Arricchimento senza giusta causa nei confronti della PA: la giurisprudenza

in Giuricivile, 2018, 6 (ISSN 2532-201X)

Se può ritenersi che le origini di quello che ad oggi viene, nel nostro ordinamento giuridico, definito dal legislatore “arricchimento senza causa” siano piuttosto remote, cionondimeno esso non era stato inizialmente concepito nell’attuale portata di azione generale.

Come autorevolmente sostenuto, infatti, nel diritto romano classico non era prevista un’azione generale di arricchimento sovrapponibile, né comparabile rispetto all’accezione odierna, bensì vari rimedi di matrice quasi contrattuale, come la condictio che rappresenta l’origine delle azioni di ripetizione di indebito consentendo la ripetizione di quanto prestato in esecuzione di un contratto colpito da invalidità[1].

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L’esigenza di introdurre tali tipologie di azioni si poneva come fortemente concreta, dal momento che, allora, i modi di trasferimento del diritto di proprietà su uno o più beni si caratterizzavano per avvenire in maniera astratta attraverso il prodursi dell’effetto traslativo a seguito dell’adempimento delle formalità prescritte, prescindendo dalla validità del negozio giuridico alla base ed essendo, dunque, necessario concepire degli strumenti che attribuissero il diritto di recuperare quanto prestato senza causa[2].

Come sul punto sottolineato in dottrina, dalla condictio derivano le moderne azioni di ripetizione di indebito, mentre l’archetipo dell’azione di arricchimento si può rinvenire nell’actio de in rem verso, intesa come rimedio originariamente esperibile nei confronti del dominus che avesse conseguito un profitto nella propria sfera giuridico-patrimoniale dal negozio concluso dal pupillo o dallo schiavo, nei limiti dell’effettivo arricchimento.

Si richiedeva, ai fini dell’esperibilità della delineata azione, che la condotta fosse riferibile all’alieni iuris e non al dominus e il profitto fosse conseguito attraverso un contratto, o comunque non per effetto di una condotta illegale, prescrivendosi, altresì, che il trasferimento avvenisse durante la gestione da parte dell’alieni iuris degli affari del dominus ovvero del pater[3].

Tale rimedio venne poi col tempo esteso anche a soggetti sui iuris.

Ad oggi l’istituto è, invece, concepito come azione di carattere generale esperibile nei confronti di chi, senza una giusta causa, si sia arricchito in danno di un’altra persona obbligando il primo, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale.

Pur presentando attualmente una portata decisamente ampia, permane la ratio di carattere equitativo che la accomuna a quella della ripetizione di indebito[4].

La ratio dell’istituto

Tanto premesso, è stato sottolineato in dottrina come tale rimedio sia previsto dal legislatore in ossequio al principio vigente nel nostro ordinamento giuridico di necessaria causalità delle attribuzioni patrimoniali, in base al quale non viene consentito uno spostamento o trasferimento di ricchezza da un soggetto ad un altro senza che esso sia sorretto da una valida e idonea giustificazione causale[5].

In merito, è stato a più riprese evidenziato tanto dalla letteratura, quanto dalla giurisprudenza, come gli spostamenti patrimoniali debbano rispondere a una congrua giustificazione in termini di meritevolezza, rispettando l’esigenza equitativa di evitare che i patrimoni di soggetti di diritto siano suscettibili di modificazioni costituite dall’arricchimento dell’uno e dal contestuale depauperamento dell’altro ingiustificatamente[6].

Il delineato principio permette, inoltre, il controllo da parte dello Stato sull’autonomia privata che consente alle parti di concludere anche contratti diversi da quelli tipici previsti dalla legge, purché diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, in base a quanto prescritto dall’art. 1322, c.2 c.c., potendo lo stesso sindacare le relative operazioni economiche dal punto di vista causale[7].

La previsione di cui all’art. 2041 e all’art. 2042 c.c. costituisce, tuttavia, una norma di chiusura del sistema intesa come rimedio esperibile solo quando il soggetto che pretende di essere stato “danneggiato” non può esercitare altra azione o rimedio previsto dalla legge e mira ad impedire le modificazioni patrimoniali di due soggetti nell’ambito di atti di per sé comunque leciti.

Proprio in ciò si spiega l’utilizzo del termine indennizzare utilizzato dal legislatore, anziché quello di risarcimento del danno, quest’ultimo sempre ricollegato, per contro, ad un illecito, sia esso di carattere contrattuale, ovvero extracontrattuale.

L’indennizzo, invece, viene previsto con riferimento con riguardo a un fatto caratterizzato da liceità che pure realizza un effetto di spostamento patrimoniale senza giustificazione che non risulta rispettoso del principio equitativo che permea il nostro ordinamento.

I presupposti dell’azione

In via di estrema sintesi, si precisa come l’art. 2041 c.c. enuclea i presupposti per l’esperibilità del rimedio in questione, identificandoli, innanzitutto, nell’arricchimento generalmente inteso quale vantaggio patrimoniale, espresso in termini di ricchezza, tanto quanto risparmio di spesa e danno evitato, purché non si tratti di un vantaggio puramente morale non suscettibile di obiettiva quantificazione economica ai fini della determinazione dell’indennizzo[8].

Peraltro, la legge richiede che, come precisato, l’arricchimento sia ingiustificato, ovvero che esso non avvenga in forza di una causa legittima, quale può essere un contratto anche di donazione.

Ancora, è preteso che vi sia l’impoverimento inteso quale concreta ed effettiva diminuzione del patrimonio, come da insegnamento della Suprema Corte nella sua composizione più autorevole[9], nonché il nesso di correlazione tra arricchimento e depauperamento.

Secondo una prima ricostruzione, ciò si ravviserebbe nell’identità del fatto costitutivo da cui derivino arricchimento e impoverimento; secondo altra teoria, invece, sarebbe sufficiente accertare che senza l’uno l’altro non si sarebbe prodotto a prescindere dall’unicità del fatto costitutivo, con relazione meramente “storica”[10].

In base a quanto previsto dall’art. 2042 c.c. è necessario, altresì, che non sussista altro valido rimedio esperibile dal soggetto per vedersi indennizzato il pregiudizio subito, desumendosi il carattere di residualità e sussidiarietà di tale azione.

L’arricchimento, peraltro, deriva da un fatto lecito che la legge ritiene idoneo a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico secondo l’art. 1173 c.c.

Tale riferimento ai presupposti dell’azione si rende necessario giacché per lungo tempo parte della dottrina e della giurisprudenza tradizionalmente hanno ritenuto che ai fini dell’esperibilità del rimedio dell’ingiustificato arricchimento nei confronti della Pubblica Amministrazione fosse necessario riscontrare la sussistenza di un presupposto ulteriore rispetto a quelli sopraenunciati ai quali solo, peraltro, operano espresso riferimento gli articoli 2041 e 2042 c.c., in particolare consistente nel riconoscimento dell’utilità arrecata dall’opera o della prestazione del servizio in riferimento al quale il soggetto che richiede l’indennizzo agisce in giudizio allo scopo di tutelare la propria pretesa[11].

L’arricchimento senza giusta causa nei confronti della P.A.

Alla base dell’impostazione tradizionale si ponevano argomentazioni di carattere pubblicistico, per cui nell’obiettivo di tutela della finanza pubblica, si prevede un generale divieto di spese da effettuarsi a carico della P.A. non previamente deliberate e prive dell’adeguata e necessaria copertura a livello finanziario.

In tal modo, si voleva evitare che l’ente pubblico dovesse sostenere oneri non preventivati[12].

Come sottolineato in dottrina[13], tali conclusioni si ricavano dal principio di buon andamento della P.A. espresso dall’art. 97 Cost., tenendo altresì in considerazione che l’attività della predetta è presidiata dalle regole dell’evidenza pubblica, e che proprio gli effetti dell’arricchimento ingiustificato si rivelerebbero elusivi della legge che prevede che l’ente debba deliberare le spese nei modi prescritti, spese che siano a monte dotate di copertura finanziaria.

Il riconoscimento dell’utilitas doveva tuttavia, secondo tale ricostruzione, provenire dalla stessa P.A., in particolare dagli organi rappresentativi dell’ente o in forma espressa attraverso atto formale, o tacita, data dall’effettiva utilizzazione dell’opera o della prestazione, muovendosi dalla considerazione che la Pubblica Amministrazione fosse in grado di valutare al meglio l’effettiva rispondenza all’interesse pubblico che essa istituzionalmente persegue dell’opus.

La valutazione discrezionale della P.A., peraltro, si riteneva non potesse essere sostituita da quella di altre e, in tal senso, terze Pubbliche Amministrazioni, benché interessate alla prestazione, dovendo provenire dagli organi legittimati a manifestarne la volontà dell’ente all’esterno[14].

Il requisito dell’utilitas, in definitiva, non poteva essere rimesso a valutazione del giudice, essendo assoggettato al riconoscimento che si risolveva in una valutazione discrezionale compiuta dalla stessa P.A. e, dunque, veniva inteso in un’ottica puramente soggettiva.

Altro orientamento aveva, all’opposto, ritenuto che la valutazione del requisito dell’utilità dell’opera o della prestazione dovesse sì essere effettuato, ma in maniera oggettiva anche dal giudice del merito deputato a verificare se la P.A. ne avesse tratto vantaggio, da intendersi come effettivo.

Dunque, anche in base a tale orientamento si riteneva necessaria la sussistenza di un requisito ulteriore rispetto a quelli indicati nel Codice civile agli artt. 2041- 2042, ma evidenziando come la valutazione dell’utilità potesse essere effettuata anche dal giudice[15].

Il suesposto contrasto interpretativo è stato composto dalle Sezioni Unite della Suprema Corte che hanno ritenuto necessario e sufficiente l’accertamento compiuto dal giudicante in ordine alla verifica della sussistenza obiettivamente apprezzabile dell’arricchimento, senza che venga richiesto il requisito ulteriore dell’utilitas[16].

Quest’ultimo concetto, infatti, non ha fondamento normativo, dovendosi dimostrare solo la sussistenza dei presupposti richiesti dagli artt. 2041- 2042 c.c., a prescindere dalla veste pubblica o privata del soggetto nei cui confronti venga proposta l’azione che assume la configurazione di un rimedio di portata generale.

La soluzione risulta, inoltre, costituzionalmente orientata nel rispetto dell’art. 24 Cost. che attribuisce al I comma il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti soggettivi e interessi legittimi e dell’art. 113 Cost. che garantisce la tutela giurisdizionale dei diritti e interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa, non ritenendosi una scelta conforme a Costituzione che la spettanza dell’indennizzo al privato venga assoggettata ad un riconoscimento discrezionale effettuato dalla stessa P.A.

D’altro canto, l’ente pubblico può sempre fornire la prova in giudizio di non aver voluto l’opera o la prestazione di servizio o che l’arricchimento sia avvenuto a sua insaputa.

Come ribadito anche di recente dalla giurisprudenza di legittimità[17], la valutazione dell’arricchimento necessita di essere oggettiva e di venire rimessa all’accertamento del giudice di merito che verificherà che la P.A. fosse eventualmente consapevole della prestazione indebita e nulla abbia fatto per respingerla.

Il concetto di utilitas al più potrà essere “recuperato” assumendo un valore probatorio, ma non assurge più in base agli ultimi approdi pretori, a requisito ulteriore.

L’impostazione ad oggi accolta è, dunque, quella dell’equiparazione dell’arricchito pubblico all’arricchito privato considerandoli tenuti all’indennizzo in virtù del fatto oggettivo dell’arricchimento[18] e ciò a prescindere dal riconoscimento, salvo la dimostrazione di averlo rifiutato o ignorato, caso in cui esso verrà considerato imposto.

Così, quanto al profilo relativo al riparto dell’onere della prova, il privato che sia stato  sprovvisto originariamente di atto di nomina che abbia prestato attività in favore della P.A.[19] dovrà dimostrare l’arricchimento, l’impoverimento, il nesso di derivazione, l’assenza della giustificazione dello spostamento della ricchezza e la mancanza di altre azioni esperibili a tutela della propria posizione giuridica soggettiva[20].


[1] Cfr. P. Gallo, Introduzione al diritto comparato, Vol. II, Istituti giuridici, Terza Edizione, G. Giappichelli editore,  Torino,  2018, pp. 349 ss.

[2] Ibidem, p. 349.

[3] Cfr. https://art.torvergata.it/retrieve/handle/…/La%20tesi%20di%20Yingying%20Wang.pdf, p. 91.

[4] Cfr. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, XVII edizione aggiornata e con riferimenti di dottrina e di giurisprudenza, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2015, pp. 711 e 713.

[5] Cfr. G. Chiné, M. Fratini, A. Zoppini, Manuale di diritto civile, IX edizione, 2017/2018, Nel diritto Editore, Molfetta (BA), p. 1125.

[6] Cfr. F. Gazzoni, op. cit., p. 712.

[7] Cfr. G. Chiné, M. Fratini, A. Zoppini, op. cit., p. 1125.

[8] Ibidem, p. 1128.

[9] Cfr. SS.UU. 11.09.2008, n. 23385.

[10] Cfr. F. Gazzoni, op. cit., p. 713.

[11] Cfr. R. Garofoli, G. Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, XI edizione, 2017/2018, Nel diritto Editore, Molfetta (BA), p. 140.

[12] Cfr. Corte di Cassazione, sent. n. 9486 del 18.04.2013.

[13] Cfr. R. Garofoli, G. Ferrari, op. cit., p. 140.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem.

[16] Cfr. SS.UU. sent. n. 10798 del 26.05.2015.

[17] Cfr. Corte di Cassazione, sent. n. 4024 del 15.02.2017.

[18] Cfr. Corte di Cassazione, sez. I. civile, ordinanza n. 7158 del 22.03.2018.

[19] Cfr. R. Garofoli, G. Ferrari, op. cit., p. 139.

[20] Cfr. Corte di Cassazione, sez. I. civile, ordinanza n. 7158 del 22.03.2018.

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