Convivente di fatto e impresa familiare: le Sezioni Unite

La Sezioni Unite Civili, con l’ordinanza n. 11661/2025, depositata il 4 maggio (clicca qui per consultare il testo integrale dell’ordinanza), si sono pronunciate sul diritto del convivente di fatto a partecipare alla liquidazione di un’impresa familiare. La decisione rappresenta l’epilogo della vicenda che, a seguito dell’ordinanza interlocutoria n. 1900/2023, aveva portato la Consulta a dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 230-bis, comma 3, e 230-ter c.c. Per un approfondimento su questi temi, ti segnaliamo il volume “I nuovi procedimenti di famiglia”, aggiornato alle ultime novità normative e giurisprudenziali.

I nuovi procedimenti di famiglia

I nuovi procedimenti di famiglia

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Ida Grimaldi,
Avvocato cassazionista, esperta in materia di diritto di famiglia e tutela dei minori, lavoro e discriminazioni di genere. È docente e relatrice in numerosi convegni nazionali, dibattiti e corsi di formazione. Autrice e curatrice di diverse opere in materia di diritto di famiglia e minorile, lavoro e pari opportunità, scrive per numerose riviste giuridiche ed è componente del Comitato Scientifico della rivista “La Previdenza Forense”, quadrimestrale della Cassa di Assistenza e Previdenza Forense.

Leggi descrizione
Ida Grimaldi, 2025, Maggioli Editore
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La vicenda

La Corte d’Appello d’Ancona confermava la decisione del Tribunale di Fermo, che aveva respinto la richiesta di parte attrice di accertare l’esistenza dell’impresa familiare relativa all’azienda agricola nel periodo dal 2004 al 2012, data del decesso del compagno, e di ottenere la condanna dei coeredi alla liquidazione della quota a lei spettante quale partecipe all’impresa.

L’attrice sosteneva di aver convissuto con il de cuius dal 2000, nonostante fosse già sposato con un’altra donna. Il Tribunale rigettava la domanda sostenendo che il riconoscimento della quota di partecipazione all’impresa familiare presuppone un rapporto di coniugio o parentela e che dunque doveva escludersi la convivenza.

La Corte d’Appello, allo stesso modo, riteneva che l’art. 230-bis c.c. non trovasse applicazione nei confronti del “convivente di fatto”, non potendo quest’ultimo essere considerato “familiare” ai sensi del comma 3 dell’art. 230-bis c.c. I giudici di secondo grado, inoltre, escludevano che nel caso di specie potesse essere invocato l’art. 230-ter c.c., dal momento che il rapporto di convivenza era cessato nel 2012, ossia prima dell’entrata in vigore della legge n. 76/2016 che ha esteso ai conviventi la disciplina dell’impresa familiare.

I motivi di ricorso

La ricorrente, con il primo motivo di ricorso, contestava l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. La questione  riguardava il rapporto di lavoro con la Regione Lombardia e la sua presunta irrilevanza rispetto alla partecipazione della donna all’azienda familiare. La ricorrente affermava che il suo impiego, iniziato nel 1989 e proseguito con variazioni contrattuali nel corso degli anni, non avesse impedito il suo coinvolgimento diretto nell’organizzazione dell’azienda agricola.

Con il secondo motivo, denunciava la violazione e falsa applicazione dell’art. 230-bis c.c., sostenendo che la Corte territoriale avesse erroneamente trascurato l’evoluzione delle sensibilità sociali in materia di convivenza e le aperture della giurisprudenza nomofilattica e costituzionale verso il convivente more uxorio. 

Con il terzo motivo, deduceva la violazione degli artt. 230-bis e 230-ter c.c. e dell’art. 11 delle Preleggi, evidenziando che il principio di irretroattività in ambito civile non è presidiato da una norma costituzionale e può essere derogato in base a criteri di ragionevolezza e giustizia.

La rimessione alle Sezioni Unite

La Sezione Lavoro, con l’ordinanza interlocutoria n. 2121/2023, evidenziava che, secondo l’orientamento di legittimità, presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare era l’esistenza di una famiglia legittima con la conseguenza che l’art. 230-bis c.c. non era applicabile nel caso di mera convivenza.

La Suprema Corte, tuttavia, proponeva una revisione di tale orientamento, a seguito dell’evoluzione sociale e giurisprudenziale sul tema e dell’introduzione, tramite la legge Cirinnà, dell’art. 230-ter c.c. Questa disposizione, in particolare, ha previsto per il convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente, una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, salvo che tra i conviventi non esista un rapporto di società o di lavoro subordinato.

Il Collegio, inoltre, aveva richiamato alcune pronunce della Corte Costituzionale che hanno attribuito rilevanza alla convivenza di fatto nelle ipotesi in cui venga in considerazione la lesione di diritti fondamentali come il diritto sociale all’abitazione e il diritto alla salute, nonché quelle che, nel settore penale, hanno affermato che può beneficiare della scriminante di cui all’art. 384, comma 1, c.p. anche il convivente more uxorio.

La Cassazione aveva, poi, sottolineato che, nonostante l’impossibilità di applicare retroattivamente la disciplina del 2016, un’esclusione del convivente che per lungo tempo abbia lavorato nell’impresa familiare dalla tutela di cui all’art. 230-bis c.c. si porrebbe in contrasto non solo con gli artt. 2 e 3 Cost. ma soprattutto con la giurisprudenza della
Corte EDU e con il diritto UE.

La Corte aveva, quindi, suggerito la necessità di un intervento nomofilattico per interpretare l’art. 230-bis, comma terzo, c.c. in chiave evolutiva, tenendo in debita considerazione i cambiamenti culturali e ha rimesso la questione alle Sezioni Unite.

La questione di legittimità costituzionale

La Sezioni Unite hanno, in primo luogo, premesso che, nel caso in esame, la Corte territoriale, sul presupposto dell’inapplicabilità ratione temporis dell’art. 230-ter c.c., avesse del tutto pretermesso ogni accertamento in concreto circa l’effettività e la continuatività dell’apporto lavorativo della ricorrente nell’impresa familiare.

La Cassazione, in secondo luogo, ha valutato la non incidenza, ai fini della rilevanza, degli ulteriori elementi indicati dalla Corte D’Appello, ossia:

  • l’esistenza di un formale rapporto di coniugio del titolare dell’impresa;
  • l’aver avuto, la ricorrente, un rapporto di lavoro subordinato, ancorché per un periodo
    limitato;
  • il fatto che la convivente avesse un rapporto di lavoro in corso con la regione Lombardia.

L’art. 230-bis, infatti, al comma 3, qualificava la partecipazione del convivente familiare quale “collaborazione” all’attività economica.

La Suprema Corte, dunque, con l’ordinanza interlocutoria n. 1900/2024, ha sospeso il giudizio e rinviato gli atti alla Consulta ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 230-bis c.c. nella parte in cui non include nel novero dei familiari anche il convivente di fatto per violazione degli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nonché dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. de gli artt. 8 e 9 CEDU.

La sentenza della Corte Costituzionale

La Corte costituzionale, con sentenza n. 148 del 2 luglio 2024 (ne abbiamo parlato qui), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevedeva come familiare anche il convivente di fatto e come impresa familiare quella cui collabora anche il convivente di fatto, ciò per la violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.), nonché per violazione dell’art. 3 Cost.; ha dichiarato, altresì, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11.3.1953 n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter codice civile.

La decisione delle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, comma 3, c.c. (nonché, in via consequenziale, dell’art. 230-ter c.c.), hanno accolto il ricorso cassando, con rinvio, la sentenza impugnata che aveva rigettato la domanda proposta dalla ricorrente per l’accertamento del proprio diritto a partecipare alla liquidazione dell’impresa familiare, sul presupposto dell’insussistenza di un rapporto di coniugio e tenuto conto dell’inapplicabilità ratione temporis dell’art. 230-ter c.p.c.

La Corte di Appello di Ancona, in diversa composizione, procederà ad un nuovo esame tenendo conto della pronuncia del Giudice delle leggi interpretativa additiva dell’art. 230-bis terzo comma c.c. ed in via conseguenziale demolitoria dell’art. 230-ter c.c.

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