Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con Sentenza n. 11018 dell’8 maggio 2018 hanno affrontato una questione di spiccata rilevanza: la prescrizione del diritto all’indennizzo previsto dall’art. 35–ter, ord. pen., per detenzione espiata in condizioni contrarie all’art. 3 CEDU[1], analizzandone la natura e la disciplina, fortemente influenzata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Il caso
Il caso sottoposto all’attenzione delle Sezioni Unite trae origine dal ricorso per Cassazione promosso dal Ministero della Giustizia a seguito dell’accoglimento da parte del Tribunale di L’Aquila della domanda di risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 35-ter, l. 354/1975[2], per aver subito un trattamento inumano e degradante, in aperta violazione dell’art. 3 CEDU, a causa delle condizioni della detenzione espiata tra gli anni 1996 e 2014.
Le difese avanzate dal Ministero convenuto, nel corso del primo grado, hanno riguardato essenzialmente il profilo attinente alla prescrizione del diritto al risarcimento dell’attore per il periodo precedente ai cinque anni – ovvero in subordine ai dieci – in quanto la richiesta ben avrebbe potuto essere posta anche prima dell’introduzione del rimedio di cui all’art. 35-ter, ord. pen.
Il Ministero, con l’unico motivo di ricorso – violazione dell’art. 2935 e dell’art. 2947 c.c nonché dell’art. 35-ter dell’ordinamento giudiziario – ha quindi sostenuto che la norma relativa ai rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 della Convenzione non avesse introdotto alcun diritto nuovo, ma si fosse semplicemente limitata a semplificare l’azione di risarcimento del danno prevista dell’art. 2043 c. c.
In considerazione della specificità e dell’importanza del tema sollevato innanzi alla sezione III della Corte di Cassazione, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite, che si sono pertanto interrogate sulla natura giuridica del rimedio introdotto nel 2014, unitamente alla sua disciplina ed al suo ambito di applicazione.
I precedenti giurisprudenziali della Corte EDU
Le Sezioni Unite, nel loro percorso motivazionale hanno tratteggiato le pronunce della Corte Europea del Diritti dell’Uomo in tema di sovraffollamento carcerario in Italia e le ricadute che le stesse hanno avuto circa il rispetto delle condizioni di vita dei detenuti.
I giudici della Suprema Corte, dunque, hanno iniziato la ricostruzione storica partendo dal leading case Torreggiani c. Italia (8.1.2013).
Nell’ambito di tale procedimento, i detenuti hanno sostenuto di essere stati reclusi in celle di dimensioni inferiori a tre metri quadri per persona, con limitazioni di acqua calda e di luce e la Corte, dopo aver rigettato l’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in quanto non effettive, è pervenuta alla lapidaria affermazione della violazione dell’art. 3 CEDU.
I giudici, in quel caso, hanno sostenuto che la miglior riparazione possibile per il detenuto sarebbe stata quella di garantire una celere cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti, unitamente all’ottenimento di una riparazione per la violazione subita.
La Corte, inoltre, non ha mancato di criticare apertamente i rimedi previsi dell’ordinamento italiano dell’epoca, ed ha infatti ritenuto che quanto contemplato dagli art. 35 e 69, ord. pen. (reclamo al magistrato di sorveglianza) fosse “uno strumento accessibile ma non effettivo nella pratica” e che “lo stato italiano non ha dimostrato l’esistenza di un ricorso in grado di consentire alle persone incarcerate in condizioni lesive della loro dignità di ottenere una qualsiasi forma di riparazione per la violazione subita”.
A seguito di tali rilievi, la Corte, condannando l’Italia, ha dichiarato che – a causa della violazione dell’art. 3 della CEDU – le autorità interne avrebbero dovuto creare entro un anno e senza indugio un sistema che avesse effetti compensativi e preventivi e che fosse in grado di garantire una riparazione effettiva in seguito alle subite violazioni della Convenzione.
A distanza di un anno, poi, la Corte EDU è tornata sul caso italiano affrontando la controversia Stella c. Italia (16.9.2014), questa volta apprezzando gli interventi strutturali che hanno – quantomeno – sensibilmente ridotto il numero dei detenuti ed aumentato lo spazio disponibile all’interno di ogni cella, dando altresì atto che “lo Stato Italiano ha riformato la legge sull’ordinamento penitenziario” (di cui si dirà infra).
Il quadro normativo
A seguito della disamina delle pronunce maggiormente rilevanti in tema di risarcimento da detenzione in condizioni inumane e degradanti, i Giudici di Piazza Cavour hanno posto l’attenzione sull’evoluzione normativa nata proprio dagli stimoli promananti dalla Corte EDU.
In particolare, l’attenzione delle Sezioni Unite si è soffermata sul d.l. 26.6.2014 n. 92 – convertito in l. 14.8.2014 n. 117 – con cui il Governo ha preso una prima e ferma posizione in materia, apportando sensibili modifiche all’ordinamento penitenziario e prevedendo i rimedi preventivi e compensativi cui Strasburgo aveva largamente fatto cenno.
L’art. 1 del predetto decreto legge ha dunque introdotto l’art. 35-ter che, mediante un richiamo esplicito alla disciplina di cui alla disposizione prevista dall’art. 69 co. 6, lett. b)[3], delimita e precisa i presupposti ed i rimedi attuabili nel caso in cui il pregiudizio consista in “un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”[4].
Da una lettura della disposizione, si rileva che, ove vi sia stata la predetta violazione, il magistrato di sorveglianza disporrà, dunque, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito pregiudizio, ovvero, laddove il periodo di pena da espiare sia tale da non consentire la detrazione nei predetti modi, il magistrato liquiderà, altresì ed in relazione al periodo residuo una somma di denaro pari ad euro 8,00 per ogni giornata di pregiudizio subito.
Il rimedio meramente economico è attuabile, altresì, in ipotesi di terminata detenzione o di conclusa custodia cautelare in carcere, non potendo applicarsi una riduzione di pena laddove non ci sia più alcuna pena da espiare, con competenza del Tribunale civile in composizione monocratica del capoluogo del distretto in cui l’ex detenuto ha la residenza.
L’azione così esercitata, per espressa previsione, deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere.
In tale ultimo caso, pertanto, la forma del risarcimento ha ovviamente una composizione mista e non si riduce ad uno sconto di pena.
Da ultimo, la norma introdotta con il D.L. del 2014 prevede una disciplina transitoria per due categorie di persone: da un lato, coloro che alla data di entrata in vigore del predetto D.L. avevano terminato la carcerazione possono proporre l’azione di risarcimento entro il termine di decadenza di sei mesi decorrenti dalla data di entrata in vigore del decreto e, dall’altro, tutti coloro che abbiano già presentato ricorso alla Corte EDU, possono comunque proporre la domanda ex art. 35-ter co. 3, L n. 354/75 qualora non sia intervenuta una decisione riguardo la ricevibilità del ricorso da parte della Corte stessa.
Il punto delle Sezioni Unite
La Corte, nell’affrontare il problema della fondatezza o meno dell’eccezione di prescrizione quinquennale o decennale del diritto al risarcimento sollevata dal Ministero, ha ripercorso il susseguirsi delle decisioni emesse sul punto dalle sezioni penali.
In particolare la sentenza n. 879/2016, pur non concentrandosi sullo specifico tema della prescrizione del diritto ha sottolineato ed apprezzato l’introduzione per la prima volta nell’ordinamento italiano di “un istituto con finalità riparatorie e di riequilibrio in parte compensatrici della lesione della libertà rivelatasi ingiusta”.
Un anno dopo, la prima sezione della Corte, con pronuncia n. 9658/2017, si è interrogata sulla rilevabilità della prescrizione del diritto ad ottenere il ristoro previsto dall’art. 35-ter, ord. pen. escludendo lapidariamente che la prescrizione possa decorrere da prima della sua introduzione – quindi prima del 26.6.2014 – a causa del carattere innovativo del disposto.
Più nello specifico, invece, nel 2017 (31475/2017) la Cassazione si è occupata di un caso in cui l’eccezione di prescrizione era stata oggetto di uno specifico motivo di reclamo da parte del Ministero della giustizia, precisando come il termine non potesse che decorrere dall’introduzione nell’ordinamento dell’art. 35-ter ord. pen. in considerazione – ancora una volta – del suo carattere innovativo ed alternativo rispetto alla tutela risarcitoria codicistica.
A risolvere definitivamente la querelle sono intervenute le Sezioni Unite penali con la sentenza Tuttolomondo resa il 26.1.18 definendo che “la prescrizione del diritto leso dalla detenzione inumana e degradante azionabile dal detenuto ai sensi dell’art. 35-ter c. 1 e 2, ord. pen., per i pregiudizi subiti anteriormente all’entrata in vigore del decreto legge n. 92 del 2014, decorre dal 28 giugno 2014” – data di entrata in vigore del rimedio – poiché “integra un impedimento all’esercizio del diritto rilevante ai sensi del generale principio di cui all’art. 2935 c.c. in base al quale la prescrizione decorre soltanto dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.
Nel solco delle elaborazioni giurisprudenziali soprariportate, le Sezioni Unite, nella pronuncia che qui occupa, dopo aver specificato che nella sentenza Tuttolomondo la Corte intende “il giorno in cui il diritto può essere fatto valere” come possibilità legale di azionare il diritto e non, salvo eccezioni previste dalla Legge, l’impossibilità di fatto di agire, arriva a ribadire che il rimedio introdotto dall’art. 35-ter, ord. pen. è del tutto nuovo e distinto da quello desumibile dal contesto normativo precedente ma che, tuttavia, la novità dell’istituto non ne esclude la retroattività.
Infatti, continua la Suprema Corte, se è vero che ai sensi dell’art. 11, disp. prel. c. c. la legge dispone per l’avvenire, è altrettanto vero che è stato il Legislatore stesso a conferire carattere retroattivo alla disciplina e ciò con un doppio ordine di motivi: i) lo si desume dal senso complessivo della normativa del 2014, ii) lo si deduce dalla lettura della normativa intertemporale che fa inequivocabilmente riferimento a detenzioni inumane e degradanti già conclusesi – e quindi anteriori – al momento dell’entrata in vigore della legge.
A seguito di questa premessa, i Giudici di Piazza Cavour si sono soffermati sulla natura di “quanto previsto a titolo di risarcimento del danno”.
Come più volte affermato dalle sezioni penali, non si può concordare sul qualificare come vero e proprio risarcimento quanto spettante al soggetto leso – pur se il Legislatore impiega tale termine -, poiché si è in presenza di un mero indennizzo, ossia un compenso contenuto e “di meccanica e uniforme quantificazione”.
Quanto previsto dalla norma è infatti una mera forfetizzazione della liquidazione che si risolve solo nell’estensione temporale del pregiudizio “senza nessuna variazione in ragione della sua intensità e senza alcuna considerazione delle eventuali peculiarità del caso”, mancando il rapporto tra specificità del danno e quantificazione economica che caratterizza il risarcimento, oltre ad ogni valutazione del profilo soggettivo.
La natura indennitaria del rimedio, pertanto, porta ad escludere l’applicabilità della regola dettata per la prescrizione del diritto al risarcimento prevista dall’art. 2947 c.c., valendo quindi la regola generale della prescrizione decennale e, essendo tale indennizzo direttamente proporzionale al numero di giornate di detenzione degradante, deve ritenersi maturato giorno per giorno con i conseguenti risvolti sul metodo di calcolo della prescrizione. In caso di situazioni in cui la detenzione sia terminata prima dell’entrata in vigore dell’art. 35-ter, ord. pen., come già ampiamente rilevato, il termine di prescrizione decorre – e non potrebbe diversamente – da quest’ultima data.
Da ultimo, la Corte si è soffermata sul regime della decadenza – che non è incompatibile con la prescrizione – e che si atteggia diversamente in base al momento di conclusione del periodo detentivo.
Infatti, recita la Cassazione, “se nell’ambito della disciplina transitoria … la prescrizione decorre dall’entrata in vigore della legge, questa forma di estinzione rimarrà assorbita in tutti i casi in cui il diritto viene meno perché l’azione non è stata proposta nel termine di decadenza di sei mesi dalla entrata in vigore della legge” ed ancora, “al contrario, nel meccanismo a regime, potrà accadere che la prescrizione maturi in corso di detenzione e quindi prevalga sulla decadenza che, ai sensi dell’art. 1, decorre dalla cessazione dello stato di detenzione”.
Il principio di diritto
Alla luce di quanto rilevato, rigettando il ricorso promosso dal Ministero della Giustizia e ritenendo il caso in esame ricompreso nella disciplina transitoria, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione non hanno ritenuto prescritto il diritto previsto dall’art. 35-ter, ord. pen. e sono giunte ad affermare il seguente principio di diritto:
“Il diritto ad una somma di denaro pari a otto euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, previsto dall’art. 35-ter, terzo comma, ord. pen., si prescrive in dieci anni, che decorrono dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle su indicate condizioni. Coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, se non sono incorsi nelle decadenze previste dall’art. 2 d.l. 92/2014 convertito in l. 117/2014, hanno anch’essi diritto all’indennizzo ex art. 35-ter, terzo comma, ord. pen., il cui termine di prescrizione in questo caso non opera prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del decreto legge”.
[1] Art. 3 CEDU: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
[2] L. 26.7.1975, 1. 354. Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà.
[3] Art. 69 co. 6 L. 26.7.75, n. 354: “(ndr. Il magistrato di sorveglianza provvede a norma dell’art. 35 bis sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti: a) le condizioni di esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell’organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa; nei cadi di cui all’art. 39, comma 1, numeri 4 e 5, è valutato anche il merito dei provvedimenti adottati; b) l’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti”.
[4] Cfr. Art. 35-ter L. 26.7.1975 n. 354