L’inquadramento problematico e il recente caso affrontato dal Tribunale di Roma
Dopo alcuni recenti interventi della Corte di Cassazione[1], la giurisprudenza di merito affronta nuovamente la questione dei compensi onorari per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, chiamati a svolgere compiti estranei alle funzioni di ufficio.
A lungo dibattuta la natura e l’inquadramento normativo di tali emolumenti, la materia si colloca al confine tra giurisdizione ordinaria e amministrativa, tra esercizio di poteri pubblici e diritto di credito.
In tale contesto, appare significativo ripercorrere le tappe fondamentali di una recente controversia, che ha coinvolto Roma Capitale, sul tema della partecipazione di dipendenti comunali alle commissioni pubbliche tecniche[2], come gran parte della giurisprudenza sul punto.
La vicenda trae origine da una delibera della Giunta Comunale di Roma Capitale[3], che nell’ottobre 1997 aveva disposto la costituzione di una Commissione per la verifica e il collaudo di opere di urbanizzazione secondaria nella zona est di Roma. La Commissione era composta da ingegneri, architetti e tecnici, tutti dipendenti dell’allora Comune di Roma. Svolte le attività di collaudo, esse erano state approvate con una determinazione dirigenziale del Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica di Roma Capitale soltanto nel dicembre 2010[4]. Le competenze professionali di conseguenza maturate erano state quantificate dal medesimo Dipartimento con una successiva determinazione dirigenziale del 2014[5]. Non essendo intervenuto poi il pagamento, i membri della Commissione di collaudo hanno adito il giudice ordinario di Roma[6], chiedendo la condanna di Roma Capitale al versamento della somma e al risarcimento dei danni.
Roma Capitale aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario per entrambe le domande, osservando, per un verso, che la natura indennitaria e non retributiva del pagamento richiesto radicava la giurisdizione amministrativa, e per un altro, che l’unico danno risarcibile era quello previsto per il ritardo nell’adozione del provvedimento amministrativo di liquidazione, perciò inquadrabile nella fattispecie di cui all’art. 2 l. n. 241/1990.
Il riparto di giurisdizione secondo la giurisprudenza della Suprema Corte e le vicende sul diritto di credito.
Nella pronuncia in esame[7], il Tribunale di Roma si uniforma alle recenti statuizioni della giurisprudenza di legittimità, ribadendo, preliminarmente, che il giudice ordinario è il giudice naturale dei diritti soggettivi e che, in tal ambito, la giurisdizione amministrativa è ammessa nei soli casi di giurisdizione esclusiva, tassativamente indicati nell’art. 133 c.p.a..
Nello specifico, poi, il Tribunale afferma che in tema di riparto di giurisdizione in relazione a compensi ed onorari, occorre premettere che tali emolumenti fuoriescono dall’ordinaria retribuzione[8], essendo dovuti al professionista, dipendente pubblico, in virtù della sua partecipazione ad un organo o ad una funzione di interesse pubblico di tipo diverso dalle mansioni ordinarie del rapporto di lavoro[9].
Tanto premesso, il Tribunale procedeva a qualificare la natura giuridica della pretesa fatta valere in giudizio dai ricorrenti. Sul punto, come noto, secondo la tesi pubblicistica[10], tali controversie dovrebbero essere ricondotte alla giurisdizione amministrativa, posto che la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio sarebbe quella di interesse legittimo al corretto esercizio della potestà amministrativa nella determinazione dei criteri di determinazione e di quantificazione delle indennità. In tale ambito, la pubblica amministrazione eserciterebbe una discrezionalità amministrativa, culminante nell’adozione di un provvedimento di determinazione del compenso. Anche dopo l’emissione dell’atto, l’Amministrazione resterebbe titolare del potere di ritirare la determinazione di pagamento per ragioni di interesse pubblico sopravvenute, in forza del principio di inesauribilità del potere amministrativo[11].
Pertanto, di fronte all’esercizio di un’attività iure imperii, il pubblico dipendente incaricato non potrebbe mai ritenersi titolare di un diritto soggettivo (relativo di credito) nei confronti dell’Amministrazione, quando, per esempio, faccia valere l’esiguità dell’importo o i criteri utilizzati per la quantificazione del quantum. Milita in favore di questa ricostruzione la natura indennitaria e non retributiva dell’onorario.
Di contro, secondo la tesi privatistica – condivisa dalla sentenza in commento e recentemente ribadita dalle sezioni unite della Cassazione[12] – le controversie in esame rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, atteso che con l’adozione del provvedimento di determinazione del compenso la pubblica amministrazione esaurisce il proprio potere e il destinatario dell’atto diviene titolare di un vero e proprio diritto di credito.
Ne consegue, secondo altra pronuncia in tema di compensi dei membri di commissioni di collaudo di opere pubbliche, che gli eventuali atti di secondo grado che incidano sul provvedimento-fonte del credito sono da ritenersi nulli per difetto assoluto di attribuzione ex art. 21-septies l.n. 241/1990 perché adottati in carenza di potere[13]. La tesi sembra essere confermata anche da una parte della giurisprudenza amministrativa, secondo cui rientrano nella giurisdizione del giudice civile le controversie in materia di componenti di Commissioni di collaudo di opere pubbliche che non abbiano ad oggetto l’espressione di poteri autoritativi, ma che siano attinenti alla fase esecutiva del rapporto[14], trattandosi in tal caso di diritti soggettivi già perfetti ed essendosi esaurito il potere amministrativo di determinazione del compenso dovuto.
Alla luce dell’orientamento maggioritario, il Tribunale di Roma ha riconosciuto[15] il diritto dei professionisti ad ottenere il pagamento dei compensi dovuti, in quanto il potere di Roma Capitale risultava essere stato già esercitato. Infatti, non soltanto il Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica nel 2010 aveva provveduto ad una prima quantificazione del compenso spettante ai componenti della Commissione di collaudo, attestando la congruità dell’ammontare ai lavori già svolti, ma con la determinazione del 2014 ne aveva perfino disposto la liquidazione e la relativa ripartizione tra i singoli professionisti. Il provvedimento di determinazione dell’ammontare del compenso, pertanto, è conclusivo del procedimento amministrativo da parte dell’Ente pubblico ed esaurisce il suo potere. Esaurita così ogni discrezionalità sull’emolumento dell’attività onoraria, l’amministrazione doveva ritenersi controparte equi-ordinata al privato cittadino e pertanto soggetta alle regole del diritto civile[16].
Pertanto, il Tribunale osservava che a seguito dell’emanazione di provvedimenti amministrativi che dispongono la costituzione di organi e commissioni pubblici, che ne stabiliscono le funzioni e le attività, che prevedono e determinano per i loro componenti un compenso stabilito, l’amministrazione perde la propria posizione di supremazia e i commissari acquistano nei suoi confronti un diritto soggettivo di credito, avente ad oggetto una somma di denaro certa, liquida ed esigibile.
Anzitutto, è stata perciò respinta la tesi dell’Amministrazione resistente, secondo cui le determinazioni controverse avrebbero potuto rappresentare al più dei meri preventivi di spesa, in quanto tale spesa risultava invece ben determinata e, inoltre, era stata ritenuta espressamente conforme alle prestazioni svolte dalla Commissione.
Dopo la determinazione dirigenziale che autorizzava la spesa[17], è poi intervenuta una circolare di Roma Capitale dell’aprile 2014[18] che, in virtù del rinnovamento della maggioranza nell’Amministrazione comunale e della volontà politica di garantire la trasparenza e la correttezza dell’operato dei predecessori, aveva disposto la sospensione dell’adozione ed esecuzione di qualsiasi atto di determinazione, liquidazione ed erogazione dei compensi.
Il Tribunale di Roma[19] ha implicitamente ritenuto illegittimo tale provvedimento, riconoscendo che l’unico strumento giuridicamente ammissibile per la sospensione di simili provvedimenti amministrativi fosse quello previsto all’art. 21-quater l. n. 241/1990[20], del quale non ricorrevano i presupposti nella specie.
Ebbene, ha ritenuto il Tribunale che ove un successivo provvedimento non indichi espressamente e tassativamente gli atti di liquidazione dei compensi da doversi sospendere, con possibilità di un unico differimento, né tanto meno le gravi ragioni poste a giustificazione, esso debba considerarsi inidoneo a sospendere l’efficacia dei provvedimenti di liquidazione dei compensi. Per giunta, il giudice civile può disapplicare l’atto di “sospensione” anche quando la violazione consista nel superamento del termine per l’esercizio dei poteri di autotutela[21].
Infine, è opportuno precisare che le circolari, essendo atti interni fra amministrazioni, non vengono notificate ai destinatari dell’originario provvedimento e, pertanto, non sono ad essi opponibili.
Osservazioni conclusive
Con tale pronuncia, il Giudice di Roma ha dato una lettura di inquadramento della materia, riconoscendo la natura indennitaria dei compensi onorari spettanti ai dipendenti pubblici che svolgano funzioni estranee alle mansioni ordinarie, l’estraneità di tali emolumenti alla retribuzione e, al contempo, l’acquisizione di una posizione iure privatorum di diritto di credito nei confronti dell’Amministrazione, una volta determinato il quantum da corrispondere.
Al contempo, trattandosi di compensi disposti e determinati da atti costituenti il risultato dell’esercizio di una potestà amministrativa, si sono ritenute comunque applicabili le norme sul procedimento amministrativo e, in particolare, sui provvedimenti di secondo grado di cui agli artt. 21-quater, 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241/1990, con ogni limitazione in essi prevista.
Pertanto, sull’argomento sono in atto processi di calibrata limatura, che interessano il suo carattere ibrido e la ripartizione delle sue sfaccettature fra le giurisdizioni ordinaria e amministrativa. Dopo le Sezioni Unite del 2017 ed il tentativo di riordino del Giudice di Roma, la questione sembra aver trovato alcuni punti fermi, ma la materia continua ad essere oggetto di frastagliate ed eterogenee speculazioni giurisprudenziali e dottrinali.
[1] Di cui infra.
[2] Come noto, tali organi sono temporanei, non permanenti e funzionali all’assolvimento di un compiti ben delimitati (es. Commissioni di collaudo, di verifica, di controllo ecc.).
[3] Delibera G.C. di Roma del 3.10.1997, n. 4094.
[4] Determinazione dirigenziale del 27.12.2010, n. 1259.
[5] Determinazione dirigenziale del 16.7.2014, n. 1090.
[6] Trib. Roma R.G. n. 79391/2017.
[7] Trib. Roma ord. 702-bis 6.6.2018, R.G. n. 79391/2017.
[8] E, pertanto, anche dal principio dell’onnicomprensività che caratterizza la retribuzione stessa. Al riguardo, è opportuno segnalare che il caso di specie aveva ad oggetto un ex dipendente della pubblica amministrazione, ormai in pensione, il quale mai avrebbe potuto essere oggetto del principio di onnicomprensività della retribuzione. Nel caso, invece, di un dipendente pubblico ancora nel pieno delle funzioni, si richiamano gli artt. 24, 45 e 53 d. lgs. N. 165/2001, nonché le sentenze n. 53/2017 della Sezione Abruzzo e n. 180/2012 della Sezione Sicilia della Corte dei Conti. Infatti, “il principio della onnicomprensività delle retribuzioni corrisposte ai pubblici dipendenti, sancito dall’art. 98 comma 1, della cost., costituisce corollario di esclusività degli interessi della collettività cui è destinato l’agire del pubblico impiegato al quale è vietato perseguire un’utilità individuale ulteriore rispetto a quella costituita dalla legittima retribuzione. Da questa disposizione costituzionale discendono le previsioni destinate a disciplinare la stipulazione di contratti d’opera aventi ad oggetto prestazioni libero-professionali consistenti nell’espletamento di attività indirizzate a fini istituzionali, in particolare, l’art. 24, comma 3, del d.lgs 165/2001, sancisce in maniera analitica il principio di onnicomprensività dei titolari di posizioni dirigenziali; tali incarichi non danno luogo ad “autonoma spettanza retributiva, ma determinano l’obbligo del versamento del compenso nel fondo destinato a remunerare la generalità delle professionalità dirigenziali.” Mentre, nel caso di personale non dirigenziale a parere dei giudici, il principio di onnicomprensività opera in maniera più attenuata, in quanto l’obbligo di versare il relativo compenso nel fondo non risulta applicabile in modo indiscriminato a qualsiasi incarico conferito ratione officii, ma comprende solo gli incarichi compresi nel rapporto contrattuale e non tutti quelli per cui il conferimento o la designazione siano avvenute in ragione della qualifica rivestita o operate dalla struttura di riferimento; si applica ed assume, invece, portata sanzionatoria l’eventuale inosservanza delle norme che disciplinano il conferimento o l’autorizzazione da parte dell’amministrazione“. Ad ogni modo, poiché le Commissioni costituite ad hoc non hanno ad oggetto prestazioni assimilabili a quelle oggetto del contratto di lavoro, non si ritiene che tali principi possano applicarsi ai dipendenti pubblici ancora in funzione che siano chiamati a ricoprire ruoli e funzioni aggiuntive e diverse.
[9] In tal caso, infatti, l’amministrazione-datrice di lavoro eccezionalmente ed espressamente dispone la costituzionedi un organo, per lo svolgimento di una funzione necessaria o utile al perseguimento di interessi pubblici, pur con le caratteristiche di temporaneità e precarietà già viste. Per lo svolgimento di tale attività, l’amministrazione riconosce altresì un compenso, estraneo alla retribuzione, appositamente determinato.
[10] Cass. Sez. Un. 20.9.2013, n. 21592, secondo cui “la controversia avente ad oggetto la scelta dei criteri per la determinazione del compenso, fisso o aggiuntivo, per l’attività svolta … trattandosi di emolumenti di natura indennitaria la cui determinazione non è automatica, ma resta affidata al potere discrezionale dell’autorità che ha proceduto alla nomina dei componenti medesimi”.
[11] Da tale ricostruzione deriva anche la conseguente qualificazione del provvedimento che determina il compenso dovuto quale attributivo di vantaggi economici. Non mancano posizioni giurisprudenziali che si interrogano sulla stessa possibilità che un atto amministrativo, pur frutto di una lata discrezionalità, possa attribuire vantaggi economici e, al contempo, non radicare posizioni di diritto soggettivo perfetto in capo al beneficiario di tali vantaggi (come invece avviene nella materia delle erogazione di contributi pubblici).
[12] Cass. Sez. Un. 31.5.2017, n. 13722, secondo cui “il trattamento economico di compensi o onorari, anche a carattere indennitario e non retributivo e anche ove non configuranti attività di pubblico impiego, sono devolute al giudice ordinario, poiché si controverte di un diritto soggettivo a carattere patrimoniale e non, invece, dell’interesse legittimo al corretto esercizio della potestà amministrativa di scelta dei criteri di determinazione del compenso”.
[13] Cass. Sez. Un. 23.4.1997, n. 3572, in tema di interventi straordinari nel Mezzogiorno e, quindi, di commissioni per lo svolgimento di attività amministrativa. La pronuncia in questione precisava altresì che in tale circostanza il credito è già maturato e non può essere degradato quale interesse legittimo.
[14] TAR Lazio – Roma, 29.12.2008, n. 12364.
[15] Trib. Roma ord. 702-bis 6.6.2018, R.G. n. 79391/2017.
[16] Cass. Sez. Un. 31.5.2017, n. 13722.
[17] Ma prima della determinazione che la liquidava e ne ripartiva l’ammontare tra i membri.
[18] Circolare del Segretario Direttore Generale di Roma Capitale del 28.4.2014, n. 8084.
[19] Trib. Roma ord. 702-bis 6.6.2018, R.G. n. 79391/2017.
[20] A mente del quale “I provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo. L’efficacia ovvero l’esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell’atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze. La sospensione non può comunque essere disposta o perdurare oltre i termini per l’esercizio del potere di annullamento di cui all’articolo 21-nonies”.
[21] Termine di diciotto mesi, stante il carattere del provvedimento amministrativo in esame, ossia attributivo di vantaggi economici secondo lo stesso art. 21-nonies.