Beni esclusi dal fallimento: ecco come opera l’esclusione di stipendi e pensioni del fallito

Con la sentenza n. 6999 dell’8.4.2015, la prima sezione civile della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di effetti del fallimento sul fallito, chiarendo in che modo opera l’esclusione degli stipendi e delle pensioni del fallito dai beni compresi nel fallimento.

L’art. 46 della nuova legge fallimentare prevede al 1° comma n. 2 che non sono compresi nel fallimento “gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia“. Prevede inoltre al secondo comma che “i limiti previsti nel primo comma, n. 2), sono fissati con decreto motivato del giudice delegato che deve tener conto della condizione personale del fallito e di quella della sua famiglia“.

Sul punto, per lungo tempo, è stato sostenuto un orientamento giurisprudenziale, secondo cui, avendo il fallimento diritto di far propri i crediti del fallito per stipendi arretrati oltre il limite di quantità determinato dai bisogni del fallito e della sua famiglia, l’acquisizione poteva anche essere totale qualora il fallito non avesse chiesto ed ottenuto dal giudice delegato un provvedimento che determinasse la misura degli alimenti a lui spettanti. Tali emolumenti rientravano cioè interamente nell’attivo fallimentare a meno che il giudice delegato non ne avesse accertato l’occorrenza al mantenimento del fallito o della famiglia con fissazione dei relativi limiti (Cass. 25 luglio 1986, n. 4758; 1 novembre 1964, n. 2738).

Con la sentenza in esame, la Corte di legittimità ha tuttavia confermato il più recente e opposto orientamento, ai sensi del quale il pagamento degli stipendi, pensioni, salari ed altri emolumenti di cui alla L. Fall., art. 46, comma 1, n. 2, – che sia stato effettuato dal debitore direttamente al fallito prima dell’emanazione del decreto ex 2° comma dello stesso articolo, con cui il giudice delegato abbia fissato i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della sua famiglia – resti inefficace, ai sensi dell’art. 44, comma 2, legge cit., soltanto per gli importi eccedenti detti limiti, come determinati dal giudice delegato con riferimento al periodo anteriore al suo decreto.

Secondo la Cassazione, infatti, “il diritto del fallito di percepire e trattenere gli emolumenti necessari al mantenimento suo e della sua famiglia sussiste prima ed indipendentemente dal decreto del giudice delegato che ne fissi la misura”. Il decreto in questione ha infatti natura soltanto dichiarativa nonchè efficacia retroattiva dal momento che il curatore, a seguito della sua emissione, può facilmente documentare in causa l’eventuale eccedenza di quanto pagato direttamente al fallito rispetto ai limiti fissati in tale decreto, per poi richiederne la successiva acquisizione nella massa fallimentare (Cass. 31 ottobre 2012, n. 18843).

Ne consegue che, prima che sia stato pronunciato il decreto ex art. 46, comma 2, legge cit., da parte del giudice delegato, non può esser dichiarata l’inefficacia dei pagamenti degli emolumenti elencati al 1° comma n. 2, art. cit., compiuti dal debitore direttamente al fallito. Invero, quel pagamento potrà essere considerato inopponibile al fallimento solamente se, e nella misura in cui, risulti eccedente rispetto al limite fissato dal decreto del giudice delegato. Ma ciò implica l’onere del curatore di richiedere preventivamente al giudice delegato la pronuncia del decreto in questione.

Ebbene, nel caso di specie, il curatore non ha adempiuto a tale onere. La Corte, sulla scorta del citato orientamento, ha pertanto accolto il ricorso del fallito.

(Corte di Cassazione, Prima sezione civile, sentenza n. 6999 dell’8.4.2015)

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