Per la Suprema Corte di Cassazione (sent. n. 823/2020), ai contratti a termine stipulati prima del 7 marzo 2015, e convertiti dal giudice dopo tale data per nullità del termine, si applicano le tutele previste dall’art. 18 L. 300/1970 (così come novellato dalla L. 92/2012) in luogo della tutela prevista dal D.Lgs. 23/2015 (cd. contratto a tutele crescenti del “Jobs Act”).
Tale decisione ha il merito di delineare, con una grande efficacia logica-argomentativa, i motivi che conducono a ritenere non applicabile, per il caso di specie evidenziato, la normativa del D.Lgs. 23/2015.
La normativa
Come noto, con la previsione contenuta nella L. n. 183/2014, si delegava il Governo a prevedere, “per le nuove assunzioni“, l’istituzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, secondo la dichiarata finalità legislativa di “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione“.
L’art. 1 del D.Lgs. 23/2015 ha infatti statuito che “per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo è disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto. Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato”.[1]
La sentenza
La Corte di Cassazione ha dunque dovuto analizzare se ad un contratto temporaneo convertito in un contratto di lavoro a tempo indeterminato con sentenza di un giudice per nullità del termine, successivamente al 7 marzo 2015, dovesse essere applicata la normativa di cui alla Legge “Fornero” ovvero la normativa del Jobs Act appena richiamata.
In primo luogo, occorre ribadire che in tema di contratti di lavoro a tempo determinato, la sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del termine ha natura dichiarativa e non costitutiva.
Da ciò consegue l’effetto ex tunc e non ex nunc della conversione del rapporto di lavoro a termine operata a decorrere dalla illegittima stipulazione del contratto.[2]
In ragione di ciò, la nullità della clausola appositiva del termine non comporta la nullità dell’intero contratto, in ossequio al principio di conservazione del negozio giuridico, ma la sua eliminazione a norma dell’art. 1419 c.c., con la conseguente trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato[3].
La Cassazione ha dunque affermato, nella sentenza oggetto dell’articolo di cui si discorre, il principio secondo il quale, in caso di sentenza di accertamento della nullità del termine, non si possa parlare di nuova assunzione così come richiesto dal comma 2 dell’art. 1 del D.Lgs. 23/2015[4] .
In sostanza, applicare al caso di specie de quo la disciplina del cd. contratto a tutele crescenti produrrebbe, secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione, “un’evidente quanto irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori egualmente assunti a tempo determinato prima della sua introduzione ma con la conversione del rapporto, per nullità del termine, in uno a tempo indeterminato in base a sentenze emesse tuttavia, per mero accidente indipendente dalle rispettive volontà, talune prima, altre dopo tale data. Ed infatti, lavoratori nelle stesse condizioni temporali di assunzione (a tempo determinato) e di conversione del rapporto di lavoro subordinato (a tempo indeterminato, per nullità del termine) sarebbero soggetti a regimi di tutela sensibilmente diversi: quelli “convertiti” prima del 7 marzo 2015, al regime cd. Fornero; quelli “convertiti” dopo, al regime del c.d. Jobs act”[5].
Nell’applicare alla fattispecie di cui si discorre la disciplina della L. n. 92/2012 la Suprema Corte di Cassazione, per evitare una sostanziale inefficacia del comma 2 dell’art. 1 del D.Lgs. 23/2015, ha inoltre ed efficacemente individuato le ipotesi di contratti a termine stipulati prima dell’entrata in vigore del d.lg. 23/2015, e convertiti in un contratto a tempo indeterminato dopo tale data, a cui applicare la disciplina del Jobs Act, in una corretta equiparazione alle nuove assunzioni non lesiva del principio di parità di trattamento.
Le ipotesi di conversione rientranti nella fattispecie del D.Lgs. 23/2015 sono:
- la continuazione del rapporto di lavoro oltre trenta giorni (in caso di contratto a termine di durata inferiore a sei mesi) ovvero oltre cinquanta giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi);
- la riassunzione entro dieci giorni dalla scadenza del primo contratto a termine (qualora di durata inferiore a sei mesi) ovvero entro venti giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi), qualora il secondo contratto (che “si considera a tempo indeterminato”) sia stato stipulato dopo il 7 marzo 2015;
- il superamento “per effetto di una successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti” nel “rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore … complessivamente” dei “trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro”, sicché “il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato” (art. 5, comma 4bis del d.lg. 368/2001), qualora detto superamento sia successivo al 7 marzo 2015.
[1] Art. 1 del D.Lgs. 23/2015.
[2] V. Cass. 26 marzo 2019, n. 8385.
[3] V. Cass. 15 maggio 2018, n. 11830.
[4] Comma 2 dell’art. 1 del D.Lgs. 23/2015 “Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato”.
[5] Cass. 16 gennaio 2020, n. 823.