L’occupazione abusiva d’immobili, generalmente, si realizza in tutti i casi in cui una res sia posseduta o detenuta da un soggetto non legittimato o, meglio ancora, privo di qualunque titolo giustificativo.
Tali ipotesi si concretizzano, quindi, sia nel caso in cui un soggetto apprenda un immobile senza alcun titolo oppure, quando, vi è un titolo invalido o la cui efficacia sia, per qualsiasi ragione, terminata.
Alla luce di tali considerazioni preliminari, quindi, l’occupazione sine titulo può essere originata tanto da un inadempimento di tipo contrattuale (basti pensare all’ipotesi di permanenza del conduttore nell’abitazione in locazione oltre il termine pattuito contrattualmente con il locatario), quanto da un illecito civile (come nel caso in cui un terzo occupa, senza nessun tipo di ragione giustificativa, un bene altrui).
Il danno da occupazione sine titulo di immobile altrui: la giurisprudenza
Trascurando in questa sede, in quanto non oggetto di trattazione, le azioni (di natura reale e personale) previste dall’ordinamento a tutela del recupero del bene occupato dal terzo in assenza di titolo, occorre occuparsi, appunto, del danno/pregiudizio derivante dalla predetta situazione.
Sul punto, ci sono due orientamenti giurisprudenziali antitetici.
Secondo il primo, qualora si verifichi un’occupazione sine titulo di immobile altrui il danno subito dal proprietario dovrebbe considerarsi in re ipsa, poiché si verificherebbe una soppressione delle facoltà di godimento e di disponibilità del bene che forma oggetto del diritto di proprietà.
Pertanto, il danno si ritiene sussistente sulla base di una praesumptio hominis, la quale è tuttavia superabile qualora si riesca a dimostrare concretamente che il proprietario, anche nell’ipotesi in cui lo spoglio non si fosse verificato, non avrebbe comunque utilizzato l’immobile, disinteressandosene completamente.
Sempre secondo tale primo orientamento, la stima del danno nel caso concreto può essere fatta con riferimento al c.d. “danno figurativo“, e cioè al valore locativo dell’immobile occupato [1].
Secondo un altro orientamento, che appare preferibile, il danno da occupazione abusiva non può ritenersi in re ipsa, e non può coincidere con il semplice evento dell’occupazione.
Quest’ultimo, infatti, non costituisce danno di per sé, bensì la condotta produttiva del danno stesso.
Di conseguenza, è onere del danneggiato, che chieda il risarcimento del danno causato dall’occupazione, provare l’effettiva entità del danno e cioè la concreta lesione derivante, ad esempio, dal non aver potuto locare l’immobile o comunque utilizzare direttamente e tempestivamente il bene oppure dall’aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli[2].
Quest’ultimo orientamento, partendo dal presupposto che esiste un danno evento (inteso come lesione di un interesse tutelato dall’ordinamento e coincidente con il danno contra ius) e un danno conseguenza (inteso come il pregiudizio patito dalla vittima in conseguenza del verificarsi del danno evento), così come già espresso dalle Sezioni Unite con le quattro sentenze sorelle gemelle nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 del 2008, ha ribadito che il danno non può esistere in re ipsa e come tale essere risarcito.
Né tanto meno, il predetto orientamento può essere messo in discussione, come fatto da una parte della giurisprudenza (tra le altre v. Tribunale di Brindisi, sezione distaccata di Ostuni, sentenza del 19 dicembre 2011)[3], sostenendo che la distinzione tra danno conseguenza e danno evento avesse una sua ragione di esistere soltanto nella sfera del ristoro del danno non patrimoniale, atteso che le predette sentenze gemelle si riferivano soltanto a quest’ultima tipologia di danno.
Invero, accogliendo quest’ultima tesi, secondo la quale il danno evento è risarcibile a prescindere dall’esistenza di conseguenze negative, si snaturerebbe la funzione stessa attribuita dal nostro legislatore al sistema della responsabilità civile (e cioè di ristoro del pregiudizio patito dal danneggiato) che si trasformerebbe in uno strumento punitivo (funzione tipica del sistema penale), volto a sanzionare un comportamento lesivo, indipendentemente dal verificarsi di un effettivo danno.
Senza, comunque, dimenticare, che se l’oggetto del risarcimento fosse il solo danno evento, in quanto tale, e non la sua conseguenza, tutti i pregiudizi derivanti da fatti leciti non troverebbero ristoro (come, ad esempio, l’esercizio di un’attività pericolosa)[4].
Inoltre, giova ricordare che la risarcibilità dei danni c.d. in re ipsa sarebbe in netto contrasto al principio previsto in materia di onere della prova (art. 2697 c.c.).
Come ottenere il risarcimento del danno da occupazione abusiva
Alla luce delle suesposte ragioni, il danneggiato, al fine di ottenere in giudizio il risarcimento del danno patito, a seguito di occupazione sine titulo del proprio immobile, dovrà dimostrare di aver subito un’effettiva lesione del proprio patrimonio e non semplicemente allegare la lesione del proprio diritto di proprietà.
In ultimo, appare opportuno fare un’ultima breve riflessione in merito alle due tesi sopra delineate; posto che il loro essere antitetico, in realtà, è più apparente che concreto.
Infatti, la giurisprudenza che considera in re ipsa il danno da occupazione illegittima di un immobile non sembra negare la necessità, da parte della vittima, di allegare le situazioni fattuali dimostrative dell’esistenza del danno conseguenza e ciò si evince quando richiama i criteri di normalità per l’individuazione dell’uso di cui il titolare del diritto è stato privato[5].
L’assenza di prove (o di presunzioni) relative al tipo di utilizzo o godimento del bene escluderebbe, infatti, anche secondo i sostenitori della teoria del c.d. danno figurativo, il ristoro del danno patito dal danneggiato.
[1] Sul punto v. Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 9137 del 16 aprile 2013; Cass. Civ., Sez. II, sentenza n. 14222 del 7 agosto 2012; Cass. Civ., Sez. II, Sentenza n. 5568 del 8 marzo 2010.
[2] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 18494 del 18 settembre 2015; Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 15111 del 17 giugno 2013; Cass. Civ., Sez. III, Sentenza n. 378 del 11 gennaio 2005.
[3] Tribunale di Brindisi, sezione distaccata di Ostuni, sentenza del 19 dicembre 2011
[4] Bianca, Diritto Civile, vol. V, in “La Responsabilità”, ed. Giuffrè, 1994, p. 533
[5] V., al riguardo, Cassazione Civile, Sezione III, sentenza n. 5058 del 29 marzo 2012