Il danno iatrogeno – species del danno biologico – può essere definito come un danno disfunzionale che si inserisce in una situazione in parte già compromessa da una patologia pregressa, rispetto alla quale si determina un incremento differenziale del pregiudizio. Di conseguenza, tale tipologia di danno è, ontologicamente, un’ipotesi di responsabilità medico-sanitaria.
Invero, etimologicamente, l’aggettivo iatrogeno significa “causato dal medico”, dal greco “iatros” (medico) e “genos” (che è generato).
Più specificamente, le iatrogenesi indicano patologie, effetti collaterali o complicanze dovute a farmaci, o a trattamenti medici in generale, risultati errati, i quali producono come effetto l’aggravarsi delle condizioni di salute del paziente.
Negli ultimi anni, all’interno della più ampia categoria del danno biologico, il danno iatrogeno ha assunto un’importanza via via crescente. L’assunto è dimostrato dal gran numero di pronunce giurisprudenziali – alcune delle quali verranno richiamate nel proseguo – che si sono occupate dell’argomento, con l’obiettivo di chiarire gli aspetti più critici dell’istituto.
Differenza tra danno iatrogeno e danno biologico
Come anticipato, il danno iatrogeno è evidentemente una specificazione del danno biologico, in quanto incide sul medesimo interesse fondamentale tutelato dall’ordinamento: la salute.
Tuttavia, il primo si differenzia dal secondo per il particolare iter causale dal quale origina. Difatti, il danno iatrogeno si verifica all’esito della seguente catena causale di eventi:
- una lesione alla salute di un soggetto;
- un intervento sanitario che abbia il fine di curare la patologia;
- l’errore (colpevole) del medico (o di altro operatore sanitario);
- l’aggravamento o la mancata guarigione del danneggiato dalla lesione iniziale[1].
A dispetto della linearità della suddetta sequenza di eventi, il danno iatrogeno pone all’interprete essenzialmente due problemi, relativi rispettivamente all’an ed al quantum.
Da un lato – circa la spettanza del risarcimento del danno iatrogeno – meritano di essere indagate le criticità relative all’accertamento del nesso eziologico, sia materiale (prima) sia giuridico (poi).
Dall’altro lato – a proposito della liquidazione del danno – sono ipotizzabili differenti metodi di calcolo del risarcimento, il che pone il problema della scelta di quello più corretto.
Responsabilità del medico per l’intero danno o per una quota?
Per affrontare il primo dei suesposti problemi conoscitivi è opportuno volgere lo sguardo al riferito iter causale.
In particolare, la lesione originaria alla salute di un soggetto (sub I), sulla quale poi si innesta il danno iatrogeno (sub IV), può segnatamente dipendere: sia dal caso, come dalla condotta di un terzo incolpevole; ovvero, viceversa, da una condotta umana colpevole.
Ebbene, in entrambe le ipotesi, resta da chiedersi se il medico, incorso in errore nella scelta o nell’esecuzione della cura, risponda dell’intero danno, oppure se risponda esclusivamente della “quota di danno” prodotta dalla propria condotta, e quali siano le conseguenze tra la scelta dell’una o dell’altra alternativa.
Può essere utile un’esemplificazione. Si pensi ad un medico che abbia errato nella scelta od esecuzione di una terapia per una determinata patologia (ad es. un ictus, o una grave frattura); si consideri anche che, quand’anche la malattia fosse stata trattata adeguatamente, avrebbe in ogni caso cagionato dei postumi al paziente, traducibili in una percentuale di invalidità permanente.
Dunque, la questione si pone poiché, prima facie, non è chiaro se al medico incorso nell’errore debbano essere imputate anche quelle conseguenze pregiudizievoli che si sarebbero verificate comunque, a prescindere dalla sua condotta, in quanto integranti il fatto storico ascrivibile al sanitario.
Nella prima delle due casistiche riportate sopra – qualificabile come danno iatrogeno in senso lato – la patologia originaria (I) del danneggiato deriva da causa non imputabile ad alcun soggetto.
Orbene, aderendo ad una prima impostazione, potrebbe dirsi che il soggetto risponda esclusivamente del danno prodotto dalle proprie azioni od omissioni relativamente al trattamento della patologia. In altri termini, al medico non sarebbe ascrivibile l’intero danno “finale” subito dal paziente, risultante dalla combinazione sinergica tra la patologia originaria e l’ulteriore lesione della salute dipesa dalla condotta del sanitario. E ciò poiché sarebbe sostanzialmente “ingiusto” imputare al medico – seppur incorso in errore – delle conseguenze realizzatesi a causa della condotta di un terzo incolpevole o, a fortiori, dal caso.
Tuttavia, quest’opinione non pare adeguatamente sorretta né dal dato positivo, né – di conseguenza – dalla giurisprudenza.
Come è noto, per imputare materialmente un fatto al suo autore – nell’ambito della c.d. imputatio facti – è indispensabile soddisfare una duplice verifica di natura causale. Infatti, nel nostro sistema giuridico (ai sensi degli artt. da 40 a 43 cod. pen.), affinché vi possa essere un’affermazione di responsabilità a carico di un soggetto, è – di regola – necessario stabilire un doppio legame tra il fatto e colui che l’abbia posto in essere.
Un primo nesso – c.d. di imputazione oggettiva – collega condotta ed evento per mezzo di una relazione di causalità materiale ex artt. 40 e 41 c.p.[2].
Un secondo – c.d. di imputazione soggettiva – rileva lo stesso legame ma su base psichica, attraverso il principio di colpevolezza (il quale è comunque governato dal principio di causalità, rappresentando in vero un nesso causale di natura soggettiva)[3].
Tuttavia, nel compimento di tale doppia verifica, l’evento deve essere correttamente inteso, in quanto elemento essenziale dell’imputatio facti. In questa fase, l’evento non può certo essere quello astrattamente descritto dalla norma (quand’anche essa sia una regola cautelare mutuata dalla scienza medica), bensì deve necessariamente essere considerato quale evento storico concreto, realizzatosi hic et nunc, pena la violazione del principio di identità[4]. Del resto, dal punto di vista logico prima ancora che giuridico, se è in corso di accertamento una relazione materiale, termini di tale relazione non possono che essere due dati empirici, quali la condotta e l’evento materialmente verificatisi. È per questo che condotta ed evento debbono essere intesi nella loro concreta dimensione reale. Sarebbe evidentemente illogico collegare la condotta materiale di un soggetto (il medico) a un evento solo ipotetico (la quota – per l’appunto – ideale di danno, ascrivibile in via teorica al sanitario).
Quanto esposto illumina le incongruenze della prima opzione ricostruttiva rappresentata. Ne consegue che il medico al quale sia imputabile, oggettivamente e soggettivamente, l’aggravamento della patologia del danneggiato, in ragione della propria condotta, risponde dell’evento realizzatosi hic et nunc. Pertanto, al medico incorso in errore non scusabile, o che abbia agito con dolo, è imputato l’evento nella sua interezza, comprensivo dunque anche della patologia originaria. In altre parole, il medico risponde di tutta la sequenza causale evidenziata in precedenza. Difatti, la lesione iniziale rappresenta un antecedente logico necessario, in quanto è proprio su di essa che si inserisce la condotta colpevole, dando luogo a quel che è stato definito danno iatrogeno in senso lato.
Quanto esposto è scolpito giuridicamente dalla regola dell’equivalenza causale (art. 41 c.p.)[5], la quale non fa distinzione tra concause di origine naturale e umana: in caso di concorso tra più cause, la responsabilità del danneggiante non è né limitata, né esclusa[6].
Altra cosa è poi la quantificazione del danno iatrogeno così ricostruito. Come si vedrà più avanti, e come chiarito anche al di fuori della casistica della colpa medica[7], in sede di liquidazione del danno non potrà non tenersi conto di quegli effetti che si sarebbero realizzati comunque, in ragione della patologia originaria, ed a prescindere dalla condotta ingiusta ed illecita del sanitario.
Il secondo caso è rappresentato dall’ipotesi di danno iatrogeno in senso stretto, ed attiene alle ipotesi in cui la patologia è imputabile all’illecito di un terzo.
Anche in questa ipotesi, la regola dell’equivalenza causale non conosce deroghe (se non laddove sia integrata la fattispecie dell’art. 41 co. 2 c.p., attinente alle serie causali autonome od apparentementemente indipendenti). Vale pertanto quanto affermato riguardo alla casistica precedente, sebbene si rendano doverose alcune precisazioni.
Quando il danno è imputabile a più persone
Innanzitutto, merita di essere rilevato come, nel caso di più condotte umane concorrenti sinergicamente alla realizzazione dell’evento lesivo, possa trovare applicazione l’istituto della cooperazione colposa (art. 113 c.p.) nel delitto di lesioni. In questo modo, il soggetto che abbia realizzato la lesione meno grave – potenzialmente dunque anche il medico, attraverso la fattispecie del danno iatrogeno – risponde anche della lesione più grave, essendo lui ascritto l’evento lesivo nella sua interezza.
Conseguentemente, sul versante della responsabilità civile, entrambi i soggetti sono obbligati in solido ex art. 187 co. 2 c.p., al risarcimento del danno cagionato dal delitto di lesioni.
L’assunto è confermato anche dall’art. 2055 c.c., il quale pone a fondamento della responsabilità solidale l’esistenza di “un fatto dannoso imputabile a più persone”. Là dove si verifichi tale evenienza, la disposizione riferita impone quale effetto il sorgere della responsabilità in solido.
In questo senso, il tenore letterale dell’art. 2055 c.c. è chiaro: il discrimine della responsabilità solidale è rappresentato dal “fatto”, inteso come fatto concretamente realizzatosi – cosa non diversa dalla succitata nozione di evento hic et nunc considerato –, e non già dalla medesimezza della condotta comune a due o più soggetti.
A ben vedere, la norma rappresenta una conferma di quanto evidenziato in precedenza. Sul piano materiale, è l’intera sequenza causale ad essere ascrivibile al medico che sia incorso in errore colpevole.
In particolare, alla luce delle norme generali sulla causalità e degli altri istituti richiamati, la giurisprudenza[8] ha chiarito che è da escludersi qualsivoglia graduabilità della responsabilità del sanitario in ragione delle pregresse condizioni di salute del paziente danneggiato.
Tuttavia, come è noto – rifuggendo il nostro ordinamento una concezione sanzionatoria della responsabilità civile, ed accogliendo piuttosto una nozione riparatoria – la risarcibilità delle conseguenze pregiudizievoli patite dal danneggiato non si fonda sulla relazione di causalità materiale, quanto sulla causalità giuridica che su di essa si innesta.
Occorre infatti tenere distinti i due nessi di causalità, i quali pongono in relazione elementi differenti.
Il nesso di causalità materiale, come si è visto, collega la condotta materiale di un soggetto ai suoi effetti empirici, i quali, giuridicamente, prendono il nome di (danno) evento.
Dal canto suo, il nesso di causalità giuridica lega il suddetto evento ai c.d. danni conseguenza, e cioè ai pregiudizi che sono derivati dall’accertato fatto materiale.
Spetta dunque a quest’ultima relazione eziologica selezionare la portata del danno risarcibile, in applicazione dell’art. 1223 c.c. che individua il parametro di tale accertamento nella teoria della regolarità causale.
Pertanto, se dal lato della causalità materiale – ex artt. 40 e 41 c.p. – “l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti”, poiché il giudizio su tale nesso causale “è limitato alla sua sussistenza o insussistenza”; è dal lato della causalità giuridica – ex art. 1223 c.c. – che deve essere valutata “la misura dell’incidenza di eventuali stati patologici pregressi sul danno risarcibile”[9].
In accordo con le regole generali sull’accertamento della responsabilità civile, emerge come sul versante della causalità materiale non sia ammessa alcuna gradazione percentuale della responsabilità. Di conseguenza, quand’anche il sanitario abbia contribuito in minima parte alla realizzazione dell’evento, il danno iatrogeno è comunque a questi imputabile.
Dunque, il concorso di cause – siano esse di origine umana o naturale – assume rilevanza primaria al momento della valutazione delle conseguenze prodotte dal c.d. danno evento. È solo in questa fase che avviene la selezione delle conseguenze giuridicamente risarcibili ex art. 1223 c.c.
Tale ultima norma – come detto – afferma che i danni risarcibili sono esclusivamente le conseguenze immediate e dirette dell’inadempimento.
La ripartizione dell’onere della prova nelle operazioni routinarie
Ebbene, a proposito dell’accertamento delle predette conseguenze in tema di danno iatrogeno, recentemente si è posto il problema circa la ripartizione dell’onere della prova in quelle operazioni c.d. routinarie, nelle quali cioè il buon esito dell’intervento sarebbe quasi scontato, in ragione dell’id quod plerumque accidit. Il che, del resto – nel necessario transito dalla realtà al diritto, così come imposto dal sillogismo giudiziario – significa che l’esito dell’operazione può dirsi dedotto in obbligazione, al momento del “contatto” tra medico e paziente, quale facere del debitore, teso a soddisfare il corrispondente interesse del creditore.
Secondo un primo orientamento, tale dato non dovrebbe comportare alcuna conseguenza in merito alla ripartizione dell’onus probandi. Queste obbligazioni, infatti, non differirebbero in alcun modo dalle altre, per così dire, non routinarie. Pertanto, come di regola, spetterebbe al paziente provare come e perché eventuali complicanze a seguito dell’operazione possano assurgere a danni-conseguenza risarcibili.
Viceversa, una seconda opinione considera opportuno valorizzare le peculiarità di questa categoria di operazioni medico-chirurgiche. Di conseguenza, in presenza di complicanze successive all’intervento – quand’anche esse rappresentino un effetto relativamente frequente dal punto di vista statistico, o comunque documentato dalla letteratura scientifica – si ritiene che spetti al medico, e non al paziente danneggiato, “spiegare” la vicenda empirica dal punto di vista causale. In altri termini, secondo i fautori di tale tesi, non potrebbe allocarsi in capo al paziente il rischio di non riuscire a chiarire come mai la lesione iatrogena non si sarebbe dovuta verificare secondo le leggi proprie della scienza medica. Al contrario, in tale categoria di interventi, sarebbe opportuno ritenere – attraverso una presunzione iuris tantum – l’imperizia del medico quale causa dell’esito infausto dell’operazione. Pertanto, l’onere della prova sarebbe da allocarsi in capo al danneggiante, il quale non potrebbe limitarsi a evidenziare come le complicanze verificatesi si producano in un certo numero di casi. Dunque, spetterebbe al sanitario “spezzare” uno dei due nessi tipici dell’imputatio facti, fornendo la prova dell’inevitabilità o dell’imprevedibilità della lesione iatrogena. Viceversa, il fatto lesivo sarebbe da imputare al medico, fino a prova contraria.
È proprio questa seconda impostazione ad essere stata condivisa di recente da parte della Suprema Corte in un caso simile a quello prospettato[10]. Quest’ultima ha evidenziato che per potersi escludere la responsabilità del medico è necessario che sia proprio quest’ultimo a provare “l’insussistenza del nesso causale tra la tecnica operatoria prescelta e l’insorgenza delle predette complicanze, unitamente all’adeguatezza delle tecniche scelte dal chirurgo per porvi rimedio”. Infatti, “spetta al professionista superare la presunzione che le complicanze siano state determinate da omessa o insufficiente diligenza professionale o da imperizia, dimostrando che siano state, invece, prodotte da un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento”.
Così facendo, in questa classe di interventi chirurgici, la Corte di Cassazione ha avvallato una presunzione di colpa in capo al medico-chirurgo.
Dal punto di vista pratico, la ratio della scelta può essere individuata nella volontà di proteggere maggiormente la parte danneggiata.
Dal punto di vista giuridico, pare verosimile ipotizzare che la Suprema Corte abbia implicitamente ricondotto la categoria delle operazioni routinarie a quella delle obbligazioni di risultato[11]. Come detto, tali operazioni tendono a garantire al paziente il buon esito delle stesse, essendo queste “di facile esecuzione”[12]. In questo modo, viene a cristallizzarsi una relazione essenzialmente identitaria tra l’interesse del creditore e il raggiungimento del predetto risultato, il quale appare – agli occhi del creditore – non solo ben nitido, ma anche certamente doveroso. Pertanto, qualora esso non si realizzi, o non si realizzi come previsto, spetta al medico fornire la ragione empirico-scientifica del perché, nel caso concreto, vi sia stato uno scostamento dall’id quod plerumque accidit. È questa ragione a giustificare l’inversione dell’onere probatorio: il mancato raggiungimento del risultato fa presumere la negligenza, imperizia o imprudenza del sanitario, tanto da ritenerlo responsabile fino a prova contraria. Spetta pertanto a quest’ultimo “spezzare” il presunto nesso causale per andare esente da responsabilità.
Danno iatrogeno differenziale: calcolo e liquidazione del quantum
Ulteriore, rilevante, problematica attinente alla tematica del danno iatrogeno è – come accennato sopra – quella relativa all’individuazione della corretta metodologia di liquidazione del quantum risarcitorio.
Anche su questo punto si sono confrontate, sia in dottrina, sia, in particolare, in giurisprudenza, due diverse teorie di calcolo del risarcimento del danno.
È da premettere che il danno iatrogeno si caratterizza per essere un’ipotesi di danno differenziale.
Essa si concretizza qualora il danneggiato domandi al giudice non il danno nella sua interezza, bensì, esclusivamente, tale voce di danno. In questo caso, il quantum viene calcolato attraverso un’operazione algebrica di sottrazione della quota di risarcimento ascrivibile al fatto commesso dal danneggiante, dall’intero.
Nella prassi, accade sovente che il danno venga valutato, prima dai consulenti tecnici e poi dai giudici, in termini percentuali di invalidità permanente.
Pertanto, in un primo momento viene computata l’invalidità totale del danneggiato, così come cagionata dall’intera sequenza di accadimenti, comprensiva cioè – come si è visto – di (almeno) due eventi di danno. Poi, in un secondo momento, viene calcolata per sottrazione la percentuale di invalidità riferibile al solo danno iatrogeno.
È per lo più in questa seconda fase di calcolo che si sono riscontrate, specialmente in giurisprudenza, le maggiori criticità.
Una prima opinione ritiene di computare il danno iatrogeno attraverso una valutazione autonoma, riducendo la sottrazione di cui si è detto ad un rilievo del tutto secondario. I fautori di questa tesi ritengono che tale voce di danno vada calcolata autonomamente, seppur tenendo in considerazione la percentuale di invalidità complessiva come punto di riferimento. In altri termini, così procedendo, gli uffici giudiziari di fatto incaricano i c.t.u. di stabilire il grado di invalidità permanente, e di individuare una porzione di tale invalidità quale danno iatrogeno.
Tale impostazione non merita certamente accoglimento: essa non esprime infatti un corretto metodo di quantificazione, scientificamente verificabile, in quanto lascia sostanzialmente alla discrezionalità di c.t.u. e giudice la valutazione del risarcimento. In questo modo, la liquidazione del danno iatrogeno finirebbe per tradursi in una valutazione essenzialmente equitativa, scontando tuttavia il non trascurabile paradosso di non garantire equità alcuna tra casi simili.
Al contrario, una seconda interpretazione propende per ricavare il quantum del risarcimento attraverso la differenza tra il grado di invalidità permanente complessivo e quello attribuito alla condotta del sanitario che abbia cagionato la lesione iatrogena.
Una terza opzione ricostruttiva sceglie invece di procedere al predetto calcolo differenziale non tanto tramite il raffronto delle percentuali di invalidità, quanto dei valori monetari corrispondenti a tali gradi percentuali, secondo le tabelle di riferimento.
La differenza tra gli ultimi due metodi non è certo di poco conto.
Esemplificando, si ipotizzi che, successivamente ad una frattura, un diciottenne riporti una lesione dalla quale sarebbe presumibilmente derivata una inabilità permanente del 13%. Tuttavia, a seguito di errore medico, i postumi effettivamente riscontrati corrispondono ad una percentuale di invalidità permanente pari al 20%.
Orbene, attraverso il penultimo metodo di calcolo, al danneggiato spetterebbe una somma pari al 7% di invalidità, che, secondo le Tabelle di Milano, è pari ad € 14.200,00.
Viceversa, adottando il calcolo proposto dall’ultima teoria esposta, il danno dovrebbe essere così quantificato: € 80.466,00 (pari al 20% di invalidità permanente complessiva effettivamente sofferta) – € 38.702,00 (pari al 13%, percentuale di invalidità che, senza l’errore medico, il paziente avrebbe comunque sofferto) = € 41.764,00.
È di tutta evidenza come, tra gli ultimi due metodi di calcolo, intercorra una palese differenza in termini di quantum liquidato. Ed inoltre, è bene precisare come la forbice tra i due metodi sia sempre più ampia, al crescere della percentuale di invalidità permanente.
Merita di essere indagato quale tra le due opzioni sia preferibile, e per quali motivi.
Recentemente, la Corte di Cassazione[13] si è espressa per la prima volta a favore dell’ultimo dei metodi di calcolo esposti, il quale procede al calcolo attraverso la sottrazione tra valori monetari corrispondenti ai gradi di invalidità.
La scelta pare corretta, in quanto favorisce il metodo che garantisce il maggior rispetto del principio di equità, così come espresso dalle tabelle di liquidazione del danno biologico.
Invero, proprio i giudici di legittimità[14], in tema di utilizzo delle tabelle milanesi ai fini della liquidazione del risarcimento di tale danno, hanno chiarito che queste ultime garantiscono equità sia a livello intrinseco – relativamente al caso concreto – sia a livello estrinseco, su scala nazionale.
Come è noto, il sistema tabellare è basato su due parametri: l’età del soggetto leso, per cui all’aumentare dell’aspettativa di vita cresce il risarcimento; e l’entità della lesione. In particolare, la gravità della lesione e l’ammontare del risarcimento sono due grandezze legate tra loro da un rapporto più che proporzionale. In altre parole, al crescere della lesione, il risarcimento non cresce proporzionalmente, bensì in modo ancora maggiore: con un sistema più che proporzionale, ogni punto riconosciuto accresce il proprio valore all’aumento dei punti.
Le rationes che giustificano tale sistema sono due. Da un lato, la sofferenza è maggiore per un individuo di giovane età, poiché questi è destinato a patire le conseguenze della lesione per più anni. Dall’altro lato, una lesione più grave è da risarcire in modo più rilevante poiché la sofferenza cresce al crescere dell’entità dell’invalidità.
Alle tabelle è stato così attribuito un valore para-normativo, tanto che una loro violazione integrerebbe, da parte del giudice di merito, una vera e propria violazione di legge ricorribile in Cassazione. Per la Suprema Corte, infatti, disattendere le tabelle è violazione dell’equità, che non è solo regola del caso concreto, ma anche di uniformità ed uguaglianza, sul postulato che, se non si assicura uniformità di trattamento su tutto il territorio nazionale, non c’è equità.
Alla luce di tali rilievi, la scelta del metodo di liquidazione del danno iatrogeno – a valle –, pare perfettamente coerente con le linee guida teoriche individuate – a monte – da parte della stessa Corte di Cassazione.
Ancor più di recente, la Suprema Corte ha confermato il proprio orientamento in tema di responsabilità medica “allorché un paziente, già affetto da una situazione di compromissione dell’integrità fisica, sia sottoposto ad un intervento che, per la sua cattiva esecuzione, determini un esito di compromissione ulteriore rispetto alla percentuale che sarebbe comunque residuata anche in caso di ottimale esecuzione dell’intervento stesso, ai fini della liquidazione del danno con il sistema tabellare, deve assumersi come percentuale di invalidità quella effettivamente risultante, alla quale va sottratto quanto monetariamente indicato in tabella per la percentuale di invalidità comunque ineliminabile, e perciò non riconducibile alla responsabilità del sanitario”[15].
La ripartizione delle quote di responsabilità tra coobbligati
Ulteriore problema riscontrabile nell’alveo della liquidazione del danno iatrogeno attiene alla ripartizione delle quote ideali di responsabilità tra co-obbligati.
Invero, il danneggiato può ben scegliere di agire nei confronti del medico per il risarcimento del solo danno iatrogeno sofferto.
Tuttavia, questi, nelle ipotesi di danno iatrogeno in senso stretto, potrebbe legittimamente decidere di domandare il risarcimento dell’intero danno patito ad uno solo dei due o più danneggianti, co-obbligati in solido tra loro ex art. 2055 c.c.
In quest’ultimo caso, si è già sottolineato come il danneggiante sia obbligato a risarcire l’intero danno, poiché questo è a lui ascrivibile nella sua interezza, dal punto di vista materiale.
Sul versante della causalità giuridica, si è detto che i co-obbligati rispondono invece per quote ideali di danno. Pertanto, se uno solo dei danneggianti abbia risarcito il danno per intero, ha diritto di agire in via di regresso nei confronti dell’altro/i co-obbligato/i, alla luce dell’art. 2055 c.c. Invero, conformemente alla disciplina delle obbligazioni solidali, il paziente leso dalla riferita vicenda causale, ha diritto di chiedere il risarcimento dell’intero danno a uno qualsiasi dei co-obbligati.
Peraltro, il paziente ha parimenti facoltà di agire in tanti giudizi separati quanti siano i co-obbligati, domandando a ciascuno di essi l’intero. È chiaro che, in caso di accoglimento di tutte le domande, il danneggiato non possa arricchirsi ingiustamente per mezzo della lesione patita.
Di conseguenza, una volta che il danneggiato abbia conseguito il risarcimento a lui spettante, questi non potrà ovviamente eseguire un altro giudicato che riconosca a suo favore il diritto al risarcimento del danno per la medesima vicenda storica. Laddove ciò avvenga, il debitore chiamato ad adempiere l’obbligazione risarcitoria per secondo potrà opporre al creditore il pagamento già effettuato dal debitore escusso per primo. Inoltre, il debitore che, in buona fede, abbia pagato il risarcimento al creditore già soddisfatto dall’altro co-obbligato, avrà facoltà di ripetere la somma versata, a titolo di indebito oggettivo.
[1] In questo senso anche www.responsabilecivile.it/danno-iatrogeno-differenziale/
[2] Per approfondire si veda Cass. nn. 576 e 581 del 2008.
[3] Possono indicarsi gli artt. 42 e 43 c.p. come norme di ordine generale aventi carattere descrittivo degli elementi soggettivi rilevanti per il nostro ordinamento.
[4] Uno dei tre assiomi portanti della logica classica aristotelica, insieme al principio di non contraddizione ed al principio del terzo escluso.
[5] Come detto, regola generale dell’ordinamento , valida anche in diritto civile
[6] Cass., sez. II, 28 marzo 2007, n. 7577, in Foro it. Rep. 2007, Responsabilità civile, n. 214
[7] Cass., sez. lav., 8 giugno 2007, n. 13400, in Lavoro e prev. oggi, 2007, 1174
[8] Cass. n. 15991 del 21.07.2011
[9] Cass. n. 15991 del 21.07.2011
[10] Cass., sez. III, sent. n. 24074 del 13.10.2017
[11] La dicotomia tra obbligazioni di mezzi e risultato è stata “ufficialmente” superata dalla giurisprudenza (a partire da Cass. n. 577 del 2008), tuttavia non può essere negato come tali categorie mantengano un efficace valore descrittivo, e siano legate al dato empirico di realtà, dal quale l’obbligazione origina.
[12] Come chiarito già da Cass. n. 6141/1978
[13] Cass., sent. n. 6341 del 19.03.2014
[14] Cass III Sez. civ. sent. n.12408 del 07.06.2011
[15] Cass. sent. n. 8551 del 31.03.2017 la quale cita a sua volta Cass. n. 6341 del 2017