Oggetto del presente lavoro è l’analisi del principio generale che vieta la costituzione in essere di condotte abusive del diritto, applicata, nello specifico, alla materia tributaria.
Nel dettaglio, la fattispecie abusiva del diritto tributario si configura tutte le volte in cui un soggetto, pur operando in conformità rispetto all’esercizio del diritto riconosciutogli dalla legge, nel concreto, plasma la posizione giuridica soggettiva astratta regolata dall’ordinamento, realizzando un vantaggio finale che il sistema valoriale non tollera, perché in contrasto con gli obiettivo del diritto tributario.
Nel contesto tributario, la disciplina dell’abuso si è sviluppata in funzione antielusiva per sopperire alla mancanza di una clausola generale volta a contrastare la realizzazione di operazioni negoziali il cui scopo preminente è il mero risparmio indebito d’imposta.
Si tratta, tuttavia, di un fenomeno assai complesso che vive di interpretazioni e correttivi costanti, in grado di rendere possibile la convivenza tra abuso e libertà.
Ma procediamo con ordine.
L’abuso del diritto nell’ordinamento europeo. Il “caso Halifax”
Prima di entrare nel merito della sentenza che rappresenta un vero e proprio leading case in materia, è doveroso premettere che si deve alla Corte di Giustizia europea il merito d’aver elaborato e sviluppato come “principio generale” il divieto in oggetto.
Invero, nonostante il divieto fosse già presente in numerose direttive comunitarie[1], si deve alle molteplici sentenze della Corte in argomento l’individuazione degli elementi sintomatici e definitori della clausola generale anti-abuso. Più nel dettaglio, la Corte di Giustizia, ha rimarcato che i soggetti interessati “non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente” delle disposizioni del diritto comunitario, poiché tali norme “non possono tutelare pratiche abusive, ossia operazioni o concatenazioni di operazioni commerciali anormali effettuate nell’ambito di ordinarie transazioni commerciali, ma unicamente allo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario”[2].
Fatta questa doverosa puntualizzazione, si procede all’analisi del cd: caso Halifax, attraverso il quale la Corte di Giustizia europea giunge per la prima volta alla descrizione delle caratteristiche che la condotta deve assumere perché possa dirsi abusiva in termini fiscali.
Halifax gruppo bancario e assicurativo del Regno Unito, ai fini della sua attività commerciale, intendeva realizzare dei centri di chiamata (call center) dislocati su quattro diversi siti. In conformità all’art. 13, parte B, lett. d), della Sesta Direttiva, le sue prestazioni erano in gran parte servizi finanziari esenti da Iva, sicché non poteva beneficiare della compensazione dell’imposta (Iva a credito – Iva a debito) sugli acquisti effettuati da essa stessa.
Per ovviare all’inconveniente, dunque, Halifax realizzava un impianto societario artificioso (ma lecito) finanziando la costituzione di diverse società controllate, intestatarie ognuna di una specifica partita Iva, alle quali sì era consentito detrarre l’imposta sugli acquisti, recuperando artificiosamente così quanto la natura della sua attività non le consentiva di riottenere.
Bene, alla luce di questi fatti l’Amministrazione finanziaria inglese contestava all’istituto bancario d’aver costituito in essere l’intero impianto per un solo fine: recuperare l’intero importo dell’Iva sui lavori edili realizzati.
Chiamata a pronunciarsi e riunita in Grande Sezione, la Corte, nella parte finale della sentenza specifica che il concetto di abuso presuppone la sussistenza di due condizioni indefettibili:
- perché possa parlarsi di un comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle disposizioni della Sesta Direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni[3].
- deve altresì risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale. […]il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove le operazioni di cui trattasi possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di vantaggi fiscali[4].
Sulla scorta della sentenza in esame, se ne ricava che la condotta abusiva necessita della combinazione di elementi oggettivi e soggettivi, in forza dei quali, malgrado l’applicazione formale delle condizioni poste della norma, la finalità del comportamento posto in essere dal contribuente non giunge ad altra mira se non quella del voler conseguire un risultato contrario alla ratio delle leggi, perché difforme rispetto ai principi tributari che animano il complesso sistema comunitario. Ancora, proprio quest’ultimo aspetto risulta particolarmente importante poiché identifica l’abuso come esercizio di un diritto non rientrante tra le finalità contemplate dall’ordinamento: «la ratio della norma risulta piegata a motivazioni eccedenti rispetto a quelle desumibili dalle disposizioni di legge»[5].
Da ultimo, attraverso questa sentenza si precisa che il principio del divieto di abuso del diritto concerne sia le imposte “armonizzate o comunitarie” (come l’Iva, le accise, le imposte doganali), sia le imposte “non armonizzate” (come quelle dirette ed indirette rimesse alla regolamentazione nazionale).
Il percorso evolutivo dell’abuso nell’ordinamento italiano: art. 10 L. n. 408/1990 e 37-bis D.P.R. n. 600/1973
Dopo aver analizzato l’evoluzione del principio in esame all’interno del panorama comunitario, è necessario domandarsi quale fosse lo stato dell’arte dell’abuso del diritto in ambito tributario presente nel nostro ordinamento.
Per lungo tempo, certamente prima del 1990, il nostro ordinamento non contemplava alcuna norma generale antielusiva. Si rilevava, tuttavia, un timido ricorso all’art. 1344 c.c. rubricato “Contratto in frode alla legge” per contrastare alcune condotte rientranti nella cosiddetta elusione non codificata; salvo poi comprendere che il ricorso a tale rimedio appariva insufficiente ed eccessivo[6]. In sostanza, in questo contesto storico, soltanto le condotte che venivano considerate espressamente elusive dal dettato dispositivo venivano considerate fiscalmente illecite. Per converso, qualora le operazioni realizzate non integrassero queste condizioni, l’elusione fiscale veniva giustificata quale “sostituzione di un presupposto con un altro avente un trattamento fiscale più favorevole”[7] e considerata legittima, quindi, non opponibile al Fisco.
Appariva ictu oculi l’urgenza per l’ordinamento di prevedere l’elaborazione di una norma antielusiva di carattere generale, in grado d’ intervenire laddove la condotta elusiva non corrispondesse ad alcuna disposizione specifica.
Per rispondere a questa sollecitazione, negli anni Novanta, il legislatore emana la L. n. 408/1990 che rappresentava il raccordo tra quanto disposto dalla Direttiva comunitaria n. 434/1990[8] e la concezione di elusione che si era fatta strada nell’orientamento italiano.
L’art.10 della sopracitata legge disponeva che l’Amministrazione finanziaria possedeva la facoltà di disconoscere i vantaggi tributari realizzati attraverso operazioni di cessione di crediti, concentrazione, liquidazione, scorporo e riduzione di capitale, valutazione di partecipazioni, trasformazione, cessione o valutazione di valori mobiliari qualora fossero stati realizzati “senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta”[9].
Il legislatore individuava dunque tre elementi sintomatici della condotta elusiva, ossia:
- l’assenza di valide ragioni economiche;
- il risparmio d’imposta come obiettivo esclusivo;
- la sussistenza di un comportamento fraudolento nel mettere in atto l’operazione controversa.
La disposizione in esame, tuttavia, se per un verso contribuì all’embrionale definizione del fenomeno elusivo nel nostro ordinamento, per altro stigmatizzò le operazioni potenzialmente elusive alle sole societarie individuate nella disposizione, determinando una restrizione delle facoltà di disconoscimento dell’Amministrazione finanziaria.
L’occasione per apporre i correttivi alla lacuna sopra descritta si ebbe quando, durante il 1996, fu realizzata una rilevante riforma del sistema tributario nazionale[10] , comprensiva delle operazioni enucleate all’interno dell’art. 10 della L. n. 408/1990.
Nel dettaglio, e per quel che qui interessa, si delegava al Governo la revisione dei criteri di individuazione delle condotte di natura elusiva previste nella legge sopra citata.
Il risultato portò all’abrogazione della precedente disciplina e all’introduzione dell’art. 37-bis all’interno del D.P.R. n. 600/1973, presentata come disposizione anti elusiva di portata generale.
Per comprendere l’ampiezza della disposizione in esame, è opportuno suddividerla in quattro parti: la prima (che comprende i commi 1 e 2) definisce le operazioni inopponibili all’Amministrazione finanziaria; la seconda (comma 3) contiene l’elenco delle operazioni potenzialmente elusive; la terza (che va dal comma 4 al comma 7) interessa gli aspetti procedurali dell’accertamento ed infine la quarta ed ultima sezione (comma 8) disciplina l’interpello disapplicativo.
Ciò posto, quali sono le novità introdotte?
L’articolo ha il merito di piallare le spigolature della normativa precedente, individuando, con maggior chiarezza, gli elementi che devono sussistere perché l’operazione possa dirsi elusiva, ovvero:
- l’ottenimento di un beneficio, o meglio di un vantaggio fiscale, altrimenti indebito ovvero non spettante;
- l’aggiramento di un divieto o di un obbligo per ottenere risparmi o rimborsi fiscali sfruttando eventuali falle delle norme;
- l’assenza di valide ragioni economiche, cioè la mancanza di solide ragioni gestionali e/o economiche in grado di legittimare la condotta posta in essere.
Volendo entrare maggiormente nel merito, è possibile puntualizzare che scompaiono le locuzioni “fraudolentemente” ed “allo scopo esclusivo” che in precedenza avevano sollevato non pochi problemi interpretativi. Ancora, permane l’indicazione “delle valide ragioni economiche” mentre viene introdotto il concetto di “aggiramento” delle disposizioni.
Da ultimo, e non certo per importanza, trova ingresso il concetto di “inopponibilità” dei vantaggi fiscali nei confronti dell’Amministrazione finanziaria. In sostanza, si rendono non opponibili all’Amministrazione non solo le operazioni prive di valide ragioni economiche, ma altresì, quelle derivanti dall’aggiramento degli obblighi e dei divieti previsti dall’ordinamento finalizzate ad ottenere risparmi d’imposta, altrimenti indebiti.
Concludendo, malgrado tale norma abbia delineato il problema elusivo in maniera più esaustiva rispetto alla precedente disposizione, l’aver limitato la sua applicazione alle sole condotte elencate al terzo comma, ha nel concreto, come l’art. 10 della L. n. 408/1990, prodotto il risultato nefasto di perimetrare il suo ambito applicativo. Ne discendeva che, i contribuenti, pur costituendo in essere operazioni elusive, per il solo fatto d’essere accorti nel non realizzare le fattispecie contemplate al terzo comma, sfuggivano a qualunque applicazione dell’art. 37-bis D.P.R. n. 600/1973.
Così, nonostante le premesse e le aspettative riposte nella disposizione esaminata, ancora una volta, risultava urgente un ulteriore intervento riformatore.
La nuova disciplina dell’abuso del diritto: art 10-bis (L. n. 212/2000) ex art. 1 D. lgs. n. 128/2015
Per colmare le lacune sorte, il legislatore, attraverso l’art. 5 della L. n. 23/2014 delega il Governo ad “attuare la revisione delle vigenti disposizioni antielusive -coordinandole con i principi contenuti nella Raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n.2012/772/UE del 6 dicembre 2012[11]-al fine di disciplinare il principio generale di divieto dell’abuso del diritto, del quale viene fornita una prima definizione, che comprende la fattispecie dell’elusione”.
Ai sensi delle nuove norme, “costituisce abuso del diritto l’uso distorto di strumenti giuridici allo scopo prevalente di ottenere un risparmio d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione”[12].
Il dibattito svolto all’interno della Commissione Finanza della Camera nella VXI legislatura, dunque, evidenziava: “l’opportunità di una norma generale anti-abuso per tutte le imposte, non vincolata da un’elencazione tassativa di fattispecie; l’assimilazione tra elusione fiscale e abuso del diritto, a fronte di una norma antielusiva vigente nel nostro ordinamento che è limitata alle imposte dirette e ad alcune specifiche operazioni espressamente indicate; la fissazione di regole procedurali volte a garantire il contribuente in ciascuna fase del confronto con l’Amministrazione”[13].
Come anticipato, ai fini della presente trattazione, occorre prendere in considerazione l’art. 5, norma di delega volta a riequilibrare il rapporto tra lo strumento antielusivo e la certezza del diritto.
In forza del predetto articolo, dunque, il Governo è stato chiamato ad esercitare la funzione legislativa, rispettivamente, per:
- definire la condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione;
- garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale e, a tal fine: 1) considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva; 2) escludere la configurabilità di una condotta abusiva se l’operazione o la serie di operazioni è giustificata da ragioni extrafiscali non marginali; stabilire che costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente;
- prevedere l’inopponibilità degli strumenti giuridici di cui alla lettera a) all’amministrazione finanziaria e il conseguente potere della stessa di disconoscere il relativo risparmio d’imposta;
- disciplinare il regime della prova ponendo a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché la loro mancata conformità a una normale logica di mercato, prevedendo, invece, che gravi sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti;
- prevedere una formale e puntuale individuazione della condotta abusiva nella motivazione dell’accertamento fiscale, a pena di nullità dell’accertamento stesso;
- prevedere specifiche regole procedimentali che garantiscano un efficace contraddittorio con l’amministrazione finanziaria e salvaguardino il diritto di difesa di ogni fase del procedimento di accertamento tributario.
Si puntualizza che il termine per l’esercizio della suddetta delega fu prorogato fino al 27 giugno 2015, quindi oltre tre mesi rispetto alla scadenza originaria.
Come anticipato, tuttavia, la svolta si è avuta con l’art.1 del D.lgs. n. 128 del 5 agosto 2015 “Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, in attuazione degli articoli 5, 6 e 8, comma 2, della legge 11 marzo 2014, n. 23” che ha introdotto nella L. n. 212 del 27 luglio 2000 “Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente” l’art. 10-bis, unificando le nozioni di abuso del diritto ed elusione fiscale e depenalizzandone la disciplina.
Nello stesso tempo, l’art. 1, comma 2 del decreto in esame, ha abrogato l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 che aveva precedentemente disciplinato l’elusione fiscale attraverso la previsione tassativa delle singole fattispecie.
Prima di ripercorrere l’esame dei commi che compongono la disposizione in oggetto, risulta opportuno esporre una precisazione che interessa l’ubicazione della sopradetta novella.
Invero, la collocazione dell’art. 10-bis all’interno dello Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212/2000) e successivamente all’art. 10 “Tutela dell’affidamento e della buona fede. Errori del contribuente”, è tutto meno che casuale, contribuendo a rinsaldare il principio che governa la relazione tra Amministrazione e contribuente[14].
Fatta questa doverosa premessa, l’indagine che segue si concentrerà sull’ossatura della disposizione per poi focalizzare l’attenzione sia sulla nuova definizione di abuso di diritto (inglobante quella di elusione fiscale), sia sulle specificazioni che interessano i presupposti applicativi della fattispecie.
La struttura descrittiva dell’art. 10-bis, ai primi commi, prevede l’identificazione della nuova disciplina:
- la definizione di abuso del diritto (comma 1);
- la declinazione degli elementi costitutivi l’abuso del diritto tributario (ossia l’assenza di sostanza economica e il conseguimento di vantaggi fiscali indebiti essenziali).
Nei due commi successivi vengono delimitati i confini applicativi della disciplina in esame:
- l’esimente rappresentata dalle valide ragioni extrafiscali non marginali (comma 3);
- la salvaguardia della libertà di scelta del contribuente tra operazioni espressamente previste dall’ordinamento aventi diverso carico fiscale (comma 4).
Dal quinto al dodicesimo comma, invece, il legislatore delegato disciplina tutta una serie di disposizioni procedurali concernenti:
- l’interpello (comma 5);
- il contraddittorio preventivo (comma 6);
- i termini per l’accertamento e la motivazione dell’atto impositivo (commi 7 e 8);
- la ripartizione dell’onere della prova (comma 9);
- l’iscrizione a ruolo dei tributi accertati (comma 10);
- la richiesta di rimborso da parte dei soggetti terzi (comma 11);
- il carattere residuale del nuovo istituto (comma 12).
L’ultimo comma dell’art. 10-bis riguarda, infine, la sanzionabilità delle condotte abusive configurando:
- l’impossibilità di applicare le sanzioni penali tributarie e sancendo l’applicabilità delle sanzioni amministrative tributarie (comma 13).
Per ciò che concerne la definizione di abuso del diritto, essa è racchiusa nel primo comma dell’art. 10-bis che, attraverso una formula chiara e concisa, recita: “configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.
Ciò detto, si prosegue illustrando i due presupposti costitutivi della fattispecie.
Il primo elemento si sostanzia nell’assenza di sostanza economica nelle operazioni realizzate dal contribuente. Esso configura in tutti quei casi in cui l’atto o l’insieme di atti posti in essere non producono effetti ulteriori e diversi rispetto al mero risparmio fiscale. Sempre questo primo elemento, inoltre, richiama gli elementi definitori della Raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva 2012/772/UE, la quale, individuando quale presupposto delle pratiche abusive la mancanza di sostanza commerciale, fornisce una serie di esempi esponenziali della carenza di spessore commerciale nell’attività posta in essere.
Nel dettaglio, costituiscono iniziative prive di sostanza commerciale, secondo l’orientamento euro-unitario:
- la qualificazione giuridica delle singole parti di cui si compone la costruzione, non coerente con il fondamento giuridico della costruzione nel suo insieme;
- la costruzione (o la serie di costruzioni) posta in essere in un modo che non sarebbe normalmente impiegato in un ragionevole ambito commerciale;
- la costruzione (o la serie di costruzioni) comprendente elementi che hanno l’effetto di compensarsi o di annullarsi reciprocamente;
- la realizzazione di operazioni di natura circolare;
- la costruzione (o la serie di costruzioni) costituita senza tener conto dei rischi commerciali assunti dal contribuente o dei suoi flussi di cassa.
Dalla lettura dell’art. 10-bis, comma 2, lett. a), dunque, emerge manifesta la scelta sostenuta dal legislatore delegato di optare per l’inserimento nella disposizione solo dei due primi indici della Raccomandazione; vuoi per evitare di ripetere gli errori (di eccessiva classificazione) precedenti, e vuoi perché, data la loro natura indeterminata, appaiono più idonei a costituire il corpus di un principio generale dell’ordinamento. In base a quanto detto, tuttavia, questa decisione non precluderà all’Amministrazione finanziaria di contestare tutte quelle circostanze che, pur non rientranti in quelle indicate al comma 2 lett. a), detengano, nel concreto, la peculiarità d’essere prive di sostanza economica perché inidonee a produrre effetti differenti dal mero vantaggio fiscale.
Per quanto interessa il secondo presupposto dell’abuso del diritto in ambito tributario, ossia il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito, il comma 2, lett. b) dell’art. 10-bis precisa la portata di questo elemento, individuandola nei “benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento”[15].
Ora, raffrontando questa formula con quanto argomentato fin qui, appare evidente che il legislatore delegato abbia voluto richiamare (per coerenza sistemica) sia la definizione di condotta abusiva elaborata dalla giurisprudenza comunitaria[16], sia quanto sancito dalla Raccomandazione sulla pianificazione fiscale aggressiva[17].
Ma v’è di più.
Difatti, osservando con maggior meticolosità il dettato dispositivo, ci si ravvede che la formulazione adottata dalla legislazione domestica è più ampia rispetto a quella comunitaria.
Più in particolare, non solo introduce l’aspetto della non immediatezza dell’ottenimento del vantaggio fiscale indebito, ma menziona come destinatari dell’aggiramento della ratio non solo le disposizioni fiscali, ma anche i principi dell’ordinamento tributario, riferendosi sia alle norme interne, sia a quelle sovranazionali aventi efficacia nell’ordinamento interno.
Si precisa, inoltre, che sempre il comma 2, lett. b) dell’art. 10-bis, rimarca un concetto fondamentale, ossia che il “cuore” della fattispecie abusiva fiscale è sostituito dall’ottenimento del vantaggio fiscale indebito e non dall’assenza di valide ragioni extra fiscali nelle scelte effettuate dai contribuenti. In sostanza, l’abuso è configurabile nella realizzazione di un vantaggio non voluto dall’ordinamento mediante una condotta che, pur non violando apertamente le disposizioni, le aggira. Tale aggiramento, quindi, determina la storpiatura delle finalità e dei principi definiti dal legislatore, procurando al contribuente un vantaggio fiscale in contrasto con la ratio legis sottostante l’operazione realizzata[18].
Venendo alle conclusioni è possibile individuare il tratto saliente della nuova disciplina nel carattere “residuale” dell’abuso, nei termini dell’esclusione dello stesso sia in presenza di situazioni attuative del principio del libero risparmio di imposta, sia di comportamenti che conducono alla rappresentazione di risultati fittizi e/o in contrasto con le previsioni di legge, avendo valicato, in quest’ultimo caso, il confine dell’evasione fiscale.
Ne deriva che non dovrebbero rientrare nella fattispecie di elusione, bensì di evasione “non solo gli occultamenti di ricavi e proventi e le deduzioni di spese fittizie in senso naturalistico, ma anche tutte quelle alterazioni dei fatti economici realizzate attraverso condotte dissimulatorie e fraudolente come definite dalle nuove disposizioni penali tributarie”[19].
In altri termini, l’abuso-elusione necessita d’essere definito per esclusione nel senso che esso inizia dove, integrandosi le ipotesi di cui all’art. 10-bis, finisce il legittimo risparmio d’imposta, terminando, di contro, lì dove sono prospettabili le fattispecie di evasione individuate all’interno del D.lgs. n. 74/2000.
La prova della condotta abusiva
Nel contesto dell’art. 10-bis risulta centrale sostenere delle considerazioni in ordine alla prova dell’elusione sia in termini di oggetto, sia in termini di ripartizione del relativo onere.
Il punto di partenza è il comma 9 dell’art. 10-bis che disciplina il regime della prova ponendo “a carico dell’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi individuati dai commi 1 e 2; a carico del contribuente grava invece l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali che giustificano le operazioni effettuate, indicate dal comma 3”[20].
In relazione al primo punto, ossia l’individuazione dell’oggetto della prova, esso va ricercato non solo nella previsione che declina gli indicatori sintomatici di operazioni “in elusione”, ma anche nel contenuto del terzo comma dell’articolo in esame che tipizza alcune operazioni “non in elusione”, espressione del legittimo risparmio d’imposta. In merito, è opportuno precisare che secondo un certo orientamento parlare di onere della prova sarebbe improprio, non trattandosi di contestazioni sull’esistenza (o meno) di fatti), bensì sulla loro “valutazione”[21].
Così, una volta chiarito in che termini l’oggetto della prova verte più sull’apprezzamento-interpretazione (che non sull’esistenza) di circostanze di fatto, occorre procedere alla disamina del secondo punto, ossia la ripartizione del correlato onere.
All’interno del comma 9 dell’art. 10-bis è esplicitato che “l’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi di cui ai commi 1 e 2”, e che “il contribuente ha l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al comma 3”.
Sull’Amministrazione, dunque, ricade l’onere di dimostrare la sussistenza degli elementi costitutivi dell’elusione/abuso, la quale “non potrà certamente limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma dovrà individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio d’imposta”[22].
Sempre sull’onere che grava sull’Amministrazione, di recente, il Supremo Collegio, è tornato a ribadire che “[…] incombe sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato”[23].
Viceversa, il contribuente ha l’onere di dimostrare i fatti, che sono alla base delle ragioni extrafiscali che giustificano la sua condotta. Detto in altri termini, il contribuente “ha l’onere di dimostrare che l’uso della forma giuridica corrisponde ad un reale scopo economico, diverso da quello del risparmio fiscale”[24].
La difficoltà di utilizzare criteri oggettivi è stata comunque colta in dottrina.
Invero, se la parabola storica attraversata dalle fattispecie abusive ha mostrato le sue debolezze nel tempo in cui il legislatore aveva optato per una dettagliata tipizzazione delle condotte; oggi, di contro, la voluta indeterminatezza delle ipotesi elusive rischia di esporre il contribuente alle variabili della discrezionalità interpretativa, con tutto ciò che ne consegue in termini di violazione del principio di uguaglianza e divieto di discriminazione (ex art. 3 Cost.).
Ne discende che, occorre trovare nel sistema la chiave di volta capace di garantire la tenuta dell’intero sistema.
All’interno di questo “dedalo” normativo, dunque, soccorre in ausilio il quarto comma dell’art. 10-bis, il quale sancisce che “resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”. Il senso del comma riportato si esprime comprendendo che non può essere preclusa al soggetto passivo la possibilità di scegliere, per la realizzazione di una certa operazione, lo strumento giuridico (più conveniente in termini economici) che l’ordinamento gli mette a disposizione.
Nello specifico, “in presenza di regimi fiscali che il sistema proponga come strutturalmente alternativi, vale a dire dotati di pari dignità, il contribuente può decidere di realizzare l’operazione alfa piuttosto che l’operazione beta con l’obiettivo di pagare di meno. Si esclude dunque che l’Amministrazione finanziaria, di fronte a scelte che sono metabolizzate dal sistema (ergo, priva di forzature rispetto alle indicazioni che dal sistema stesso promanano) possa imporre al contribuente, attraverso i propri provvedimenti impositivi, l’adozione della linea operativa per lui più onerosa. Pertanto, affinché si possa configurare l’elusione non è sufficiente che l’operazione alfa, concretamente effettuata, abbia condotto il contribuente al medesimo risultato che questi avrebbe raggiunto se avesse compiuto l’operazione beta. Serve qualcosa di più, vale a dire un risparmio d’imposta contrastante con lo spirito del sistema. Un vantaggio fiscale, in definitiva, qualificato”[25].
Conclusivamente, la formula utilizzata dal legislatore delegato, che lascia pericolosi margini all’interpretazione, rimane priva di riferimenti oggettivi: si evidenzia, infatti, che la prova non riguarda la condotta in sé, ma, piuttosto, attiene l’individuazione della ratio della condotta, rectius della ragione che assurge a presupposto delle scelte effettuate dal contribuente.
Ne deriva che è questa ragione, dunque, che va individuata e provata nella spartizione che vede l’Amministrazione dimostrare l’esistenza di un vantaggio fiscale indebito e, di converso, il contribuente, dimostrare l’esistenza delle postulate valide ragioni extrafiscali.
[1] Si segnalano: la Direttiva n.90/434/CEE; la Direttiva n.90/435/CEE e la Direttiva n. 2003/49/CEE.
[2] Come più volte affermato dalla Corte nelle sentenze: 11 dicembre 1977, C-125/76 Cremer; 3 marzo 1993, C-8/92 General Milk Production; 30 settembre 2003, C-373/97 Diamantis; 21 febbraio 2006, C-255/02 Halifax; 12 settembre 2006, C-196/04 Cadbury Schweppes; 5 luglio 2007, C-321/05 Kofoed.
[3] Cfr. Corte di Giustizia dell’Unione europea, 21 febbraio 2006 in C-255/02 punto 74, Halifax.
[4] Cfr. Corte di Giustizia dell’Unione europea, 21 febbraio 2006 in C-255/02 punto 75, Halifax.
[5] P. PIANTAVIGNA, Abuso del diritto fiscale nell’ordinamento europeo, Torino, 2011.
[6] Insufficiente perché l’Amministrazione non riusciva a recuperare l’imposta elusa ed eccessivo perché l’applicazione della disposizione comportava la nullità del contratto, anziché una più opportuna riqualificazione ai fini fiscali del negozio concluso tra le parti. A ciò, occorre aggiungere che la Corte di Cassazione aveva più volte affermato (sentenze: n. 3620/1974 e n.5571/1981) che l’ordinamento tributario dovesse ricercare al proprio interno i rimedi di contrasto alle fattispecie elusive, piuttosto che servirsi delle nullità civilistiche.
[7] F. GALLO, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rassegna tributaria, fasc. 6/2015.
[8] Avente ad oggetto il regime fiscale comune da applicare alle fusioni, scissioni, conferimenti d’attivo e agli scambi d’azioni concernenti società facenti capo a Stati membri diversi.
[9] Art. 10, comma 1, L. n. 408/1990.
[10] L. n. 662/1996, “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”, nel particolare si veda l’art. 3, comma 161, lett. g).
[11] Nella citata raccomandazione, la Commissione invita gli Stati membri ad adottare una norma generale antiabuso nel settore delle imposte dirette. Gli Stati membri vengono dunque incoraggiati ad inserire nella legislazione nazionale una clausola “volta a ignorare una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale”. Le autorità nazionali, inoltre, sono invitate a trattare tali costruzioni ai fini fiscali facendo riferimento alla loro “sostanza economica”.
[12] Art.5 “Disciplina dell’abuso del diritto ed elusione fiscale”, L. n.23/2014 “Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita”, in st_finanze@camera.it
[13] Dossier Legge 11 marzo 2014, n. 23, p.61, in documenti.camera.it
[14] Il riferimento non può che richiamare, ancora volta, l’art. 10, comma 1, L. n. 212/2000 il quale sancisce che “I rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”. Nello specifico, mentre l’affidamento si riferisce allo stato psicologico di aspettativa/fiducia nei confronti del prevedibile comportamento della controparte; la buona fede (oggettiva), invece, impone di tenere condotte leali e rispondenti ad uno spirito di collaborazione e cooperazione. Tanto la buona fede, quanto l’affidamento costituiscono clausole generali del sistema, che informano non solo le relazioni tra privati, ma anche quelle tra legislatore e consociati e tra Pubblica amministrazione e soggetti amministrati, comprese quelle tra Amministrazione finanziaria e contribuenti alle quali è dedicata la presente trattazione. Per un maggior approfondimento cfr. M. LOGOZZO, Legittimo affidamento e buona fede nei rapporti tra contribuente e amministrazione, in giustizia-tributaria.it; M. TRIVELLIN, Il principio di buona fede nel rapporto tributario, Milano, 2009.
[15] Art. 10-bis, comma 2, lett. b), L. n. 212/2000.
[16] Ravvisabile nel leading case, in tema di abuso del diritto tributario, della sentenza “Halifax”. Quest’ultima, infatti, sostiene la possibilità di configurare la condotta abusiva, malgrado il rispetto formale delle disposizioni contenute nella sesta Direttiva e delle disposizioni nazionali che la recepiscono, tutte le volte in cui si ottiene un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito dalle disposizioni medesime.
[17] In forza della quale, per sussistere l’abuso, la finalità della condotta abusiva deve contrastare “con la finalità, lo spirito e l’obiettivo delle disposizioni fiscali che sarebbero altrimenti applicabili”.
[18] Per meglio definire quanto espresso, si richiama la Relazione illustrativa riferita allo “Schema di decreto legislativo recante disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente” ,la quale, riferendosi all’art. 10-bis, comma 2, lett. b), sostiene che “deve sussistere, quindi, la violazione della ratio delle norme o dei principi generali dell’ordinamento […] La ricerca della ratio e la dimostrazione della violazione di essa deve costituire il presupposto oggettivo imprescindibile per distinguere il perseguimento del legittimo risparmio di imposta dall’elusione”. Affinché, quindi, possa essere considerato indebito un vantaggio fiscale occorre constatare l’elusione di un principio fiscale, ossia l’aggiramento delle finalità previste dalle disposizioni tributarie, o la realizzazione di un risultato dalle stesse non voluto.
[19] F. GALLO, L’abuso del diritto in materia tributaria tra sanzione amministrativa e repressione penale, in Giurisprudenza Commerciale, fasc.2/2017.
[20] Dossier n.23, Legislatura 17ª, in senato.it: “La norma attua il principio previsto dall’art. 5, comma 1, lett. d), della legge delega, il quale prefigura a carico dell’amministrazione l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché la loro mancata conformità a una normale logica di mercato, prevedendo, invece, che gravi sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti”.
[21] Sul punto, D. DEOTTO, “Abuso del diritto: l’onere della prova grava sul Fisco”, in Sole 24 ore, 1ottobre 2015 “[…] il contrasto che si genera tra Amministrazione e contribuente non è (quasi) mai sul fatto – cioè le operazioni che avrebbero determinato il presunto vantaggio indebito – quanto sulla sua valutazione o interpretazione […]. In sostanza, risulta davvero ipotetico lo spazio per stabilire degli oneri di prova – intesa come regola decisoria sul fatto incerto – in materia di abuso di abuso del diritto, posto che in un processo sull’abuso il problema non è tanto quello di accertare la verità dei fatti, quanto, piuttosto, quello di valutarli. A ben vedere, quindi, non si può parlare di un onere della prova sussistente sulle parti, ma di un onere di allegazione”.
[22] Cass., 17 ottobre 2008, n. 25374.
[23] Cass., 8 marzo 2019, n. 6836.
[24] Cass. 21 aprile 2008, n. 10257.
[25] M. BEGHIN, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, Padova, 2013.