Il diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione ed il diritto alla libera esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane sono tutelati dalla Costituzione e dall’art. 8 della Cedu.
Di conseguenza la loro lesione causata da immissioni vietate comporta il risarcimento del danno non patrimoniale indipendentemente dall’esistenza di un danno biologico documentato.
Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 1606 del 20 gennaio 2017.
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Le immissioni nel diritto privato
Le immissioni sono propagazioni di fattori disturbanti causate dall’opera dell’uomo ed hanno ad oggetto molteplici entità, quali: fumo, calore, gas, odori, rumori, polvere, onde elettromagnetiche (come affermato dal Trib. Como con sentenza del 23 Novembre 2005) ecc..
Le immissioni rientrano nell’alveo dei rapporti di vicinato e sono disciplinate dall’art. 844 c.c., che stabilisce i criteri per regolare eventuali conflitti tra usi incompatibili di fondi vicini, determinati dalla propagazione di fattori disturbanti causati dall’opera dell’uomo.
L’art. 844 c.c. si ricollega al principio generale dell’art. 840, comma II, c.c. ma al tempo stesso si configura come norma speciale, in quanto pone limiti a tale facoltà cercando di conciliare gli interessi della proprietà con quelli dell’industria ed obbliga il proprietario in talune circostanze a subire le immissioni altrui.
Per qualificare vietata un’immissione occorre valutare la presenza di tre elementi:
- la materialità dell’oggetto;
- la derivazione dal fondo del vicino;
- il superamento della normale tollerabilità.
La materialità dell’immissione inerisce al fatto che questa cada sotto la sfera sensoriale dell’uomo o che comunque influisca oggettivamente sul suo organismo (Cass. 1404/1979).
Le immissioni ideali, consistenti nell’esposizione alla vista di cose squallide ed attività ripugnanti, non sono considerate vietate.
La derivazione dal fondo altrui fa riferimento invece alla circostanza che le immissioni devono essere indirette, escludendo che possano consistere in un fare oppure in fenomeni naturali (Cass. 1404/1979).
Questo secondo elemento testimonia che le immissioni devono costituire delle ripercussioni della propria attività svolta sul fondo.
Il concetto della vicinanza del fondo ha ormai perso rilevanza, difatti tale termine non si riferisce più alla prossimità dell’immobile ma contempla anche le ipotesi in cui le immissioni derivino da molto lontano, come ad esempio nel caso di radiazioni atomiche.
Per valutare la tollerabilità di un’immissione bisogna anche fare riferimento alla sua sopportabilità secondo la coscienza sociale, pertanto tale dato assume dei connota più relativistici che personalistici.
La normale tollerabilità va accertata sulla base di una valutazione obiettiva che prescinde dall’eccezionalità delle condizioni soggettive e dell’attività della persona.
Anche la condizione dei luoghi può assurgere a canone di valutazione, in tal caso però il giudizio deve essere emesso in relazione alla destinazione d’uso del fondo colpito e dei fondi della zona (Cass. 10588/1995).
Quanto precedentemente affermato attiene alla disciplina privatistica delle immissioni che si distingue dalla normativa di diritto pubblico che invece stabilisce dei limiti massimi di inquinamento allo scopo di tutelare la salute e l’ambiente.
Tali limiti imposti dalla disciplina di diritto pubblico non sono applicabili ai rapporti tra proprietari quindi il loro rispetto non esclude il giudizio di intollerabilità delle immissioni.
Viceversa la Corte di Cassazione con sentenza n. 23823/2014 ha stabilito che la loro violazione non consente di giudicare tollerabili tra vicini immissioni vietate nell’interesse generale.
Occorre però sottolineare che nel caso in cui le immissioni provengano da un’attività produttiva il giudice secondo la formula del codice deve contemperare l’esigenze della produzione con le ragioni della proprietà.
L’art. 844 secondo comma c.c. ammette che le immissioni provenienti da attività industriali possono superare i limite della normale tollerabilità, la ratio di tale comma si ricollega all’attenzione che il legislatore del 1942 dedicava agli interessi dell’industria.
Si rileva i rimedi esperibili contro le immissioni sono azioni di carattere reale intese ad ottenere una condanna di tipo inibitorio ed, infine, azioni di carattere personale, quali risarcimento per i danni patrimoniali e non.
La tutela penalistica nel caso di immissioni vietate
L’art. 659 c.p., fattispecie di natura contravvenzionale, tutela la collettività da immissioni moleste che potrebbero offendere beni giuridici, quali:
- l’ordine pubblico, inteso come buon assetto ed il regolare andamento della vita sociale;
- la tranquillità pubblica, rappresentata dalla serenità di animo che deriva al popolo dall’assenza di motivi di allarme, di commozione e di molestia.
L’art. 659 c.p. disciplina due distinte fattispecie di reato:
- il primo comma sanziona il disturbo della pubblica quiete da schiamazzi o rumori, oppure l’abuso di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche;
- il secondo comma punisce l’esercizio di una professione rumorosa che viola le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’Autorità.
Dopo aver illustrato brevemente alcune caratteristiche dell’art. 659 c.p. occorre analizzare il percorso logico giuridico che ha portato la Corte di Appello a sussumere il caso di specie all’interno dell’art. 659 c.p. anziché dell’art. 674 c.p.
La Corte distrettuale ha escluso l’applicabilità dell’art. 674 c.p. per l’assenza dell’offensività nella condotta di P.E., difatti la stessa Corte afferma che la verniciatura non può arrecare offesa ad alcunché bene giuridico tutelato dal nostro ordinamento.
I rumori causati dall’utilizzo del carroponte, dal maglio ad aria rientrano nel reato di cui all’art. 659 c.p. poiché possono offendere tutti coloro che ne siamo a contatto.
La giurisprudenza a tal riguardo ha chiarito con sentenza n. 47830/2013 che “affinché si possa configurare un reato è necessario che i rumori arrechino di un reato è necessario che i rumori arrechino disturbo ad un numero indeterminato di persone. Non è sufficiente quindi che il disturbo alla quiete interessi un solo soggetto”.
Il ragionamento sopra esposto dalla Corte di Appello di Venezia ha giustificato la condanna di P.E. al risarcimento nei confronti degli appellati.
La Corte di Cassazione in tale pronuncia rileva la correttezza dell’operato della Corte di Appello di Venezia ed aggiungono in via ulteriore che seppure il reato fosse stato inquadrato diversamente nel caso di specie le conseguenze civili non sarebbero cambiate, per tal motivo sostiene di non dover censurare la decisione del precedente grado di giudizio.
Il risarcimento del danno non patrimoniale per immissioni: le sezioni semplici anticipano le Sezioni Unite
In primo luogo, dal punto di vista del diritto processuale, la Corte ha escluso l’ammissibilità della prova testimoniale nei giudizi riguardanti i divieti di immissioni, ammettendola soltanto quando si verta su fatti caduti sotto la percezione sensoriale dei deponenti.
Ciò è coerente con la circostanza che la normale tollerabilità delle immissioni può essere accertata soltanto attraverso una valutazione tecnica la quale richiede necessariamente una consulenza tecnica di ufficio.
Questa sentenza ha pertanto condiviso l’orientamento giurisprudenziale, espresso con sentenza n. 20927/2015, che aveva escluso la documentazione di un danno biologico nel caso in cui il risarcimento abbia ad oggetto la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione conseguente ad immissioni illecite.
Lo stesso ragionamento era stato recepito anche dalla Corte di Appello di Venezia la quale aveva ritenuto risarcibile il pregiudizio subito dagli attori.
Le ragioni di una tutela così forte al diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione si rinvengono nel fatto che tale diritto è un diritto costituzionalmente garantito e tutelato a livello europeo dall’art. 8 della Cedu.
Dal punto di vista sostanziale, la Corte ha altresì affrontato la questione riguardante il campo di applicazione dell’art. 16 del D.M. Ambiente del 16 marzo 1998.
Quest’ultimo, che ammette per il periodo diurno la presenza di rumore a tempo parziale nel caso in cui non duri in totale in meno di un’ora, non troverebbe applicazione nel caso di specie.
La natura pubblicistica di tale disposizione esclude infatti l’applicazione ai rapporti tra privati.
A tal riguardo, la Corte di legittimità ha inoltre rilevato che la Corte di Appello di Venezia ha giudicato non tollerabili le immissioni sulla base della situazione ambientale, che costituisce un indice di giudizio relativo e flessibile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti ma che non può assolutamente prescindere dalla considerazione della rumorosità di fondo.
Quanto all’art. 1120 c.c., la Corte ha evidenziato che tale norma disciplina soltanto rapporti condominiali e non rapporti di mera comunione come quello del caso di specie.
Invero, la sostituzione del muro con il cancello carraio non ha mutato la destinazione del sito e nemmeno ha limitato l’accesso degli attori al loro fondo.
Nel caso di specie perciò la condotta rientra nell’ambito dei rapporti tra comunisti secondo i quali il comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un’utilità maggiore e più intensa di quella tratta in concreto da altri comproprietari.
Il caso in esame
Z.M. abitava con la moglie P.B. ed i figli P.G. e P.A. in una proprietà limitrofa a quella del fratello P.E., nella quale esercitava un’impresa di lavorazione del ferro.
Gli attori Z.M., P.B., P.G. e P.A. convenivano in giudizio P.E. dinanzi il Tribunale di Treviso per ivi sentire accogliere le seguenti domande: violazione dell’art. 1102 c.c., in quanto P.E. ha abbattuto il muro divisorio sostituendolo con un cancello automatico; al risarcimento dei danni patrimoniali e non causati dalle immissioni provenienti dal fondo di P.E. e consistenti in rumori prodotti dagli strumenti adoperati in officina e dai gas nocivi derivanti da lavori di verniciatura; ed, infine, impedimento dell’attività di lavorazione del ferro attraverso l’inibizione all’uso di un maglio ad aria, di un carroponte e l’accesso di automezzi al suo capannone.
P.E. resisteva in giudizio con domanda riconvenzionale per il pagamento di Euro 10.000,00 da parte del fratello Z.M.
Il Tribunale di Treviso emetteva in data 5 ottobre 2006 sentenza con la quale accoglieva le domande attoree e perciò condannava P.E. a rimuovere il carroponte, ad astenersi dall’invadere l’area comune, a cessare le immissioni acustiche attraverso l’inibizione dell’uso di determinati macchinari ed al risarcimento dei danni.
P.E. interponeva appalello avverso questa decisione del giudice di prime cure e di conseguenza gli appellati Z.M., P.B., P.G. e P.A. proponevano a loro volta appello incidentale.
La Corte di Appello di Venezia confermava la statuizione adottata dal giudice di prime cure, sostenendo che la CTU aveva valutato l’intollerabilità delle immissioni sulla base della soglia dei 3dB oltre il rumore di fondo, e ribadendo che P.E. aveva violato l’art. 1102 c.c., occupando l’area in comune con materiali di lavorazione e mezzi pesanti; infine sussumeva il caso di specie all’interno della fattispecie di reato di cui all’art. 659 c.p. anziché dell’art. 674 c.p..
P.E. articolava ricorso in Cassazione con sei motivi, quali: il primo, omessa applicazione del bonus previsto, in presenza di rumore a tempo parziale dal D.M. Ministero Ambiente 16 marzo 1998 art. 16; il secondo, motivazione contraddittoria della Corte di Appello di Venezia circa l’irrilevanza dell’accertamento di quante ore al giorno venissero utilizzato gli strumenti rumorosi; il terzo, valutazione di intollerabilità dei rumori, definiti come ripetuti e diffusi nel corso dell’intera giornata; il quarto, omissione di valutazione circa l’attutimento dei rumori; il quinto, liquidazione dei danni non patrimoniali operata in via equitativa in difetto di prova dell’esistenza effettiva dei danni stessi; il sesto, falsa applicazione dell’art. 659, comma primo c.p. a causa del non superamento dei limiti fissati dalla L. 447/1995.
P.B., Z.M., P.G. e P.A. resistevano con controricorso e proponevano ricorso incidentale.
La Corte di Cassazione con sentenza n. 1606/17 rigettava sia il ricorso principale di P.E. che il ricorso incidentale di P.B., Z.M., P.G., P.A. compensando per intero tra le parti le spese sostenute nel terzo grado di giudizio.