Contratto preliminare: la mancata predisposizione dei mezzi di pagamento

in Giuricivile, 2019, 3 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., sez. II civ., sentenza 25/02/2019 n. 5414

Con la sentenza n. 5414 pubblicata il 25 febbraio 2019, la Corte di Cassazione ha deciso in merito ad una controversia avente ad oggetto l’inadempimento degli obblighi scaturenti da un contratto preliminare di compravendita. La Corte ha colto l’occasione per fare chiarezza, ancora una volta, su uno schema giuridico molto diffuso ed utilizzato nel nostro sistema: il contratto preliminare, infatti, è uno strumento che si adatta a diverse esigenze.

In particolare, l’attenzione dei Giudici si è concentrata sull’ipotesi di recesso per conclamato inadempimento di una delle parti mediante espresso rifiuto a presentarsi all’appuntamento fissato dal notaio per la stipula del definitivo.

Il caso in esame

La vicenda alla base della decisione della Corte di Cassazione può essere sintetizzata come segue.

In data 30.07.2001 M.L., nella qualità di promittente venditore, e P.M.P., nella qualità di promissario acquirente, stipulavano un contratto preliminare di compravendita avente ad oggetto un bene immobile di proprietà di M.L.

Il Tribunale di Salerno aveva in primo grado pronunciato la risoluzione del contratto preliminare richiesta da P.M.P. per inadempimento degli obblighi previsti a carico di M. L., condannando quest’ultimo alla restituzione della caparra ricevuta.

Avverso tale sentenza M.L. proponeva appello. La Corte d’Appello di Salerno dichiarava legittimo il recesso dal contratto esercitato da P.M.P. e condannava M.L. al pagamento del doppio della caparra per la somma di euro 82.633,10 oltre interessi. Il Giudice d’appello, invero, confermava la decisione di primo grado in punto di inadempimento da parte di M.L., in quanto, sulla base delle testimonianze assunte (tra cui il notaio incaricato di redigere il contratto definitivo) era stato dimostrato che ingiustificatamente M.L. non si era presentato al primo incontro previsto per la definizione del contratto e si era espressamente rifiutato di recarsi al secondo appuntamento fissato, chiedendo il pagamento di un prezzo maggiore rispetto a quanto indicato nel preliminare.

La sentenza d’appello veniva impugnata da parte di M.L. Resisteva con controricorso P.M.P.

Il contratto preliminare: brevi cenni sulla disciplina normativa

Appare a questo punto opportuno ripercorrere brevemente la disciplina normativa del contratto preliminare.

Il contratto preliminare di compravendita, definito anche compromesso, è il contratto con il quale il promittente venditore ed il promissario acquirente si obbligano a concludere il contratto definitivo, stabilendone già modalità e termini. Infatti, il contratto preliminare deve contenere gli elementi essenziali del futuro contratto, individuando con sufficiente precisione sia le parti, sia il bene oggetto della compravendita e sia il prezzo.

Il codice civile non dedica ampio spazio a tale tipo contrattuale: uno dei pochi riferimenti normativi è rappresentato dall’art. 1351, in base al quale il contratto preliminare è nullo se non è fatto nella stessa forma che la legge prescrive per il contratto definitivo[1].

La funzione del contratto preliminare consiste, dunque, nell’assunzione per le parti dell’obbligo giuridico di stipulare un ulteriore contratto (definitivo), con il quale, tra l’altro, si può trasferire la proprietà o altro diritto reale di un immobile. Vi è, in poche parole, uno sdoppiamento della volontà delle parti che, in un primo momento, si obbligano ad obbligarsi ad una determinata prestazione, mentre in un secondo momento si obbligano alla prestazione stessa.

Il contratto preliminare è fonte di obbligazione al pari di ogni altro contratto ed il suo particolare oggetto, cioè l’obbligo di concludere il contratto definitivo, non esclude che, ove non sia fissato un termine né in sede convenzionale, né in sede giudiziale, sia applicabile, ai sensi dell’art. 1183 c.c., la regola dell’immediato adempimento (“quod sine die debetur statim debetur“)[2].

Qualora le parti, dopo aver stipulato un contratto preliminare, concludano in seguito il contratto definitivo, quest’ultimo costituisce l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al particolare negozio voluto e non mera ripetizione del primo, in quanto il contratto preliminare resta superato da questo, la cui disciplina può anche non conformarsi a quella del preliminare, salvo che i contraenti non abbiano espressamente previsto che essa sopravviva.

La presunzione di conformità del nuovo accordo alla volontà delle parti può, nel silenzio del contratto definitivo, essere vinta soltanto dalla prova – la quale deve risultare da atto scritto, ove il contratto abbia ad oggetto beni immobili – di un accordo posto in essere dalle stesse parti contemporaneamente alla stipula del definitivo, dal quale risulti che altri obblighi o prestazioni, contenute nel preliminare, sopravvivono, dovendo tale prova essere data da chi chieda l’adempimento di detto distinto accordo[3].

Tutela in caso di inadempimento.

Un aspetto molto interessante riguarda i mezzi di tutela predisposti dall’ordinamento nell’ipotesi di inadempimento di una delle parti, come nel caso di specie.

Infatti, qualora una delle parti si rifiutasse di stipulare il contratto definitivo, senza giustificato motivo, l’ordinamento riconosce alla parte “non inadempiente” specifici strumenti per la tutela dei propri diritti.

In particolare, i rimedi previsti sono:

– l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto ex art. 2932 c.c. con la quale la parte non inadempiente ottiene giudizialmente una sentenza sostitutiva del rogito definitivo (sentenza costitutiva). Occorre precisare che, in tema di inadempimento del contratto preliminare di compravendita immobiliare contenente un termine, non rispettato alla scadenza, per la stipulazione del definitivo, l’esercizio dell’azione di esecuzione in forma specifica, ai sensi dell’art. 2932 c.c., dell’obbligo di concludere il medesimo, non presuppone necessariamente la natura essenziale di detto termine, né la previa intimazione di una diffida ad adempiere alla controparte, essendo sufficiente la sola condizione oggettiva dell’omessa stipulazione del negozio definitivo che determina di per sé l’interesse alla pronunzia costitutiva, a prescindere da un inadempimento imputabile alla controparte stessa[4].

– la risoluzione del contratto con possibilità per la parte non inadempiente di avvalersi della caparra, trattenendola o esigendone il doppio (se nel contratto preliminare è prevista una caparra confirmatoria). La caparra confirmatoria, ex art. 1385 c.c., mira a liquidare convenzionalmente il danno da inadempimento in favore della parte non inadempiente che intenda esercitare il potere di recesso conferitole ex lege. Ne deriva che, qualora ciò non avvenga, essa è legittimata a ritenere la caparra ricevuta ovvero ad esigere il doppio di quella versata; qualora, invece, detta parte preferisca agire per la risoluzione ovvero l’esecuzione del contratto, il diritto al risarcimento del danno va provato nell’an e nel quantum. In caso di pattuizione di caparra confirmatoria, ai sensi dell’articolo 1385 del c.c., la parte adempiente, per il risarcimento dei danni derivati dall’inadempimento della controparte, può scegliere tra due rimedi, alternativi e non cumulabili tra loro: o recedere dal contratto e trattenere la caparra ricevuta (o esigere il doppio di essa), avvalendosi della funzione tipica dell’istituto, che è quella di liquidare i danni preventivamente e convenzionalmente, così determinando l’estinzione ope legis di tutti gli effetti giuridici del contratto e dell’inadempimento stesso; ovvero chiedere, con pronuncia costitutiva, la risoluzione giudiziale del contratto, ai sensi degli articoli 1453 e 1455 del c.c. e il risarcimento dei conseguenti danni, da provare a norma dell’articolo 1223 del c.c[5].

La decisione della Corte di Cassazione (Sentenza n. 5414 del 25.02.2019)

Alla luce di quanto sin qui detto, appare opportuno capire come si è espressa la Suprema Corte nel caso de quo.

La sentenza d’appello veniva impugnata da M.L. dinanzi alla Corte di Cassazione. Con i motivi di gravame il ricorrente deduceva l’errata applicazione delle norme codicistiche in tema di valutazione delle prove documentali e testimoniali fatta dal giudice di merito, in quanto non sufficienti, a dire del ricorrente, ad accertare la sua indisponibilità a concludere il definitivo. Deduceva inoltre che il promissario acquirente non aveva dimostrato di essere stato nelle condizioni di adempiere, dal momento che non aveva indicato i mezzi predisposti al pagamento della somma indicata né tantomeno aveva versato il saldo del prezzo pattuito.

Sul punto la Corte di Cassazione ha evidenziato l’inammissibilità dei motivi relativi alle prove, poiché l’apprezzamento delle prove è operazione demandata esclusivamente al giudice del merito non censurabile in sede di legittimità, se non sotto il limitato profilo dell’omesso esame di circostanze decisive oggetto di discussione tra le parti. Con riferimento alla mancata dimostrazione da parte di P.M.P. della disponibilità economica necessaria al pagamento della somma pattuita nel preliminare, la Corte ha precisato che tale circostanza attiene ad un’attività preparatoria all’adempimento, priva di per sé di rilevanza, fino a quando non si traduca effettivamente nella mancata esecuzione da parte del contraente della propria prestazione.

Ed infatti, se è vero che ai fini dell’esercizio del diritto di recesso dal contratto, per inadempimento della controparte, in presenza di caparra confirmatoria, ai sensi dell’art. 1385 c.c., è necessario che la parte recedente non sia a sua volta inadempiente, deve tuttavia ritenersi che, laddove l’altra parte deduca che il contratto definitivo non si è stipulato per mancata predisposizione da parte del promissario acquirente della somma da versare a titolo di prezzo, tale circostanza debba risultare ed essere accertata al momento ed in sede di stipulazione e non possa, in mancanza di tale situazione, di per sé giustificare il rifiuto della controparte di presenziare all’appuntamento a tal fine fissato per il rogito notarile

La Corte di Cassazione ha, dunque, rigettato il ricorso di M.L. condannando quest’ultimo al pagamento delle spese di lite.

Il principio di diritto

Alla luce di quanto rilevato, la Cassazione ha dunque enunciato il seguente principio di diritto:

“Se è vero che ai fini dell’esercizio del diritto di recesso dal contratto, per inadempimento della controparte, in presenza di caparra confirmatoria, ai sensi dell’art. 1385 c.c., è necessario che la parte recedente non sia a sua volta inadempiente, deve tuttavia ritenersi che, laddove l’altra parte deduca che il contratto definitivo non si è stipulato per mancata predisposizione da parte del promissario acquirente della somma da versare a titolo di prezzo, tale circostanza debba risultare ed essere accertata al momento ed in sede di stipulazione e non possa, in mancanza di tale situazione, di per sé giustificare il rifiuto della controparte di presenziare all’appuntamento a tal fine fissato per il rogito notarile” (Corte di Cassazione, Sezione Seconda Civile, Sentenza del 25/02/2019 n. 5414 – Presidente Stefano Petitti).


[1] L’esigua disciplina codicistica in tema di preliminare è stata arricchita dal d.l. 31 dicembre 1996, n. 669 convertito in l. 28 febbraio 1997, n. 30 che ha introdotto l’obbligo della trascrizione per i preliminari (risultanti da atto pubblico o da scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente) aventi ad oggetto la conclusione di taluni contratti indicati dall’art. 2643 c.c. (v. 2645bis, 2775bis, 2825bis c.c.).

[2] Ne consegue che, a norma degli artt. 2934, 2935 e 2946 c.c., l’inattività delle parti, protrattasi per oltre dieci anni da quando il diritto alla stipulazione del contratto definitivo poteva essere fatto valere, comporta l’estinzione del diritto medesimo per prescrizione. Cfr. Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 14463 del 30 giugno 2011.

[3] Cfr. Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 9063 del 5 giugno 2012.

[4] Cfr. Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 10687 del 13 maggio 2011.

[5] Cfr. Corte di Cassazione, Sezione 2 civile, Sentenza 5 febbraio 2018, n. 2747.

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