Compensazione spese processuali: dichiarata l’incostituzionalità dell’art 92 comma 2 cpc

in Giuricivile, 2018, 5 (ISSN 2532-201X), nota a Corte Cost. sent. n. 77 del 19/4/2018

Con la recentissima sentenza del 19 aprile 2018, n. 77, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, c.p.c., nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162, “nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”.

La questione di legittimità costituzionale e i parametri interposti

A sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma erano stati, con le ordinanze rispettivamente del 30 gennaio 2016 e del 28 febbraio 2017, il Tribunale ordinario di Torino ed il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, entrambi in funzione di giudici del lavoro, con riferimento a plurimi parametri in parte coincidenti.

In species, il Tribunale ordinario di Torino richiamava gli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione; il Tribunale ordinario di Reggio Emilia deduceva gli artt. 3, primo e secondo comma, 24, 25, primo comma, 102, 104 e 111 Cost., nonché gli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), e gli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), questi ultimi come parametri interposti per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.

Il fuoco delle censure di entrambi i giudici rimettenti si appuntava sulla mancata previsione, da parte delle disposizione indubbiata, del potere del giudice – in caso di soccombenza totale – di compensare le spese di lite tra le parti anche in casi ulteriori rispetto a quelli ivi previsti. Il solo Tribunale di Reggio Emilia deduceva, altresì, la mancata considerazione del lavoratore ricorrente come parte “debole” del rapporto controverso al fine della regolamentazione delle spese processuali.

L’analisi delle problematiche sottese alla pronuncia in commento postula una preliminare disamina della disciplina delle spese processuali.

Dai “giusti motivi” di compensazione al sistema “chiuso” di ipotesi tassative

La regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile affonda le sue radici nell’antico principio victus victori, oggi efficacemente scolpito dall’art. 91, primo comma, c.p.c. nella parte in cui – mutuando l’analoga prescrizione dell’art. 370, primo comma, del codice di procedura civile del 1865 − prevede che «il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa».

La disposizione in esame attua il principio di effettività della tutela giurisdizionale di matrice chiovendana, secondo il quale «il processo deve dare a chi ha un diritto praticamente tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire»: l’alea del processo deve cioè gravare sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite, occasionando le spese del suo svolgimento.

L’assolutezza di questo principio generale è temperata dal successivo art. 92 c.p.c., nella parte in cui statuisce due deroghe:

  • la prima, ad oggi rimasta immutata, relativa alla compensazione totale o parziale delle spese nel caso di soccombenza reciproca;
  • la seconda, prevista al comma 2, la cui attuale formulazione è la risultante di un processo di incessante evoluzione legislativa che giova, ai nostri fini, ripercorrere sommariamente.

«Quando concorrono motivi giusti, le spese possono dichiararsi compensate in tutto o in parte»: così disponeva il codice di rito del 1865 e, in sostanziale continuità, il secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. del 1942 mutuava la stessa norma derogatoria: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».

Nell’originaria disciplina dell’istituto, dunque, le deroghe al principio della soccombenza erano sostanzialmente affidate ad una clausola generale (id est i “giusti motivi”), riempita di contenuti, nella casistica concreta, dall’ampia discrezionalità decisoria del giudice.

Proprio l’intrinseca “elasticità” che connotava il potere compensativo in esame, rimesso sostanzialmente al prudente apprezzamento del giudice al di fuori di sicuri parametri di riferimento, fondava le pressanti denunce di “abuso” pervenute al suo indirizzo.

In termini più puntuali, il cuore delle doglianze si appuntava sulla assenza di una adeguata motivazione dei «giusti motivi» che facoltizzavano il giudice a compensare, totalmente o parzialmente, le spese di lite anche in caso di soccombenza totale.  Invero, il principio di diritto, che era stato alla fine fissato in una tralaticia massima di giurisprudenza, affermava che “la valutazione dei «giusti motivi» per la compensazione, totale o parziale, delle spese processuali rientrava nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiedeva specifica motivazione, restando perciò incensurabile in sede di legittimità, salvo che risultasse violata la regola secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa” (argumenta, ex plurimis, da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 15 luglio 2005, n. 14989).

Pur dopo la significativa “correzione di rotta” operata dalle Sezioni unite e attestante la necessità di un “adeguato supporto motivazionale” a corredo della decisione di compensazione, non si placavano le manifestazione di insofferenza avverso una tendenza – per vero assai invalsa nelle aule giudiziarie – ad un uso larghissimo del potere compensativo, destinato a sua volta ad incentivare la litigiosità, anziché scoraggiarla.

Prese così avvio una intensa stagione riformatrice atta ad “assottigliare” le maglie del potere del giudice di compensare le spese di lite, stagione nel cui solco si sono innestati, in species, due importanti interventi riformatori: il primo, ad opera della legge n. 263/2005, con cui il legislatore nazionale, pur confermando la clausola generale dei «giusti motivi», quale presupposto della compensazione delle spese di lite, impose ex professo che questi fossero «esplicitamente indicati nella motivazione»; il secondo, attuato per il tramite della legge n. 69/2009, che nel dichiarato intento di accentuare, in chiave limitativa, il carattere derogatorio della compensazione per giusti motivi, così riformulò il secondo comma dell’art. 92: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».

Nel trapasso dalla vecchia alla nuova disciplina, i «giusti motivi» diventarono, così, «gravi ed eccezionali ragioni»: si coglie plasticamente l’intento del legislatore della novella di “contrarre” il perimetro applicativo della clausola in esame in favore di una più estesa applicazione della regola generale di porre a carico del soccombente totale le spese di lite.

Da ultimo, sull’abbrivio riformatore cominciato nel 2005, il legislatore del 2014 ha ristretto ulteriormente il perimetro della deroga alla regola che vuole che le spese di lite gravino sulla parte totalmente soccombente: questa volta, però, il restyling normativo, abbandonata la via dei ritocchi meramente lessicali, ha investito in pieno la struttura stessa della disposizione, tipizzando le singole ipotesi di compensazione delle spese. Ed invero, espunta la clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni», ad affiancare l’ipotesi della soccombenza reciproca, rimasta invariata nel tempo, sono intervenute ex novo due fattispecie nominate, ossia l’«assoluta novità della questione trattata» ed il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti».

Nel testo attualmente vigente dell’art. 92, comma 2, c.p.c.,, dunque, sono queste le sole ipotesi che facoltizzano il giudice, in caso di soccombenza totale, a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite: trattasi, con retorica evidenza, di ipotesi tassative, un numerus clausus insuscettibile di applicazione analogica.

Così succintamente ricostruita la “storia legislativa” che ha interessato la disposizione indubbiata, si passa ora all’esame delle motivazioni addotte dalla Consulta con la sentenza in commento.

Le argomentazioni della Consulta

Ebbene, ad avviso della Corte Costituzionale proprio la “rigidità” delle due sole ipotesi tassative, violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, “ha lasciato fuori” altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ragione giustificativa.

Invero, il fondamento sotteso alla prevista ipotesi del «mutamento della giurisprudenza su una questione dirimente» risiede nel sopravvenuto “ribaltamento” del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite, senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti.

Non è sfuggito, però, all’attenta considerazione della Consulta che una ratio di tal fatta può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti: più in particolare, può trattarsi di una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; del pari, può trattarsi di una pronuncia della stessa Consulta, in particolare se di illegittimità costituzionale, o di una decisione di una Corte europea; di una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea o di altre analoghe sopravvenienze.

Orbene, nel ragionamento della Giudice delle leggi, queste evenienze sopravvenute, sottratte tutte alla sfera di disponibilità della parti, «ove concernenti una “questione dirimente” al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari “gravità” ed “eccezionalità”, ma non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate», sicché necessariamente debbono essere rimesse al prudente apprezzamento del giudice della controversia.

Parimenti può argomentarsi per l’altra ipotesi prevista dalla disposizione censurata – «l’assoluta novità della questione» – che è riconducibile, più in generale, ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza: ebbene «in simmetria è possibile ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a «gravi ed eccezionali ragioni».

Sulla scorta di questa intelaiatura concettuale, si legge in sentenza che «contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata», le quali ultime assumono, quindi, nel ragionamento della Corte, mero carattere paradigmatico, ed assolvono una funzione parametrica ed esplicativa di una clausola generale di più ampia portata.

Vieppiù – precisa la Consulta – «la rigidità di tale tassatività ridonda anche in violazione del canone del giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.) perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti.»

Ne è scaturita, dunque, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. «nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni».

Quanto, infine, alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, mirante ad innestare nel corpo della disposizione censurata, come deroga alla regola secondo cui la parte soccombente è condannata alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa – oltre alle ipotesi nominativamente previste dalla disposizione stessa come integrate dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui si è detto – un’ulteriore deroga centrata sulla natura del rapporto giuridico dedotto in causa e sulla condizione soggettiva di “parte debole” del lavoratore che agisce nei confronti della parte datoriale, la Corte l’ha dichiarata infondata.

Ed invero, con articolate argomentazioni la Consulta ha precisato che «la qualità di “lavoratore” della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.) − per derogare al generale canone di par condicio processuale quanto all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente»

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