, irrogando sanzioni amministrative nel caso si tratti di omosessuali e sanzioni penali in caso di pubblicizzazione o commercializzazione di gameti o embrioni, affermava che la suddetta pratica non costituisse espressione di principi costituzionali inderogabili. In sostanza, la violazione delle disposizioni contenute nella Legge n.40/2004 non può essere tanto grave da pregiudicare la condizione di chi è nato e di chi vuole assumersi la responsabilità di crescere un minore anche in assenza di un legame genetico con lo stesso.
Nel proprio decisum, invece, le Sezioni Unite vanno nell’opposta direzione.
Secondo il Supremo Collegio, a differenza di quanto prescritto dalla legge canadese, che ammette il ricorso alla maternità surrogata, il nostro ordinamento non consente l’accesso a tale pratica. Ancora, per quanto poi la Legge n.40/2004 non contempla disposizioni che precludono al riconoscimento d’efficacia di provvedimenti che derivano da Autorità straniere, tale apertura nel nostro sistema non è sempre ammessa.
E non può esserlo se vi è contrasto con l’ordine pubblico[18].
A riguardo, il Supremo Collegio, enuncia il seguente principio di diritto: “in tema di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l’ordine pubblico richiesta dagli art. 64 e ss. della legge n.218/1995 deve essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti, nonché dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente dal quale non può prescindersi nella ricostruzione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico. […] La libertà e la volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori e di formare una famiglia non implica che la libertà in esame sia senza limiti. Tra questi vi è da annoverare il divieto di maternità surrogata che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane e, per tale motivo, è vietata dalla legge”.
Da ultimo, le conclusioni cui pervengono le Sezioni Unite inducono a ritenere che la tutela dell’ordine pubblico, non irragionevolmente ritenuto preminente sull’interesse del minore, non esclude la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, prevista all’art. 44, c.1, lett. d), Legge n.184/1983
Di recente, con sentenza n. 38162/2022, ancora una volta le Sezioni Unite civili hanno ribadito che il riconoscimento del provvedimento straniero che attesta il rapporto di filiazione con il cd. “genitore d’intenzione” di un minore nato attraverso la pratica della maternità surrogata è contrario all’ordine pubblico nazionale. Per l’effetto deve essere esclusa l’automatica trascrizione del provvedimento giudiziario straniero attestante il rapporto di filiazione sorto a seguito del ricorso alla pratica della maternità surrogata; il tutto, per disincentivare il ricorso ad una procedura che asseconda la mercificazione del corpo, spesso a discapito delle donne più vulnerabili sul piano economico e sociale.
L’intervento della Corte Costituzionale: sentenza n. 33/2021
Con la recente sentenza n. 33/2021, la Corte Costituzionale ha avuto occasione di esaminare alcune questioni di illegittimità costituzionale riferite allo stato civile dei minori nati attraverso la pratica della maternità surrogata che, si ripete, nel nostro ordinamento è proibita dall’art. 12 Legge n. 40/2004, ai sensi del quale: “Chiunque, in qualsiasi forma, realizza organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione della maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro”.
Il giudizio innanzi alla Consulta si incardina a seguito della presentazione dell’ordinanza n. 8325/2020 attraverso la quale la I^ Sezione della Corte di Cassazione aveva sollevato questione di legittimità costituzionale nei confronti del mancato riconoscimento del provvedimento che accertava il rapporto di filiazione con il genitore intenzionale, il quale aveva fatto ricorso alla procreazione mediante maternità surrogata, seguendo quanto regolamentato dall’ordinamento estero.
Nel dettaglio, si ravvisava contrasto tra gli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 Cost e l’art. 8 CEDU, oltreché gli artt. 2, 3, 7, 8, 9, della Convenzione sui diritti del fanciullo e l’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nella parte in cui le citate disposizioni non consentono, secondo l’interpretazione più recente del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e reso esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero che riconosce il rapporto di filiazione costituito tra il genitore di intenzione ed il minore procreato con la tecnica della gestazione per altri. Inoltre, sempre secondo la Sezione remittente, l’attuale interpretazione del diritto vivente in Italia non sarebbe adeguata agli standard di tutela dei diritti del minore presenti nelle legislazioni sovranazionali, dal momento che la soluzione proposta dalle SS. UU. n. 12193/2019, ossia di far ricorso all’istituto dell’adozione in casi particolari da parte del genitore di intenzione, non risolverebbe la frizione presente tra la nostra disciplina e l’indirizzo sovranazionale, non essendo una adozione capace di realizzare un vero e proprio rapporto di filiazione. Invero, tale forma di adozione creerebbe una discrepanza tra la condizione del genitore biologico e quello di intenzione, considerato che l’adozione in casi particolari non costituisce legami parentali con i congiunti dell’adottante, presenta delle limitazioni del diritto a succedere e, ad ogni modo, non garantisce quella tempestività del riconoscimento del rapporto di filiazione che, a protezione esclusiva della condizione di vulnerabilità del minore, è richiesta dalla Corte EDU.
Con la sentenza n. 33/2021, la Consulta, pur non rinvenendo profili di contrasto con le norme citate, coglie l’occasione per sollecitare il legislatore ad intervenire attraverso la predisposizione di una disciplina chiara, mirata e capace di evidenziare l’assoluta centralità dell’interesse del minore, il quale esige che sia riconosciuta e garantita non soltanto la titolarità dei doveri legati all’esercizio della responsabilità genitoriale, ma anche, in ossequio ad un principio di progressione logica, la rilevanza del rapporto di filiazione in capo ai soggetti che si occupano del minore.
In sostanza, lo scopo che il Legislatore dovrà perseguire si sostanzia, in forza dell’attuale sistema normativo e salvo futuri interventi che segneranno una rivoluzione in materia, nella ricerca del miglior bilanciamento tra la disincentivazione del ricorso alla tecnica della maternità surrogata (allo stato, si ripete, ancora vietata nel nostro Paese) e l’interesse del minore mediante la tutela del proprio status e la rilevanza della costituzione e continuità dei legami affettivi (di fatto) costituiti.
Invero, aldilà delle opinioni democraticamente divergenti, occorre ribadire che ciò che è in discussione è unicamente la protezione delle istanze del minore, che non può che realizzarsi attraverso il riconoscimento, in capo a costoro che hanno assunto la decisione e la responsabilità di farlo venire al mondo, di tutta quella costellazione di doveri e diritti che rilevano quando occorre dar concretezza al principio internazionale del “best interests of child”[19].
Concludendo, la decisione della Corte, pur confermando la posizione delle Sezioni Unite rispetto alla contrarietà della maternità surrogata nei confronti dell’ordine pubblico, apre la strada ad un adeguamento importante della legislazione attuale, che si mostri maggiormente aderente alla dinamicità dell’attuale assetto sociale.
Una riflessione sui diritti coinvolti
Nel dedalo delle scelte con le quali si individuano i fini che lo Stato decide di perseguire in un determinato momento storico, che legittimamente mutano sulla scorta del più aulico tra i principi dello Stato di diritto, quale è quello democratico, la legiferazione secondo principi rappresenta la costante, non solo per assolvere alla funzione di certezza del diritto, ma perché in essi sono racchiusi i valori che modellano ogni ordinamento. Così, se le singole disposizioni possono esprimere configurazioni parzialmente diverse in funzione dell’attività dell’interprete o del Legislatore che in un dato momento storico si trova a gestirle; di contro, questo grado di duttilità viene meno quando si tratta di principi generali, specie in presenza di presidi costituzionali, assolvendo alla particolare funzione d’essere sensibili alle trasformazioni valoriali che caratterizzano l’evoluzione dell’uomo e, al tempo stesso, baluardo invalicabile nel processo legislativo e decisionale.
Alla luce di quanto fin qui trattato, allora, è opportuno richiamare alcuni principi generali sovranazionali rispetto ai quali il vuoto normativo presente nel nostro ordinamento entra in contrasto, che impone, si ripete, ai minori nati all’estero da GPA la possibilità di essere riconosciuti solo attraverso l’adozione in casi particolari, non essendo automaticamente trascrivibile il loro atto di nascita costituito in essere all’estero.
In ordine, è certamente coinvolto l’art. 16 contenuto nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, alla lettera del quale: “Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza, religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto dello scioglimento. […] La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato”.
Doveroso, inoltre, è il riferimento alla Dichiarazione Universale dei Diritti del Fanciullo, nel cui preambolo, e nei principi che ne costituiscono il precipitato, si racchiude la portata rivoluzionaria di tale documento. Invero, espresso apertamente il dogma secondo cui “l’umanità ha il dovere di dare al fanciullo il meglio di sé stessa”, la Dichiarazione prosegue suggellando al sesto principio la necessità che il minore cresca all’interno di un ambiente armonioso e stabile, sostenendo, precisamente che: “Il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità ha bisogno di amore e di comprensione. Egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori e, in ogni caso, in atmosfera d’affetto e di sicurezza materiale e morale”.
Ancora, si menziona l’art. 8 CEDU, che, ai fini della presente disamina, tutela la vita privata e familiare dalle ingerenze arbitrarie da parte della pubblica Autorità, disponendo che: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”.
Infine, l’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, espressamente rubricato “Diritti del minore”, il quale interviene apertamente per creare una dimensione di protezione del minore granitica, sostenendo, più in particolare, che: “I minori hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione. Questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità. In tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiti da autorità pubbliche o istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente. Il minore ha diritto di intrattenere regolamentate relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse”.
Sulla scorta di quanto espresso, se è vero che il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi del minore nato da maternità surrogata non può che spettare al Legislatore (evitando di porre l’interprete nell’imbarazzo di dover colmare il vuoto di tutela), sarà altrettanto vero dover ammettere che siffatto intervento dovrà avvenire, si auspica, all’interno del perimetro tracciato dai principi sovranazionali.
Concludendo, evitando l’extrema ratio “dell’appello al cielo”, si confida in un prossimo intervento del Legislatore per far chiarezza rispetto alle delicate questioni che tipizzano questa materia; soltanto il Legislatore, infatti, è in grado di definire una disciplina esaustiva, individuando soluzioni di carattere generale e astratto, in grado di contemperare tutti gli interessi in gioco.
[1] Art. 12 Preleggi- Interpretazione della legge: “[…] se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”.
[2] Art 101 Cost.: “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
[3] In sostanza l’attività demandata al giudice non può tradursi nella creazione di nuove norme. Sul punto, Cass. SS.UU. n. 38162/2022.
[4] Art. 87 Cost: “Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale. […] Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere”.
[5] Tale concezione è stata sostenuta dalla Corte di Giustizia Ue a partire dalla nota sentenza “Simmenthal” (CGCE, causa C-106/77), secondo la quale in sede di applicazione delle norme comunitarie è compito di ciascun giudice nazionale garantire la piena efficacia delle stesse, disapplicando la norma interna contrastante.
[6] Corte Cost., n.173/1983.
[7] La Corte Costituzionale specifica che è più corretto parlare di non applicazione poiché la disapplicazione evoca vizi della norma nazionale.
[8] Corte Cost, n. 170/1984.
[9] Emblematica sul valore dei controlimiti la cd. “saga Taricco” cominciata con la sentenza della Corte di Giustizia Ue (causa- C-105/2014) e conclusa con la sentenza della Corte Costituzionale n. 115/2018.
[10] Le statuizioni della Corte di Giustizia Ue entrano a far parte dell’ordinamento europeo, poiché ne integrano il contenuto in via interpretativa e sono direttamente applicabili dagli Stati membri alla stregua delle norme europee immediatamente applicabili.
[11] L’art. 267 del TFUE attribuisce alla CGUE la competenza a pronunciarsi, in seguito alla richiesta di un organo giurisdizionale di uno Stato membro: a) sull’interpretazione dei trattati e b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi e dagli organismi dell’Unione.
[12]Art. 117 Cost: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali […]”.
[13] Il richiamo all’ordine pubblico internazionale, che sostiene il divieto al ricorso della maternità surrogata, ha trovato la sua prima manifestazione nella sentenza, resa a Sezioni Unite, n. 12193/2019 e recentemente nella sentenza, resa sempre a Sezioni Unite, n. 38162/2022.
[14] Art. 5 c.c.: “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”.
[15] Art. 4, comma 3, Legge n.40/2004.
[16] Art. 269 c.c.: “[…] La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre”.
[17] Convenzione sui diritti del fanciullo, New York, 1989: è un Trattato sui diritti umani che stabilisce diritti civili, politici, economici, sociali, sanitari e culturali dei bambini.
[18] Esso è considerato il complesso dei principi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità internazionale, all’interno di un determinato periodo storico, e dei principi inderogabili immanenti ai più importanti statuti giuridici.
[19] Questo principio impone che nelle decisioni concernenti il minore venga sempre ricercata la soluzione ottimale in concreto per l’interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior cura della persona.