Art. 6 CEDU: giurisprudenza e sentenza Ferrazzini

in Giuricivile, 2020, 10 (ISSN 2532-201X)

L’art. 6 CEDU viene considerato il punto principale di riferimento per individuare lo standard minimo di garanzie che sono riconosciute alla persona in merito al potere giurisdizionale esercitato dallo Stato.

La norma al primo comma prevede che «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e obbligazioni di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma laccesso alla sala dudienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia».

Al secondo e al terzo comma prevede che «ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. In particolare, ogni accusato ha diritto di:

  1. essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui
  2. comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico;
  3. disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;
  4. difendersi personalmente o avere lassistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato dufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia;
  5. esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;
  6. farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza».[1]

L’art. 6 CEDU: struttura e contenuto

Le garanzie previste riguardano il diritto ad un processo equo, celere e ad un tribunale imparziale, perché si garantisca un procedimento dove non vi sia incertezza giuridica ma limitando la durata del processo al tempo che risulta necessario alla maturazione della decisione.

Nella materia fiscale questo principio è fondamentale perchè evita di creare incertezze e disagi nella tutela del patrimonio del contribuente.

Oltre a questo principio risulta importante anche il riferimento ad un tribunale indipendente e imparziale, in quanto tali caratteristiche garantiscono il giudizio da parte di un organo che non è legato in alcun modo agli altri poteri dello Stato.

Come già ricordato, quindi, ogni Stato contraente è destinatario di questa obbligazione ed è tenuto ad adoperarsi per strutturare il proprio sistema giurisdizionale, conformandolo al rispetto di tali principi.

Il diritto alla pubblicità del processo ha il compito di porlo sotto un controllo da parte dell’esterno, partendo da uno dei pilastri della democrazia che è la possibilità dei cittadini di avere una visione trasparente del potere giurisdizionale.

Come anche il diritto alla ragionevole durata del procedimento si incardina all’interno di questo schema come la necessità di evitare che le lungaggini processuali creino conseguenze sfavorevoli per coloro che si ritrovano coinvolti nella controversia.

Nella materia fiscale limitare la durata del procedimento ai tempi strettamente necessari risulta particolarmente importante per evitare conseguenze spiacevoli che andrebbero a cadere direttamente sul patrimonio del contribuente.

Oltre a questi argomenti un elemento importante è anche il diritto ad un Tribunale precostituito per legge, che risulti indipendente e imparziale comporta che la decisione finale sia presa basandosi sui soli fatti esposti, quindi sulla valutazione del caso concreto e sull’interpretazione e applicazione della legge.

L’art. 6 viene anche richiamato accanto all’art. 14 della Convenzione, che ha grande importanza relativamente alla materia tributaria. La distinzione fra le differenze di trattamento fiscale hanno portato la Corte EDU a dare una interpretazione del divieto di discriminazione.

Nella materia tributaria, venne dimostrato che gli Stati hanno un margine di discrezionalità più ampio che in altre situazioni, per cui è pacifico che ogni sistema fiscale comporta la distinzione di diverse categorie di contribuenti.

Come poi vedremo nel prosieguo della trattazione, altri casi giurisprudenziali hanno ammesso il primato del potere impositivo dello Stato che rispetta il principio di non discriminazione se la discriminazione in questione ha una oggettiva giustificazione, non perseguendo uno scopo legittimo.

Applicazione art. 6 alla materia tributaria

A questo punto, per quanto riguarda l’applicazione dell’art. 6 alla materia tributaria, è necessario tenere presente che il potere di controllo degli organi giurisdizionali non è senza limiti, in quanto il diritto ad un giusto processo potrebbe essere considerato anche alla luce della ragionevole durata del processo. Una parte della dottrina italiana pone tuttavia una distinzione fra procedimento e pubblicità dello stesso, considerando i requisiti del giusto processo, quali il contraddittorio e la parità fra le parti.[2]

Un caso giurisprudenziale interessante è il cd. caso Shouten e Meldrum in cui si sosteneva che «possono esistere delle obbligazioni «patrimoniali» nei confronti dello Stato o dei suoi organi che, ai fini dell’art. 6 ,par. 1, devono essere considerate come rientranti esclusivamente nell’ambito del diritto pubblico e di conseguenza non sono comprese nella nozione di «diritti e obbligazioni di carattere civile». A parte le multe imposte a titolo di «sanzione penale», si verifica, in particolare, quando unobbligazione di natura patrimoniale risulta da una legislazione fiscale oppure fa parte dei normali doveri civici imposti in una Società democratica».[3]

Infatti, nel rapporto tra diritti fondamentali e diritto tributario il primo elemento da tenere in considerazione è l’art. 6 della CEDU e il suo rapporto con la sentenza Ferrazzini.

Soffermandoci sulla semplice lettura del testo, vediamo che [4]la disposizione garantisce sostanzialmente il diritto ad un processo equo e ad una buona amministrazione della giustizia per qualunque persona che si trovi ad avere a che fare con il procedimento giudiziario.

L’articolo in questione impone allo stato un obbligo di risultato per cui non compete all’organo giudiziario sovranazionale trattare pretesi errori di fatto e di diritto commessi da un tribunale interno a meno che possano arrecare un pregiudizio alle garanzie stabilite dalla disposizione.

Inoltre tale tipo di controllo non può vertere sulla fondatezza delle decisioni giudiziarie, perché la convenzione non autorizza i suoi organi a censurare, ad esempio, una sentenza di condanna per il fatto che il tribunale avrebbe proceduto ad una valutazione errata dei fatti.

Infatti il controllo concerne solo la regolarità dei fatti e la conformità con le disposizioni contenute nella convenzione, tanto che l’oggetto non riguarda il contenuto materiale delle decisioni.

Si desumono quindi importanti principi, tra cui si possono ricordare la buona amministrazione della giustizia, tanto che un’interpretazione restrittiva della convenzione non corrisponderebbe allo scopo cui è direttamente indicata.

Un altro principio importante è legato alla preminenza del diritto che stabilisce che gli stati firmatari, visto che hanno deciso di adottare la convenzione, lo hanno fatto propriamente per il rispetto di tale principio.

Dobbiamo però riconoscere che l’art. 6 non prevede in termini espliciti un diritto di accesso ai tribunali, perché enuncia diritti distinti ma che derivano dallo stesso principio per cui si crea un corpus di diritti del quale non si da una definizione precisa.

Il diritto ad un tribunale non è assoluto, infatti si presta a numerosi limiti che possono restringere l’accesso aperto a chi è sottoposto alla giustizia e la convenzione si prefigge lo scopo di proteggere diritti non teorici o illusori ma concreti ed effettivi.

Questo diritto ad un tribunale riguarda propriamente il diritto di accesso , anche se questo diritto non è assoluto richiedendo per la sua natura una regolamentazione da parte dello stato.

Gli Stati contraenti godono in materia di un certo potere discrezionale e compete alla corte decidere in ultima istanza sul rispetto dei requisiti della convenzione.

La corte riconosce anche i limiti di accesso al tribunale che possono essere molto piu estesi quando si tratta di disciplinare le attività di interesse pubblico che non quando si tratta di una controversia sul comportamento di un semplice privato cittadino.

Si deve allora considerare una nozione di tribunale, inteso in senso giurisdizionale per il suo ruolo materiale, che debba decidere, sulla base di norme di diritto e al termine di un procedimento organizzato, ogni questione rientrante nella sua competenza.

Il fatto che un soggetto vanti sul piano del diritto interno di avere una pretesa che possa dare luogo ad un’azione giudiziaria può dipendere non solo dal contenuto materiale vero e proprio ma anche dall’esistenza di ostacoli processuali che vanno ad impedire o limitare la possibilità di investire un tribunale di possibili lamentele.

L’articolo 6 non distingue gli illeciti penali non punibili dagli altri illeciti penali, in quanto risulta applicabile ad ogni persona imputata di qualsiasi illecito penale.

In linea di principio gli Stati sono liberi di elevare ad illecito penale un’azione od un’omissione che non costituisce esercizio normale di uno dei diritti garantiti dalla convenzione.

Dalla giurisprudenza si evincono tre criteri alternativi, come la qualificazione formale data a tale comportamento dal diritto nazionale, dalla natura dell’illecito contestato e dalla gravità della sanzione in cui si incorre.

Per fondatezza di un’accusa occorre intendere non solo la fondatezza dell’accusa in fatto, ma anche la sua fondatezza in diritto perché non si può ritenere che un’accusa sia stata accertata fino a che una decisione di proscioglimento o di condanna non diviene definitiva.

Però il principio dell’equo processo è applicabile sia in materia penale che civile e se ne deducono una grande serie di principi come la pubblicità del procedimento, indipendenza e imparzialità del tribunale.

Queste garanzie devono guidare il processo in modo da assicurarne l’equità in ogni fase del procedimento e ciò comporta anche che un giudizio sull’equità del procedimento stesso possa dipendere solo “da un esame della totalità degli atti compiuti nel corso del processo”.[5]

L’articolo 6 comunque non disciplina l’ammissibilità delle prove perché si tratta di una competenza tipica del diritto interno, spettando infatti ai tribunali nazionali di stabilire questo principio.

Le modalità di applicazione delle garanzie devono infatti dipendere dal procedimento in oggetto e come ad esempio in ordine all’appello occorre prendere in considerazione il processo condotto nell’ordinamento giuridico interno nella sua interezza e il ruolo che ha avuto la corte d’appello.

Tale articolo, come ricordato, prevede anche che un tribunale debba decidere sia in materia civile che penale in un “termine ragionevole”, in materia civile tale celerità si richiede per evitare una prolungata incertezza che può arrivare agli estremi del diniego di giustizia.

In materia penale questo imperativo viene richiesto per evitare le conseguenze spiacevoli che inevitabilmente subisce ogni persona che viene perseguita penalmente.

I principi che sono stabiliti dalla giurisprudenza europea per stabilire quale e cosa possa essere considerato un termine ragionevole sono molto chiari e riguardano: la complessità del caso, il comportamento dell’imputato o delle parti, il comportamento delle autorità giudiziarie.

Sono previste anche delle garanzie che riguardano il rispetto del contraddittorio che è la regola nel processo penale e l’equo processo; tali principi devono essere interpretati in maniera strumentale alla loro funzione nel contesto generale del procedimento.

Inoltre sono unite da un legame necessario che riguarda il diritto ad una informazione precisa in un tempo breve e nella lingua conosciuta dall’imputato, della natura e dei motivi dell’accusa per garantire un maggiore sviluppo del diritto di difesa.

Naturalmente ogni imputato ha diritto di difendersi e di avere l’assistenza di un difensore, anche se a ciò non si può attribuire un carattere assoluto, perché tale principio è sottoposto a limitazioni relative al gratuito patrocinio e quando gli interessi della giustizia impongono l’assistenza di un difensore d’ufficio.[6]

Per quanto riguarda la produzione delle prove è strettamente connessa all’esercizio del diritto di difesa, per cui in ordine alle prove prodotte dall’accusa, tali diritti consentono all’imputato di avere un’opportunità adeguata e sufficiente per contestare.

L’art. 6 prevede anche un range minimo di garanzie che sono previste a favore di ogni soggetto in relazione al potere giurisdizionale. Però il potere di controllo non è previsto per i settori non coperti dalla CEDU o dai Protocolli aggiuntivi, oppure in alcuni settori che sono stati esplicitamente esclusi dagli Stati contraenti, non dovrebbe avere luogo teoricamente.[7]

Ed è proprio la materia tributaria che ha sollevato maggiori problematiche a livello di interpretazione, perché da una semplice lettura dell’art. 6 sembrerebbe che la tutela sia estesa soltanto alla materia inerente le obbligazioni civili e la materia penale, escludendo quindi la materia pubblica di cui fa parte il diritto tributario.

Secondo Ferrario,[8] la scelta operata dall’art. 6 potrebbe avere carattere definitorio ma potrebbe anche avere il fine di selezionare i possibili ambiti di applicabilità della tutela operata dalla Convenzione.

Quindi i principi a fondamento del giusto processo non sarebbero applicabili nel caso in cui un’autorità pubblica eserciti le prerogative proprie dei poteri impositivi dello Stato.

La Corte di Strasburgo è tornata molte volte sull’interpretazione dell’art. 6, cercando di estendere la tutela del contribuente volendo riconoscere l’applicabilità delle regole del giusto processo ai soli procedimenti fiscali che coinvolgano sanzioni e alle fasi di accertamento del giudizio.  

La sentenza Ferrazzini

La Corte EDU non ha voluto assumere il termine controversie in un’accezione formale (art. 6 CEDU) ma ha voluto creare una definizione sostanziale che deve essere reale effettiva e seria[9], ricomprendendo tutte le procedure contenziose che siano risolutive per la determinazione dei diritti e di obbligazione di carattere civile.

Infatti i giudici della Corte di Strasburgo hanno sempre ritenuto applicabile l’art. 6 a situazioni che oggettivamente e soggettivamente vanno a ricadere nella sfera privatistica.

Quello che è stato il criterio della Corte per allargare la nozione civile è relativa alla patrimonialità, che prevede che l’organo di giustizia della CEDU, nel verificare la qualificazione di una controversia, effettui un bilanciamento tra i vari elementi di un rapporto giuridico.

Però piu ci si avvicina alla materia tributaria tale criterio è stato oggetto di limitazioni e precisazioni.

La rilevanza del criterio della patrimonialità è stata rivalutata dalla corte EDU, nel caso di un’obbligazione per sua natura pecuniaria e astrattamente rientrante nell’ambito civile, sia “per l’effetto del rapporto obbligatorio tributario e di diritto pubblico” dove non si possono applicare le garanzie procedurali offerte dall’art. 6.

Analisi del caso Ferrazzini

Il Governo italiano eccepiva l’inammissibilità del ricorso per incompatibilità ratione materiae della Corte EDU sostenendo che l’art. 6 era inapplicabile in quanto si trattava di una controversia in ambito tributario.

Infatti il Governo evidenziava che i procedimenti in questione non riguardavano accuse in materia penale perchè il procedimento di esecuzione delle sentenze delle commissioni tributarie si svolgeva in maniera conforme a quello previsto per le obbligazioni di carattere civile e perchè la somma che il ricorrente avrebbe dovuto pagare non poteva essere convertita in una misura detentiva.

Inoltre il Governo ribadiva che i procedimenti tributari in questione non riguardavano un diritto di carattere civile in quanto l’obbligazione tributaria dell’individuo nei confronti dello Stato rientra nel campo del diritto pubblico.

La Corte EDU ha ammesso che la CEDU sia uno strumento di diritto vivente e che debba essere interpretato alla luce delle condizioni di vita attuali.

Ha infatti affermato che all’interno della sua competenza non può non tenere conto dei cambiamenti intervenuti nella società, perchè ha riconosciuto in diversi settori che i rapporti tra lo Stato e l’individuo sono molto progrediti, superando in molti casi l’impostazione tradizionale.

Questa sentenza si pone dinanzi a numerose critiche, perchè in questa sentenza sembra ritenere che questa deroga alle garanzie convenzionali ha effetto anche in relazione ai profili processuali.

Quindi il contribuente si trova ad essere svantaggiato nei confronti dello Stato perchè è in una posizione di completa soggezione davanti al potere impositivo statale.

La corte secondo gran parte della dottrina rimane ancorata ad un rapporto anacronistico tra Fisco e Contribuente ritenendo che questo non sia cambiato nel trascorrere degli anni, ma il potere dell’amministrazione finanziaria oggi è un potere del tutto amministrativo e l’imposizione si giustifica fondandosi sul concorso alle spese pubbliche in relazione alla capacità contributiva espressa nell’art. 53 Cost. italiana.

A partire dal caso Bendenoun,[10] la Corte ha formalizzato un secondo orientamento con il quale attraverso parametri un po’ diversi arriva al medesimo risultato, riconducendo il ragionamento alle misure sanzionatorie.

Il carattere penale delle misure sanzionatorie tributarie è dato dal concorso di vari elementi, che sono la generale applicabilità a tutti i contribuenti, che comporta quindi una astrattezza della norma, in quanto non deve valutare espressamente singoli casi, ma deve adattarsi alla generalità.

Inoltre vi deve essere la mancanza di un fine risarcitorio o restitutorio e alla sua base vi deve essere anche, necessariamente un carattere essenzialmente punitivo e preventivo nonché un’apprezzabile entità della sanzione stessa.

Questi criteri stabiliscono una specificazione dei criteri precedentemente adottati, in quanto ha enucleato punti di analogia tra le sanzioni strettamente penali e quelle tributarie che presentano la stessa finalità deterrente e punitiva con la conseguenza che i contenziosi che hanno ad oggetto la legittimità di sanzioni amministrative in ambito fiscale devono svolgersi secondo le garanzie offerte dal giusto processo.

La situazione che è stata appena descritta può essere superata in favore dell’applicazione a tutti i processi tributari delle regole del fair trial e attraverso una comparazione tra i vari ordinamenti degli Stati che aderiscono alla CEDU.

Infatti attualmente la giustificazione all’imposizione è da ricercare nel principio solidaristico del concorso alle spese pubbliche in ragione alla capacità contributiva, per questo motivo il processo tributario può essere oggetto di numerose garanzie tipiche di altro procedimento.

A questo punto risulta necessario vedere nello specifico cosa ha previsto la sentenza Ferrazzini, sent. 44759/98 che, come abbiamo ricordato, per prima ha aperto la strada ad una nuova valutazione dei rapporti fra Stato e contribuenti.

Con ricorso alla CEDU presentato il 26 febbraio 1998 il sig. Ferrazzini, cittadino italiano, ha sollevato la questione dell’eccessiva durata di tre procedimenti tributari nei quali era stato parte in causa.

La causa ha preso le mosse da alcuni atti posti in essere dal ricorrente, di conferimento di beni, anche immobili, in favore di una società a responsabilità limitata, avente ad oggetto l’esercizio dell’attività di agriturismo, della quale il ricorrente possedeva quote di controllo. La società aveva chiesto di poter beneficiare di un’agevolazione nell’applicazione dell’aliquota di alcune imposte sul trasferimento di proprietà, conformemente ad una disposizione legislativa interna a suo avviso applicabile, versando all’erario i relativi importi.

La commissione tributaria rigettò i ricorsi perché i beni trasferiti non potevano essere considerati tipici di una società agricola. Una volta attivato il procedimento davanti alla CEDU il ricorrente sosteneva in via preliminare l’inammissibilità del ricorso, non ritenendo l’art. 6 CEDU applicabile al processo tributario, individuato quale branca del diritto pubblico che non rientra nel diritto penale e non facente parte nemmeno delle obbligazioni di carattere civile.

La corte ritenendo che questo motivo ponesse delle questioni molto complesse non liquidabili in sede di vaglio preliminare sull’ammissibilità della causa, decideva di trattare l’argomento insieme al merito dichiarando il ricorso ammissibile. Inoltre la corte si soffermava sulla valutazione dell’assimilabilità ad una obbligazione di carattere civile, ritenendo la convenzione uno strumento vivo da interpretare alla luce delle condizioni di vita attuali. Richiamando la propria giurisprudenza il collegio affermava che la nozione di diritti ed obblighi di natura civile non può essere interpretata alla sola stregua dell’ordinamento interno godendo di una propria autonomia.

Anche se il procedimento tributario coinvolgeva un aspetto indubbiamente patrimoniale, questo non sarebbe sufficiente a giustificare l’equiparazione con gli altri istituti di carattere civile.; e anche quelle prestazioni patrimoniali imposte a titolo di sanzione penale, sarebbe dato rinvenire obbligazioni di natura patrimoniale anche nei confronti dello stato o di altro soggetti pubblici che non possono essere ricomprese nella nozione di obblighi di carattere civile.

Per quanto riguarda la materia fiscale le evoluzioni che si sono verificate nella società non sarebbero tali da intaccarne i caratteri essenziali di branca dell’ordinamento facente parte del nocciolo duro delle prerogative della potestà pubblica.

Nella dissenting opinion del giudice Lorenzen si legge che l’obbligo di pagare le tasse colpisce direttamente e in modo sostanziale gli interessi patrimoniali dei cittadini e che in una società democratica l’imposizione di tasse si fonda sull’applicazione di regole di diritto e non sulla discrezionalità.

Il collegio ha chiaramente affermato che la convenzione “è uno strumento vivo che deve essere interpretato alla luce delle condizioni di vita attuali e la corte è chiamata a verificare, considerati i cambiamenti intervenuti nella società se il campo di applicazione deve essere o meno esteso”.

Di conseguenza non si tratterebbe solo delle ipotesi in cui la PA agisce iure privatorum ma anche nelle ipotesi in cui la stessa agendo in base a poteri di imperio conferiti dalla legislazione di natura pubblicistica, intervenga con atti e comportamenti in grado di incidere direttamente su situazioni soggettive di origine privata.

È la natura essenziale dell’obbligazione in esame a fuoriuscire dalla tutela accordata dalla convenzione, predominando il carattere pubblico del rapporto tributario tra Stato e contribuente.

Queste considerazioni rafforzano l’opinione per cui si deve esprimere che queste garanzie rappresentino un patrimonio incomprimibile dell’individuo. L’amministrazione finanziaria non esercita piu un potere sovrano ma attende semplicemente ad una funzione, quella di dare corretta ed imparziale attuazione alla norma tributaria che deve essere necessariamente giusta e conforme alla capacità contributiva.

La giurisprudenza della corte  si è soffermata spesso sulla natura del diritto oggetto di controversia mettendo in evidenza la natura personale o patrimoniale del diritto come elemento rilevante per la determinazione del campo di applicazione della norma stessa.

La rilevanza del criterio della patrimonialità non ha impedito che la corte potesse riconoscere l’applicabilità e la sussistenza delle garanzie di cui all’art. 6.

La corte ha mostrato intenzione di escludere dalla tutela e dalle garanzie una serie di controversie e infatti anche la dottrina anglosassone ha escluso che in linea di principio l’articolo 6 della convenzione  non potesse riguardare il concetto giuridico di libertà civili tipico degli ordinamenti giuridici di common law. [11]

La giurisprudenza che in una prima fase aveva ritenuto di includere nella nozione diritti di carattere civile i soli diritti e obblighi di natura privatistica si è evoluta con l’andare del tempo elaborando un ampio di diritti di carattere civile.

In periodo piu recente la corte nella sentenza Editions Periscope c. Francia ha dichiarato che ogni contestazione che ha un oggetto patrimoniale e si fonda su una pretesa violazione di diritti anch’essi patrimoniali rientra nella nozione di diritti e obblighi di natura civile.

Per cui è stato riconosciuto che l’applicabilità di tale norma non è tuttavia illimitata anche laddove siano in gioco importanti diritti dell’individuo.

La corte ha ribadito la necessità di trovare una nozione autonoma di diritti e obbligazioni di carattere civile  ed ha anche ammesso che la CEDU si riconosce come uno strumento vivo ed attuale che deve essere interpretato alla luce delle condizioni attuali.

E’ necessario infatti tenere conto dei cambiamenti che si sono succeduti nella società inerentemente alla tutela giuridica concessa agli individui nei confronti dello Stato.


[1] Art. 6 CEDU in traduzione italiana reperita su www.echr.coe.int

[2] BARTOLE, S. – CONFORTI, B. – RAIMONDI, G. (a cura di), Commentario alla Convenzione Europea la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, Padova, 2001, p. 170 ss

[3] Sentenza Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 9 dicembre 1994, ric. n. 19005/91 e 19006/91,Shouten e Meldrum c. Olanda, in http://cmiskp.echr.coe.int/tkp197/search.asp?skin=hudoc-en

[4] M. de Salvia, “Compendium della CEDU”, Napoli, Editoriale Scientifica, 2000

[5] Ibidem : Michele De Salvia , Compendium della CEDU, p. 50 e ss.

[6]Ibidem  M. de Salvia, ibid. op. cit.

[7] RUSSO, P. , Il giusto processo tributario , in Rassegna tributaria, 1/2004 p.15 e ss.

[8] FERRARIO, “La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto tributario, in Rivista di diritto e pratica tributaria”, vol. 2/2002, p. 227 e ss,

[9] GREGGI, M., Giusto processo e diritto tributario europeo: applicazione e limiti del principio (il caso Ferrazzini), in Rivista di Diritto Tributario, n. 1/2002, p. 545 ss.

[10] Judgment (Merits) de  European Court of Human Rights, 24 Febbraio 1994 (CASE OF BENDENOUN v. FRANCE).

[11] DE MITA, Diritto e pratica tributaria, p. 240 e ss.

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