Attribuzione del solo cognome paterno: questione di legittimità costituzionale

in Giuricivile, 2021, 3 (ISSN 2532-201X)

L’automatica attribuzione del solo cognome paterno è un retaggio patriarcale: sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 262 co. 1 c.c.

Con ordinanza depositata l’11.2.2021, n. 18, la Corte Costituzionale, riprendendo quanto detto con sentenza n. 286 del 2006, torna a riaffermare la necessità di ristabilire il principio di parità dei genitori, scevro da retaggi patriarcali frutto di una concezione ormai superata.

La questione devoluta alla Corte Costituzionale in commento origina dall’intervento da parte del Tribunale di Bolzano, chiamato a decidere nel merito, in ordine al ricorso presentato dal pubblico ministero, ai sensi dell’art. 95 d.P.R. 3.11.2000, n. 396, al fine di ottenere la rettificazione dell’atto di nascita di una bambina, cui i genitori, non uniti in matrimonio, hanno concordemente voluto attribuire il solo cognome materno, confermando tale volontà anche nel corso del procedimento dinanzi al giudice a quo.

Il Tribunale ordinario di Bolzano osserva come questa scelta concorde sia preclusa dall’art. 262 co. 1 c.c., anche all’esito della sentenza della Corte Costituzionale n. 286 del 2006, che ha riconosciuto la possibilità (solo) di aggiungere al patronimico il cognome della madre; nel caso prospettato, invece, la volontà dei genitori era volta all’acquisizione del solo cognome materno.

Pertanto, con ordinanza del 17 ottobre 2019, il Tribunale sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 262 co. 1 c.c., che, nel disciplinare il cognome del figlio nato fuori dal matrimonio, prevede che “se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre”: la disposizione viene censurata nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno.

Secondo il giudice a quo, una simile preclusione si porrebbe in contrasto: con l’art. 2 Cost., sotto il profilo della tutela dell’identità personale; con l’art. 3 Cost., per quanto riguarda l’uguaglianza tra donna e uomo; con l’art. 117 co. 1 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, firmata a Roma il 4.11.1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4.9.1955, n. 848, che trovano corrispondenza negli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7.12.2000 e adottata a Strasburgo il 12.12.2007.

Segnatamente, il Tribunale ritiene che, allo stato attuale, l’acquisizione del cognome alla nascita avvenga unicamente sulla base di una discriminazione fondata sul sesso dei genitori, anche in presenza di una diversa volontà comune degli stessi, e, dunque, in totale spregio del principio di parità tra uomo e donna, ormai principio cardine di una civiltà che si fonda sul principio di eguaglianza e di non discriminazione.

La Corte Costituzionale, con l’ordinanza in commento, depositata in data 11 febbraio 2021, n. 18, ritiene che le questioni sollevate dal giudice a quo, relative alla preclusione della facoltà di scelta del solo cognome materno, siano strettamente connesse alla più ampia questione concernente la generale disciplina dell’automatica attribuzione del cognome paterno: pertanto, “il giudice a quo chiede l’adozione di una specifica ipotesi derogatorio, ritenuta costituzionalmente imposta, volta a riconoscere il paritario rilievo dei genitori nella trasmissione del cognome del figlio” [1].

Ciò posto, deve osservarsi come la secolare prevalenza del cognome paterno trova il proprio riconoscimento normativo – oltre che nella disposizione censurata, negli artt. 237 e 299 c.c.; nell’art. 72 co. 1 del regio decreto 9.7.1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile); negli artt. 33 e 34 del d.P.R. 3.11.2000, n. 2396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2 co. 12, l. 15.5.1997, n. 127).

A tal proposito, la Corte Costituzionale veniva – già in precedenza – chiamata a valutare la legittimità costituzionale di questa disciplina, in riferimento sia al principio di parità dei genitori, sia al diritto all’identità personale dei figli, sia alla salvaguardia dell’unità familiare. In tali sedi, la Corte ha avuto modo di indicare che “l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”[2]. Così, nel 2006, ravvisando il contrasto della regola del patronimico con gli artt. 2, 3, 29 co. 2 Cost., il Giudice delle Leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma, desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c.; 72 co. 1 del r.d. n. 1238 del 1939; e 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, nella parte in cui non consente a genitori, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno; dunque, la dichiarazione di legittimità costituzionale veniva estesa, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge. 11.3.1953 n. 87, all’art. 262 co. 1 c.c. e all’art. 299 co. 3 c.c.

Nella decisione, la Corte, affermando la necessità di ristabilire il principio di parità dei genitori, prendeva atto che “in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”, “sopravvive” la generale previsione dell’attribuzione del cognome paterno, destinata a operare in mancanza di accordo espresso dei genitori.

Orbene, considerando che gli inviti del Giudice delle Leggi ad una rimodulazione della disciplina sono rimasti, allo stato, disattesi dal legislatore, deve ritenersi che, anche laddove fosse riconosciuta la facoltà dei genitori di scegliere, di comune accordo, la trasmissione del solo cognome materno, la regola che impone l’acquisizione del solo cognome paterno viene  ribadita in tutte le fattispecie in cui tale accordo manchi, o, comunque, non sia stato legittimamente espresso: in questi casi viene infatti riconfermata la prevalenza del cognome paterno, la cui incompatibilità con il valore fondamentale dell’uguaglianza è stato a più riprese censurato dalla Corte.

Dunque, neppure il meccanismo consensuale, su cui fa leva la limitata possibilità di deroga alla generale disciplina del patronimico, potrebbe porre rimedio allo squilibrio ed alla disparità tra i genitori, giacché, lungi dall’essere espressione di un’effettiva parità tra le parti, evidenzia come una di esse (il padre) non abbia bisogno dell’accordo per far prevalere il proprio cognome.

Cioè posto, la Corte Costituzionale, adita dal giudice a quo con ordinanza del 17 ottobre 2019, ravvisa in primo luogo che la risoluzione della questione avente ad oggetto l’art. 262 co. 1 c.c., nella parte in cui impone l’acquisizione del solo cognome paterno, si configura come logicamente pregiudiziale e strumentale per definire le questioni sollevate dal giudice a quo; ravvisa, inoltre, la non manifesta infondatezza della questione pregiudiziale, rilevabile nel contrasto della vigente disciplina, impositiva di un solo cognome e ricognitiva di un solo ramo genitoriale, con la necessità, costituzionalmente imposta dagli artt. 2 e 3 Cost., di garantire l’effettiva parità dei genitori, la pienezza dell’identità personale del figlio e di salvaguardar l’unità famigliare.

Pertanto, con l’ordinanza in commento, la Corte Costituzionale, in data 13 gennaio e depositata l’11 febbraio 2021, n. 18, solleva davanti a sé questione di legittimità costituzionale dell’art. 262 co. 1 c.c., nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117 co. 1 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, ratificata e resa esecutiva con la legge 4.8.1955, n. 848.


[1] Corte Cost. ord. 11.2.2021, n. 18.

[2] Corte. Cost., ord. n. 586 e n. 176 del 1988; ord. n. 61 del 2006.

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