La materia successoria è sempre stata caratterizzata da un elevato tasso di litigiosità sociale, in quanto essa, più di ogni altra, è capace di catalizzare inimicizie personali e vecchi rancori facendoli assurgere a fondamento di pretese giuridiche che, talvolta, arrivano a porsi ai limiti del concetto di temerarietà dell’azione giudiziale.
In questo ambito un argine fondamentale è rappresentato dalla riunione fittizia del patrimonio e della collazione, due istituti giuridici assonanti tra loro per il metodo richiesto ma diversissimi per funzione e contenuto.
La riunione fittizia del patrimonio
Ai fini di determinare se ed in quale misura il de cuius abbia leso i diritti degli eredi legittimari, è preliminarmente necessario procedere alla riunione fittizia dell’attivo ereditario, ossia operare una somma ipotetica tra relictum[1] e donatum[2], e da esso sottraendo tutte le passività del patrimonio ereditario[3].
Si tratta, come accennato, di una mera operazione ipotetica, in quanto a rilevanza squisitamente contabile e priva, ex se, di alcun effetto obbligatorio per i soggetti interessati.
Lo scopo principale è infatti quello di individuare il valore teorico dell’asse ereditario, sulla base del quale calcolare la quota disponibile ed eventualmente valutare la sussistenza e l’entità della lesione dei diritti degli eredi legittimari, cui in tale ipotesi spetterebbe l’azione di riduzione delle disposizioni effettuate in lesione di legittima.
La collazione
Vera e propria obbligazione giuridica avente fonte legale, la collazione è il dovere, sancito dall’art. 737 c.c., per i figli e i loro discendenti ed il coniuge che concorrono alla successione di conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente, salvo che il defunto non li abbia da ciò dispensati e salvo che tale operazione rientri comunque nei limiti della quota disponibile come sopra determinata.
Il concetto di donazione indiretta
Accanto alla donazione tradizionalmente intesa, ovverosia il contratto in forza del quale una parte, detta donante, depaupera il proprio patrimonio al fine di arricchire quello del beneficiario, detto donatario, abbiamo poi un ventaglio di ipotesi atipiche di donazione c.d. indiretta, nell’ambito dei quali si assiste all’utilizzazione di schemi negoziali avulsi dal concetto di donazione ma nell’ambito dei quali, tramite la previsione di prestazioni sinallagmatiche palesemente e volutamente sproporzionate tra loro, si attua il contenuto tipico della donazione, cioè l’arricchimento del patrimonio di una parte a scapito di quello dell’altra.
Il comodato e la donazione indiretta
Fulcro del problema è dunque capire se e fino a che punto il contratto di comodato possa configurarsi quale donazione indiretta o meno. A parere di chi scrive, per una tale indagine è necessario analizzare il comodato nei suoi elementi fondamentali, potendo da lì condurre una comparazione analitica al fine di verificare eventuali corrispondenze con lo schema giuridico della donazione.
Il comodato, così come definito dall’art. 1803 c.c. e indipendentemente dalle pur doverose distinzioni in ordine alla sistematica giuridica[4], è un rapporto fenomenologicamente affine, per contenuto della prestazione afferente alla posizione del concedente, al contratto di locazione, al quale però è connaturato l’obbligo sinallagmatico del pagamento di un corrispettivo.
Sebbene dunque non si possa sostenere la sussistenza di un incremento del patrimonio del beneficiario quale diretto effetto del rapporto di comodato, non può altresì negarsi come da tale rapporto necessariamente derivi una utilità per il beneficiario, che può essere limitata con la previsione di obblighi in capo al medesimo, il pagamento di un corrispettivo[5], o in altre forme rimesse all’autonomia contrattuale delle parti, ma che sicuramente non può venir meno integralmente, a pena di non potersi più parlare di comodato neanche latu sensu.
A tale utilità, che ben potrebbe materialmente concretizzarsi anche in un semplice risparmio di spesa, necessariamente corrisponderà una diminuzione patrimoniale per il concedente, che nell’ipotesi più estrema di cui supra si determinerà in una mancata percezione di un importo pari all’ipotetico corrispondente canone di locazione, o addirittura una semplice privazione del godimento del bene, comunque suscettibile di valutazione economica e determinabile proprio nella misura dell’ipotetico canone anzidetto.
La natura del comodato quale contratto reale essenzialmente gratuito col quale una parte consegna all’altra una cosa affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato e con l’obbligo di restituirla, quindi, è suscettibile di generare per la parte beneficiaria una utilità, alla quale corrisponde, in capo alla parte concedente, una diminuzione patrimoniale, seppur tendenzialmente fittizia, comunque suscettibile di valutazione economica e dunque meritevole di tutela.
A fortiori si pensi al caso, ontologicamente indistinguibile dalla tipica ipotesi di comodato, nel quale un locatore, dopo aver concesso il godimento di un proprio bene al locatario, non percepisca il canone di locazione ed anzi, in relazione al medesimo, rinunzi volontariamente alla percezione con una rimessione del debito. In tale circostanza, infatti, è indubitabilmente configurata una donazione indiretta a favore della parte locataria, per un importo non inferiore al valore congruo del canone di locazione.
La posizione della Cassazione
L’orientamento della Suprema Corte è oramai granitico e pienamente consolidato nel ritenere che l’arricchimento procurato dalla donazione non può essere identificato con il vantaggio che il comodatario trae dall’uso personale e gratuito della cosa comodata, utilità che non costituisce il risultato finale dell’atto posto in essere dalle parti (come invece nella donazione), bensì il contenuto tipico del comodato stesso.[6]
L’obbligo di restituzione della cosa costituirebbe dunque elemento essenziale del rapporto, insito nello schema causale del comodato, cui è connaturata la temporaneità del godimento concesso al comodatario in relazione alla gratuità dell’uso, incompatibile con una illimitata rinuncia alla disponibilità del bene da parte del comodante; in altri termini la predeterminazione del periodo di durata del rapporto nascente dal comodato e dunque la delimitazione nel tempo del beneficio attribuito dal comodante al comodatario costituirebbero elementi peculiari di tale contratto, estranei alla struttura ed alla finalità della donazione.
Tali differenziazioni comporterebbero quindi l’insussistenza nel comodato dell’animus donandi, che pure costituirebbe requisito indispensabile della donazione, dovendosi escludere che le parti abbiano voluto il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento sull’immobile oggetto del negozio, essendo lo scopo di liberalità limitato all’uso gratuito del bene, ferma restando la titolarità di ogni diritto reale in capo al proprietario, circostanza che configura la causa tipica del contratto di comodato e ne evidenzia la differenza da quella che contraddistingue la donazione.[7]
Critiche alla posizione della Cassazione
Sostenere che il vantaggio tratto dal comodatario non costituisca il contenuto del comodato, ma un effetto di esso, è di per sé una tautologia e per di più non risulta comunque dirimente nel caso in esame. Sebbene l’arricchimento non è un elemento del contenuto (rectius: della causa) del contratto di comodato, la stessa Suprema Corte riconosce che esso sia un effetto tipico del contratto, e che dunque in forza di esso sussista uno squilibrio tra i coeredi, eppure proprio all’esito di tali considerazioni rifiuta di applicare l’istituto della collazione, il cui scopo è dichiaratamente quello di colmare tali iniquità.
A ciò si aggiunga che tale ragionamento, formalmente corretto per quanto riguarda la donazione strictu sensu, risulta privo di alcun pregio in relazione alle varie configurazioni indirette di questa, com’è facilmente intuibile nella succitata ipotesi della rimessione del debito; effetti cioè che lungi dal costituire elementi ulteriori e accidentali, sono anch’essi medesimi elementi inscindibilmente connaturati allo schema contrattuale, a prescindere dalla loro effettiva collocazione nella sistematica giuridica del rapporto contrattuale.
Non è dunque chi non veda che comodato e donazione, analizzati nei loro profili essenziali, vadano a coincidere in quelli che sono gli effetti sostanziali del contratto, ossia l’arricchimento di una parte a scapito dell’altra, e che dunque il comodato stesso non possa non definirsi quale donazione indiretta ai fini della configurabilità della collazione relativamente al vantaggio da esso derivante, che necessariamente dovrà essere oggetto di imputazione per equivalente stante la irripetibilità del godimento di cui si è beneficiato.
Eventuali criticità di un accoglimento tout court della collazione del comodato. Riflessioni de iure condendo.
Nonostante la preferibilità di un tale approccio ermeneutico, tuttavia, non è possibile esimersi dall’evidenziare la sua grande criticità, ossia l’iniquità che da esso deriverebbe in relazione all’ipotesi di coesistenza di coeredi che abbiano ricevuto un bene in donazione, e coeredi che abbiano ricevuto un bene in godimento nell’ambito di un comodato.
In questa ipotesi, infatti, solo questi ultimi sarebbero chiamati a imputare il valore del proprio godimento, mentre i beneficiari di una donazione, magari persino più risalente di tale concessione in godimento, sarebbero del tutto esentati da un simile dovere. In questo senso l’unico intervento risolutore non può che essere quello legislativo, in quanto una interpretazione equa andrebbe necessariamente a travisare la lettera delle norme, attribuendo loro un significato che incontestabilmente esse non hanno, né era intenzione del legislatore che avessero.
Al contempo, tuttavia, non è ammissibile che, al fine di nascondere un pur grave vulnus alla parità dei coeredi, se ne introduca in via interpretativa uno di entità notevolmente maggiore, con un progressivo livellamento al ribasso delle tutele legislativamente previste.
[1] Id quod relictum est, lett. «ciò che è stato lasciato».
[2] Ivi incluse non soltanto tutte le donazioni effettuate dal de cuius durante la propria vita, ma il più ampio insieme di tutte le liberalità da esso effettuate, anche se risultanti da atti diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., così come espressamente previsto dall’art. 809 c.c.
[3] Concordemente al principio, tanto di logica quanto di diritto, efficacemente compendiato dal brocardo bona non intelliguntur nisi deducto aere alieno, di cui al primo comma dell’art. 556 c.c.
[4] Ex multis, la stessa natura reale anziché consensuale del contratto.
[5] Seppur solo simbolico, in quanto in caso contrario si avrebbe un semplice rapporto di locazione.
[6] Ex plurimis Cass. Civ., 16 novembre 2017, n. 27259; Cass. Civ., 9 agosto 2016, n. 16803; Cass. Civ., 23 novembre 2006, n. 24866.
[7] Cass. Civ., 23 novembre 2006, n. 24866.