Avvocati in Studi Associati: lavoro autonomo o subordinato?

La Sezione Lavoro (Corte di Cassazione, n. 28274/2024) ha ribadito il principio dell’irrinunciabilità delle garanzie di autonomia e indipendenza degli avvocati, a tutela sia del corretto esercizio della professione nei confronti del cliente e sia del ruolo insostituibile al medesimo spettante per la tutela dei diritti fondamentali e, in ultima analisi, per la garanzia dello stato di diritto nel suo complesso.

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Corte di Cassazione- Sez. Lav.-sent. n. 28274 del 04-11-2024

Avvocato e altri professionisti, lavoro autonomo o subordinato?

La questione di diritto sottoposta alla sezione lavoro attiene alla qualificazione come autonoma o subordinata dell’attività professionale svolta da un’avvocata in uno Studio legale di grandi dimensioni, in cui operano professionisti associati e non. Nei precedenti di legittimità che hanno affrontato il tema della qualificazione come autonoma o subordinata dell’attività resa da un professionista in uno studio professionale, si è affermato che “la sussistenza o meno della subordinazione deve essere verificata in relazione alla intensità della etero -organizzazione della prestazione, al fine di stabilire se l’organizzazione sia limitata al coordinamento dell’attività del professionista con quella dello studio, oppure ecceda le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall’interesse dello stesso studio, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e non della sola assicurazione di prestazioni altrui” (Cass. n. 5389/1994; n. 9894/2005; n. 3594/2011; n. 22634/2019). In tali pronunce si è precisato che, trattandosi di prestazioni professionali che per loro natura non richiedono l’esercizio da parte del datore di lavoro di un potere gerarchico concretizzantesi in ordini specifici e nell’esercizio del potere disciplinare, non risultano significativi i criteri distintivi costituiti dall’esercizio dei poteri direttivo e disciplinare e che neppure possono considerarsi sintomatici del vincolo della subordinazione elementi come la fissazione di un orario per lo svolgimento della prestazione o eventuali controlli sull’adempimento della stessa, se non si traducono nell’espressione del potere conformativo sul contenuto della prestazione proprio del datore di lavoro. In particolare, la sentenza della Corte di Cassazione n. 3594/2011 ha confermato la decisione d’appello che aveva negato natura subordinata al rapporto di lavoro intercorso tra la ricorrente e uno Studio Associato Legale Tributario, presso il quale aveva svolto attività di consulenza fiscale e revisione contabile, sul rilievo che “non si fosse in presenza di un potere del datore di lavoro di improntare “in termini vincolanti e continuativi” le modalità della prestazione lavorativa, quanto piuttosto di una organizzazione del lavoro finalizzata al mero coordinamento dell’attività del professionista con quella dello studio (…).In altri casi, è stato riconosciuto il vincolo della subordinazione dei professionisti in ragione dell’obbligo dei medesimi di attenersi a una organizzazione, comprensiva di turni e ferie, unilateralmente predisposta da parte datoriale e ad essi imposta. La sentenza n. 10043/2004 ha giudicato esente da vizi la decisione di appello che aveva qualificato come rapporto di lavoro subordinato quello svolto da due medici all’interno di una clinica privata sulla base di indici quali il loro inserimento in turni predisposti dalla clinica, la sottoposizione a direttive circa lo svolgimento dell’attività, l’obbligo di rimettersi alla pianificazione dell’amministrazione in ordine alla fruizione delle ferie.

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Il lavoro subordinato

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L’opera è stata realizzata pensando al direttore del personale, al consulente del lavoro, all’avvocato e al giudice che si trovano all’inizio della loro vita professionale o che si avvicinano alla materia per ragioni professionali provenendo da altri ambiti, ma ha l’ambizione di essere utile anche all’esperto, offrendo una sistematica esposizione dello stato dell’arte in merito alle tante questioni che si incontrano nelle aule del Tribunale del lavoro e nella vita professionale di ogni giorno.

L’opera si colloca nell’ambito di una collana nella quale, oltre all’opera dedicata alla cessazione del rapporto di lavoro (a cura di C. Colosimo), sono già apparsi i volumi che seguono: Il processo del lavoro (a cura di D. Paliaga); Lavoro e crisi d’impresa (di M. Belviso); Il Lavoro pubblico (a cura di A. Boscati); Diritto sindacale (a cura di G. Perone e M.C. Cataudella).

Vincenzo Ferrante
Università Cattolica di Milano, direttore del Master in Consulenza del lavoro e direzione del personale (MUCL);
Mirko Altimari
Università Cattolica di Milano;
Silvia Bertocco
Università di Padova;
Laura Calafà
Università di Verona;
Matteo Corti
Università Cattolica di Milano;
Ombretta Dessì
Università di Cagliari;
Maria Giovanna Greco
Università di Parma;
Francesca Malzani
Università di Brescia;
Marco Novella
Università di Genova;
Fabio Pantano
Università di Parma;
Roberto Pettinelli
Università del Piemonte orientale;
Flavio Vincenzo Ponte
Università della Calabria;
Fabio Ravelli
Università di Brescia;
Nicolò Rossi
Avvocato in Novara;
Alessandra Sartori
Università degli studi di Milano;
Claudio Serra
Avvocato in Torino.

Leggi descrizione
A cura di Vincenzo Ferrante, 2023, Maggioli Editore
63.00 € 50.40 €

L’appiglio del 2094 c.c.

La censura mossa dell’avvocata attiene a una asserita erronea applicazione dell’art. 2094 c.c., nella forma della subordinazione attenuata, per avere la Corte d’appello, in contrasto coi precedenti richiamati, dato esclusivo o preminente rilievo all’assenza di potere conformativo (del committente) sul contenuto della prestazione professionale dell’avvocata, trascurando o sminuendo il potere di conformazione unilaterale riguardo all’organizzazione e alle modalità esterne di espletamento dell’attività, che si assume, invece, dimostrato. Per la Cassazione, contrariamente a quanto sostiene l’avvocata, la Corte di merito si è attenuta alle linee direttrici indicate dalla stessa Cassazione ed ha indagato, esaminando il complesso materiale istruttorio, non solo sul potere di conformazione esercitato dal socio o dai soci di riferimento sul contenuto prettamente professionale dell’attività svolta dalla ricorrente, escludendone l’esistenza, ma anche sull’inserimento organico dell’avvocata nello Studio, vale a dire sul modo in cui l’attività della stessa era inserita e regolata all’interno dello Studio legale, ed eventualmente sottoposta a controlli, prescrizioni, limiti o direttive tali da surclassare le strette necessità di coordinamento.

Il profilo contenutistico dell’attività professionale

I colleghi, interpellati per lo più su iniziativa della stessa avvocata, hanno di volta in volta espresso suggerimenti e consigli. Inoltre, l’avvocata “nel confronto con i colleghi dello Studio, assumeva iniziative personali ed esprimeva proprie considerazioni sulle questioni trattate“; inoltre, che era “interpellata personalmente, e a volte anche esclusivamente, sia dai clienti e sia dai procuratori delle controparti“.

Il potere conformativo della prestazione

La sentenza impugnata, per i giudici della Sezione Lavoro, ha partitamente analizzato: le regole organizzative dello Studio, l’obbligo di esclusiva, il rapporto con i clienti, l’utilizzo degli strumenti informatici, delle risorse umane e materiali dello Studio, la previsione di un compenso fisso, l’impegno temporale richiesto all’avvocata e gli eventuali controlli sullo stesso.

La struttura organizzativa in cui era inserita l’attività

La Corte d’appello ha premesso che lo Studio interessato è un’associazione professionale composta da 50 soci e 296 professionisti, iscritti all’albo degli avvocati o a quello dei dottori commercialisti o al registro dei praticanti avvocati, con 95 dipendenti a supporto dell’attività professionale e con sedi a Milano, Roma, Londra e New York. Si tratta di una law firm multidisciplinare, che ha come clienti company di medie o grandi dimensioni e fornisce assistenza in molteplici rami del diritto, cui corrispondono singoli dipartimenti. I giudici di appello hanno esaminato i documenti che disciplinano i vari aspetti della vita dello Studio, in particolare il regolamento associativo, il sistema di gestione per la sicurezza delle informazioni e quello di apertura delle pratiche, ritenendo come essi rispondessero all’esigenza di coordinamento dell’attività dei numerosi professionisti coinvolti, conclusione avvalorata dalla circostanza che le regole imposte coi citati documenti valessero per tutti i professionisti dello Studio, compresi i soci, non rilevando, in senso eccedente rispetto alle esigenze di coordinamento, il fatto che la predisposizione del regolamento e degli altri documenti, così come l’esercizio dei poteri decisionali e di gestione, facesse capo solo ai soci.

L’obbligo di esclusiva o condizione di monocommittenza

Tutti gli incarichi di difesa e assistenza legale erano acquisiti dallo Studio e da questo distribuiti ai singoli professionisti. I professionisti, compresi i soci, lavorano per lo Studio, che in via esclusiva intrattiene i rapporti contrattuali con i clienti ed emette le fatture nei confronti degli stessi. Tutti i professionisti hanno un obbligo di esclusiva, nel senso che non possono gestire una propria clientela collaterale a quella dello Studio, ma possono certamente proporre nuovi clienti ed anzi lo sviluppo della clientela è incoraggiato e incentivato ed ha riflessi positivi anche in termini economici poiché il professionista partecipa ai ricavi provenienti dalle relative pratiche. Queste regole compongono un sistema organizzato all’interno del quale il singolo avvocato decide di prestare la propria attività professionale, accettando alcune limitazioni in cambio di altrettante agevolazioni e prerogative. Le regole sul funzionamento del rapporto coi clienti e il connesso obbligo di esclusiva sono sì decise unilateralmente dagli organi dello Studio associato ma, come accertato dai giudici di appello, rispondono alle esigenze di coordinamento dell’attività dei tanti professionisti che vi operano, nessuno dei quali è svincolato dalla loro osservanza. Quest’ultimo aspetto pone in risalto il lato oggettivo e funzionale dell’organizzazione in cui l’avvocata era inserita: non un sistema di comando imposto ai professionisti non soci, bensì un insieme organico di regole destinate a fissare alcuni limiti e a tracciare alcune procedure al fine di gestire la complessità connessa al numero di professionisti e alla tipologia di clientela. In tale contesto, l’obbligo di esclusiva trova una plausibile spiegazione, all’interno della cornice del coordinamento, per evitare conflitti di interesse che potrebbero sorgere se ciascuno dei professionisti potesse gestire, in modo parallelo, una propria clientela, tenuto anche conto dell’ambito di copertura dei rischi in base alla polizza professionale sottoscritta dallo Studio.

L’impegno temporale

Nel giudizio è stato escluso che le tempistiche indicate nelle e-mail, in base al tenore delle stesse complessivamente interpretate, fossero espressione di un potere conformativo dello Studio sulla prestazione professionale dell’avvocata, rispondendo quelle tempistiche alla necessità, insita nell’attività di avvocato, di rispettare i termini processuali e le cadenze temporali imposte dalle scelte e dalle richieste dei clienti. E’ stato accertato che il badge aveva la funzione di chiave di accesso ai locali dello Studio e che la compilazione dei time sheet”, richiesta a tutti i professionisti dello Studio, soci compresi, rispondesse a mere esigenze di natura contabile e non nascondesse alcuna forma di controllo sui tempi dell’attività svolta. I due giudici di merito hanno condiviso la valutazione sulla compilazione dei time sheet come indice del carattere autonomo della prestazione sul rilievo che “in assenza di un orario di lavoro da rispettare, le ore erano quelle indicate nei time sheet dal professionista stesso, senza che tale compilazione fosse soggetta ad alcun controllo o verifica di merito, da parte di terzi dello Studio, sull’effettività di quanto dichiarato dal professionista”. I giudici di appello hanno appurato che la disposizione del regolamento in punto di ferie non prevedeva alcuna autorizzazione del piano ferie, predisposto in base alle indicazioni fornite dai professionisti per consentire a tutti di sapere chi fosse presente in studio e chi no in una certa data.

Il compenso

La previsione di un compenso fisso mensile è stata giudicata inidonea a incidere sull’inquadramento tipologico della fattispecie sia per il rilievo sussidiario di tale elemento nell’indagine sulla natura subordinata o autonoma di un rapporto e sia per l’accertamento, compiuto dal tribunale e fatto proprio dai giudici di appello, sulla partecipazione degli avvocati dello Studio a quanto ricavato dalle pratiche relative ai clienti da ciascuno procurati, aspetto quest’ultimo proprio dell’esercizio della libera professione.

L’esclusione della natura subordinata

La Cassazione ha osservato che l’accertamento compiuto dai giudici di merito non ha trascurato gli indici significativi che hanno indotto a escludere l’esercizio di un potere conformativo unilaterale della law firm sia sul contenuto professionale dell’attività posta in essere che sull’organizzazione e le modalità di espletamento della stessa, sia pure nell’accezione attenuata propria del lavoro intellettuale. L’esclusione della natura subordinata del rapporto si basa sull’analisi dei dati probatori raccolti, svolta secondo il punto focale dello spazio per il libero esercizio della professione, non solo nei suoi contenuti tecnici ma anche nelle sue modalità temporali e gestionali, spazio risultato non intaccato e non etero-diretto dallo Studio.

Autonomia e indipendenza dell’avvocato

Le pronunce richiamate si basano sul principio della irrinunciabilità delle garanzie di autonomia e indipendenza dell’avvocato, a tutela sia del corretto esercizio della professione nei confronti del cliente e sia del ruolo insostituibile al medesimo spettante per la tutela dei diritti fondamentali e, in ultima analisi, per la garanzia dello stato di diritto nel suo complesso.

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