1. Il concetto di dipendenza economica ai sensi dell’art. 9 della legge n. 192/98
L’art. 9 della legge 192/98 vieta l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova una impresa cliente o fornitrice. Pur essendo collocata nell’ambito della legge sulla subfornitura, la sua formazione è tale che il suo ambito di applicazione potrebbe estendersi a tutti i rapporti contrattuali tra imprese, come se si trattasse di norma generale. L’art. 9 dispone infatti nel suo primo comma che “è vietato l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti”. La norma quindi non parla, non solo nel primo, ma neanche nei successivi commi di “committente” e di “subfornitore” per indicare rispettivamente il soggetto dominante ed il soggetto dipendente, mentre in tutto il testo della legge queste sono le qualificazioni utilizzate per indicare i due soggetti.
L’iter della norma mette in evidenza l’intenzione dei proponenti di introdurre una regolamentazione della dipendenza economica di portata generale, e cioè non limitata al contratto di subfornitura, ma estesa a qualsiasi contratto tipico o atipico[1]. L’art. 9 dunque ricomprende non solo la subfornitura ma va oltre applicandosi ai contratti tra imprese, e così alla vendita, all’appalto, alla somministrazione, ai contratti di engineering, di franchising, di leasing, di concessione di vendita, di factoring, ecc. Occorre però ribadire che non si applica a quei contratti che pur stipulati tra imprese risultano estranei alla dinamica dei rapporti commerciali, perché le imprese non li concludono nella qualità di “clienti” e “fornitori” come ad esempio nel caso della transazione o dei contratti bancari[2].
La norma in commento menziona dunque un “eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi”: occorre in primo luogo individuare la natura di questo squilibrio a cui la norma si riferisce. Fondamentalmente lo squilibrio di diritti ed obblighi non può essere ricondotto ad uno squilibrio economico, che si ha quando una parte impone all’altra un prezzo fuori mercato. Squilibrio di diritti ed obblighi si ha quando, riprendendo anche l’art. 1469 bis c.c., ad una parte vengono contrattualmente riconosciute facoltà che, nelle stesse circostanze, vengono negate all’altra parte.
Si pone poi un ulteriore interrogativo, e cioè quali diritti ed obblighi devono essere presi in considerazione per stabilire se c’è “squilibrio”. In questo caso la risposta più immediata sarebbe quella di considerare solo quelli dedotti nel contratto, ma non si può prescindere dall’altra ipotesi – più ragionevole – riguardo alla possibilità di includervi anche quei diritti ed obblighi che potevano essere nelle eventuali alternative prima del contratto[3].
La norma dispone che lo squilibrio deve essere “eccessivo”: pare quindi che l’idoneità potenziale di una parte ad imporre patti a proprio vantaggio integri una posizione di forza negoziale di per sé lecita, essendo poi l’effettiva fissazione delle condizioni eccessivamente sbilanciate a rendere attuale e quindi vietata la determinazione del contenuto vincolante nei confronti dell’impresa più debole. Ne deriva che il contraente più forte non commette alcun comportamento illecito se, nonostante la sua posizione di preminenza e la sua conseguente idoneità ad imporre clausole notevolmente sbilanciate a proprio vantaggio, non abusa di questa situazione, adottando standard contrattuali equi nel settore di riferimento ovvero termini che sono a suo vantaggio ma in misura non eccessiva, conformemente ad uno spettro ragionevole di libera contrattazione del contenuto contrattuale[4].
Nella definizione del concetto di dipendenza economica, assume rilievo particolare la concreta possibilità dell’impresa debole di reperire sul mercato alternative soddisfacenti rispetto all’impresa reputata dominante. Una volta infatti individuato il mercato rilevante di servizio o prodotto che sia, occorre valutare la presenza di alternative commerciali che consentano all’impresa di rimanere attiva e competitiva sul mercato[5]. Il criterio delle alternative viene idealmente suddiviso in due fasi:
- Una prima fase tende a verificare la sussistenza di alternative oggettive
- e la seconda fase è volta a stabilire se le alternative in astratto disponibili siano anche reali e soddisfacenti.
La disciplina dell’art. 9 quindi deve essere considerata non tanto come un’ulteriore manifestazione della rilevanza attribuita dal legislatore allo squilibrio tra le imprese quanto piuttosto la riaffermazione della rilevanza che per l’ordinamento riveste la parità delle posizioni delle parti, nell’ottica di garantire che il contratto funzioni quale strumento misurato sul principio della parità delle posizioni e sulla libera determinabilità del suo contenuto ad opera delle parti stesse. Quando il principio viene turbato, l’ordinamento reagisce cercando di eliminare la turbativa e ripristinare l’equilibrio tra le parti. Nella fattispecie dell’abuso di dipendenza economica il problema che si evidenzia è la diversità della posizione dei contraenti; diversità alla quale il legislatore ritiene di dare rilevanza giuridica, reagendo nella direzione di riequilibrare la diseguaglianza di potere delle parti[6].
2. Le fattispecie di abuso di dipendenza economica e le sanzioni
Le fattispecie dell’abuso di dipendenza economica sono previste dal secondo comma dell’art. 9 il quale stabilisce che “l’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto”.
Prima di esaminare dettagliatamente le suddette ipotesi occorre precisare che le stesse vengono accomunate dal fatto che realizzano un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alle altre imprese subfornitrici concernenti il medesimo ambito operativo.
Il rifiuto di vendere o il rifiuto di comprare
Con riferimento alla prima delle fattispecie previste, quindi, per conciliare il divieto di abuso di dipendenza economica con l’autonomia negoziale e con la libertà d’impresa, occorre che il rifiuto di vendere sia obiettivamente ingiustificato oppure risulti privo di validi motivi economici. In questa prospettiva si può ritenere che la decisione di cessare la produzione e l’impossibilità economica di soddisfare la domanda costituiscono di regola valide giustificazioni per escludere un abuso attraverso il rifiuto di vendere o di comprare.
Si ritiene quindi che il rifiuto di comprare o di vendere per risultare illecito dovrà essere qualificato da un’esclusiva o prevalente finalità emulativa, desumibile anche dall’oggettiva contrarietà dell’atto all’ordinaria correttezza o buona fede nel settore industriale di riferimento, non essendo altrimenti esigibile un’obbligazione di fornitura o di acquisti, al di fuori di specifiche previsioni di legge. In secondo luogo anche se la norma in commento non esclude di per sé l’abusivo rifiuto di contrarre, la fattispecie si riscontrerà più spesso in seguito ad un pregresso rapporto di durata, in cui il rifiuto di vendere o di acquistare da parte di un contraente ponga in crisi le legittime aspettative dell’altra parte sull’entità o sulla durata della prestazione ovvero sull’ammortamento d’investimenti specificamente attuati per il pregresso rapporto.
Il rifiuto di vendere o di comprare non pare presentare natura extracontrattuale ma sempre una responsabilità collegata ad un rapporto contrattuale, nel cui ambito tale rifiuto non sarebbe altrimenti o diversamente sanzionabile come inadempimento di un’obbligazione concreta in quanto la negazione della prestazione risulterebbe conseguente ad una libera valutazione discrezionale che, invece, la norma in commento sancisce come abusiva e contraria alla correttezza fra imprenditori[7].
Le condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose
Fra le possibili forme di manifestazione dell’abuso di dipendenza economica si hanno anche “le condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose”, lo squilibrio contrattuale rileva, dunque, all’interno della norma sotto due profili, quali indice attuale o potenziale della dipendenza economica del contraente e quale forma di manifestazione dell’abuso di quest’ultima da parte dell’impresa relativamente dominante. Si tratta di situazioni, quindi, di notevole differenza del potere negoziale causate ed imposte unilateralmente dal committente[8].
Occorre poi ribadire che l’art. 9 comma 2 vuole avere natura unicamente esemplificativa delle possibili manifestazioni del comportamento abusivo della dipendenza economica riscontrabili quindi anche nella parte della norma in commento.
Quanto ad un’esemplificazione delle forme di eccessivo squilibrio che possono verificarsi, la prima ipotesi è senz’altro quella dell’abuso in relazione al prezzo. L’imposizione di un prezzo eccessivamente elevato oppure l’ottenimento di condizioni economiche estremamente favorevoli possono rappresentare una forma di sfruttamento della posizione di dipendenza economica della controparte. Ma il carattere potenzialmente abusivo del prezzo non si manifesta solo nella sua misura, potendo assumere anche altre forme. Può infatti aversi un prezzo discriminatorio per prestazioni equivalenti, così come un problema di abuso potrebbe porsi in relazione alla concessione di sconti significativi oppure altre agevolazioni. Anche la mancata preventiva comunicazione e conoscenza di prezzi applicati dalla controparte può essere considerata una forma di comportamento abusivo da parte dell’impresa dominante. Possono poi essere eccessivamente gravose, e quindi che necessitano di un esame particolare per verificare se ci sia un potenziale abuso di dipendenza economica, le clausole che coincidono con quelle già qualificate, sia pure in relazione alla diversa tutela offerta, come vessatoria ex art. 1341 c.c.[9].
Un’altra clausola che può rivelarsi eccessivamente onerosa a carico di una delle parti è quella che subordina la conclusione del contratto all’accettazione di una serie di obbligazioni accessorie, non necessariamente connesse con l’obbligazione principale. Si tratta quindi del cosiddetto tying, a lungo studiato in relazione al diritto della concorrenza. Il carattere abusivo di questa pratica è rappresentato dalla circostanza per cui viene sfruttata la posizione di dipendenza della controparte per ottenere un vantaggio ingiustificato su un altro mercato, distinto da quello relativo all’oggetto principale del contratto. In questo caso la controparte si trova nella posizione di dover subire l’acquisto oppure la fornitura del servizio supplementare e a pagare di conseguenza un prezzo complessivamente più elevato di quello che avrebbe pagato se l’oggetto della prestazione contrattuale fosse stato unico.
Un’ulteriore ipotesi è quella in cui le condizioni pattuite non siano di per sé ingiustificatamente gravose bensì siano discriminatorie rispetto a quanto concordato con altre imprese operanti sul mercato. In funzione della tutela del contraente la previsione espressa di un divieto di discriminazione nell’art. 9 arricchisce il parametro per la valutazione di ragionevolezza del contenuto delle clausole contrattuali, di cui si è detto[10].
L’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto
L’altra e l’ultima ipotesi, invece, riguarda il recesso che può divenire illecito laddove il suo esercizio sia effettuato con modalità abusive, che spetta al giudice accertare, nonostante la formale legittimità dello stesso. In proposito infatti si potrebbe ipotizzare un recesso che pur rispettando il congruo termine di preavviso ai sensi dell’art. 6 comma 1, della legge n. 192/98, venga esercitato allo scopo di eliminare la controparte in una congiuntura di difficoltà economica e per aggravare la situazione da valutare sempre in un’ottica di cooperazione industriale o fra i contraenti. Tuttavia deve ritenersi che le arbitrarie interruzioni vietate dal comma 2 della disposizione in commento si riferiscano soprattutto a cause risolutive o estintive, diverse dal recesso, come in particolare l’importanza delle fattispecie d’inadempimento nelle clausole risolutive espresse laddove esse non abbiano un carattere oggettivo ma risultino sostanzialmente preordinate per consentire l’interruzione del rapporto a discrezione del contraente più forte.
Nella maggior parte dei casi, e soprattutto in presenza di rapporti di durata senza previsione di un termine finale, la valutazione in merito all’abusività del recesso sarà assorbita nella determinazione della congruità del termine di preavviso adottato. Rispetto a questo giudizio, possono elaborarsi modalità di apprezzamento ai sensi delle quali è abusivo il recesso intimato prima del decorso di un lasso temporale idoneo a permettere alla controparte di recuperare l’esposizione finanziaria cui è stata indotta dalla prospettiva di durata nel tempo dell’accordo e che lo scioglimento del rapporto rende irrecuperabile, sempre che non vi sia una giusta causa. Queste valutazioni dovrebbero essere prese in considerazione per determinare il risarcimento del danno dovuto dalla parte che ha arbitrariamente sciolto il rapporto contrattuale.
Le sanzioni
L’art. 9 comma 3 sancisce la nullità del patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica. La previsione appare di notevole interesse in quanto crea un legame diretto tra condotta precontrattuale scorretta e patologia negoziale. Nel caso di specie l’art. 9 rende immediatamente comunicanti il dovere di correttezza precontrattuale e la nullità della clausola, la scorrettezza della condotta nella formazione del negozio comporta direttamente e automaticamente la patologia dello stesso. Dall’altro lato è indubitabile che la sanzione della nullità potrà essere affiancata dal risarcimento del danno. In altri termini non solo nullità e risarcimento potranno coesistere, ma anche ove non possa operare la sanzione della nullità potrà essere richiesto il risarcimento del danno precontrattuale.
Nell’originaria formulazione dell’art. 9 la sanzione esplicitamente individuata a fronte di una condotta abusiva dello stato di dipendenza economica era unicamente la nullità. La nuova formulazione dell’art. 9 comma 3 prevede oltre alla nullità anche l’inibitoria e il risarcimento del danno. In particolare il terzo comma dispone che “il patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo. Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni”.
Purtroppo però la norma in commento induce ad escludere che l’integrazione abbia carattere innovativo e in particolare che valga ad introdurre un’azione inibitoria diversa ed ulteriore rispetto a quelle già azionabili sulla base della precedente formulazione e dell’identificazione di un’ulteriore fattispecie di illecito. Il nuovo disposto dell’art. 9 sembra semplicemente ribadire la natura civilistica dell’illecito e la competenza a conoscere dello stesso da parte del giudice ordinario secondo le normali regole processuali. Se così è, si può giungere alla conclusione che le inibitorie avverso condotte abusive dell’altrui dipendenza economica siano essenzialmente quelle previste in materia di concorrenza sleale dall’art. 2599 c.c.[11], oppure quelle ottenibili in via d’urgenza, anche al di fuori dei casi di concorrenza sleale, ai sensi dell’art.700 c.p.c.[12], in via strumentale ad un procedimento di merito.
Ciò che è importante rilevare ulteriormente è che l’attuale formazione dell’art. 9 comma 3 comporta notevoli problemi interpretativi in ordine all’individuazione delle sanzioni applicabili e delle autorità competenti ad erogarle. Come si è visto dalla lettera della disposizione, l’abuso di dipendenza economica è sempre censurabile mediante azioni innanzi al giudice competente. L’abuso di dipendenza economica può essere censurato dall’autorità antitrust quando
- a) costituisca ipotesi anche di abuso di posizione dominante (le analogie e le differenze tra queste due nozioni verranno esaminate nel paragrafo seguente)
- b) assuma comunque rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, così come previsto dall’art. 9 comma 3 bis (il quale verrà esaminato subito dopo).
È opportuno segnalare sin d’ora, inoltre, che a loro volta i ricorsi avverso i provvedimenti amministrativi dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato rientrano, ai sensi dell’articolo 135, comma 1, lettera b), del Codice del processo amministrativo (Decreto Legislativo 2 luglio 2010, n. 104), nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dovendo essere proposti innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio.
3. Le nozioni di abuso di dipendenza economica e abuso di posizione dominante nell’ottica della tutela della concorrenza e del mercato
Prima di analizzare l’art. 9 comma 3-bis della legge 192/98, è opportuno tenere conto delle analogie e delle differenze dell’abuso di dipendenza economica e dell’abuso di posizione dominante previsto dall’art. 3 della legge antitrust: la prima si distingue infatti dalla seconda nonostante la parziale sovrapponibilità delle condotte censurate[13].
Presupposto per l’applicazione dell’art. 3 della legge 287/90 è infatti l’esistenza di una situazione di “posizione dominate sul mercato nazionale o su una sua parte rilevante” da parte dell’impresa che realizza l’abuso. In sostanza per individuare la sussistenza di una situazione di posizione dominante ai sensi dell’art. 3 della legge antitrust vengono impiegati criteri di natura strutturale, consistenti nell’individuazione della struttura del mercato e nella capacità dell’impresa di esercitare sul funzionamento dello stesso un’influenza notevole. In particolare, viene tenuta in considerazione la quota di mercato detenuta, oppure il fatturato realizzato nel mercato nazionale sia dall’impresa sia dai concorrenti.
La legge 192/98 è invece diversa e più ampia della legge 287/90, siccome lo stato di dipendenza economia ha carattere relativo poiché assume rilevanza la conformazione relazionale del potere economico di cui dispongono le singole imprese in quanto soggetti di uno specifico rapporto giuridico. In secondo luogo, affinché possa ravvisarsi un’ipotesi di illecito ai sensi dell’art. 3 della legge 287/90, occorre l’idoneità del comportamento ad influenzare in senso anticoncorrenziale il mercato. L’abuso di dipendenza economica non è invece necessariamente un illecito di natura concorrenziale. Esso anzi approda al diritto dei contratti ed alla tematica di tutela del contraente debole quale vero e proprio strumento di riequilibrio, operante indipendentemente e a prescindere dalla circostanza che la condotta sia in contrasto con la libertà di concorrenza sul mercato e con l’interesse dei consumatori. Viene con essa introdotta una regola di comportamento che limita la libertà delle imprese forti nei confronti di quelle più deboli[14].
La parziale coincidenza, quindi, tra abuso di dipendenza economica e abuso di posizione dominante, prima della riforma, non poteva che tradursi nella possibilità che l’abuso di dipendenza economica fosse anche abuso di posizione dominante in quanto posto in essere da soggetti in posizione dominante sul mercato o su una sua parte rilevante. La situazione però è mutata a seguito delle modifiche apportate all’art. 9 da parte dell’art. 11 comma 2 della legge 5 marzo 2001, n. 57 le quali assegnano rilievo all’abuso di dipendenza economica anche come autonomo illecito convenzionale, demandato ai poteri istruttori e sanzionatori dell’autorità garante della concorrenza e del mercato. Tuttavia, in seguito alle modifiche apportate alla norma in esame dall’articolo 10, comma 2 della Legge 11 novembre 2011, n. 180, l’abuso si configura a prescindere dall’accertamento della dipendenza economica in caso di violazione diffusa e reiterata del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 concernente la disciplina del ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali. Con le modifiche in questione il legislatore ha voluto rimuovere nei rapporti commerciali tra le imprese abusive dilazioni temporali nei pagamenti delle prestazioni ed ha voluto introdurre un’ulteriore strumento di tutela a favore delle imprese di piccole e medie dimensioni che maggiormente subiscono l’ingerenza delle imprese dominanti. L’autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha effettuato un primo intervento in tal senso adottando il provvedimento del 26 novembre 2016 n. 26251[15].
Il nuovo comma 3-bis del’art. 9 della legge 192/98 dispone infatti che “ferma restando l’eventuale applicazione dell’art. 3 della l. 10 ottobre 1990, n. 287, l’autorità garante della concorrenza e del mercato può, qualora ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, anche su segnalazione di terzi ed a seguito dell’attivazione dei propri poteri di indagine ed esperimento dell’istruttoria, procedere alle diffide e sanzioni previste dall’art. 15 della l. 10 ottobre 1990 n. 287, nei confronti dell’impresa o delle imprese che abbiano commesso detto abuso. In caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 , posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie, l’abuso si configura a prescindere dall’accertamento della dipendenza economica”[16]. La norma quindi pone delle evidenti questioni di coordinamento tra competenza del giudice ordinario e competenza dell’autorità antitrust. Il problema deve essere visto per un’eventuale soluzione sotto il profilo della delimitazione del concetto di rilevanza della condotta abusiva per la tutela della concorrenza e del mercato. Si tratta, quindi, di individuare la soluzione minima di effetti anticoncorrenziali oltre la quale la condotta è suscettibile di rientrare nei poteri dell’autorità garante della concorrenza e del mercato. È infatti evidente che ogni condotta frutto di abuso di dipendenza economica crea effetti contrari ad una corretta concorrenza. Tali effetti possono comunque esaurirsi nel mero ambito della concorrenza sleale sanzionata dagli artt. 2598 e ss c.c., ove rilevanti unicamente sul piano del singolo imprenditore, il quale potrà invocare la relativa tutela innanzi al giudice ordinario. Se invece l’abuso di concorrenza ha un rilievo per il mercato allora la competenza sarà dell’autorità garante.
4. Giurisprudenza rilevante in tema di abuso di dipendenza economica
La giurisprudenza sia di merito che di legittimità ha avuto modo ed occasione di pronunciarsi più volte per quanto riguarda la corretta applicabilità dell’art. 9 della legge 192/98. In questo sede si cercherà di esporre le più importanti sentenze pronunciate dagli organi giurisprudenziali in merito all’applicazione dell’art. 9 della legge sulla subfornitura.
Merita quindi di essere citata una recente pronuncia della Cassazione la quale per quanto concerne l’ipotesi di abuso di dipendenza economica ha ritenuto che “…nella fattispecie la società attrice ha lamentato la violazione della l. 18 giugno 1998, n. 192, art. 9.[…], l’abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 della legge n. 192 del 1998 configura una fattispecie di applicazione generale, che può prescindere dall’esistenza di uno specifico rapporto di subfornitura, la quale presuppone, in primo luogo, la situazione di dipendenza economica di un’impresa cliente nei confronti di una sua fornitrice, in secondo luogo, l’abuso che di tale situazione venga fatto, determinandosi un significativo squilibrio di diritti e di obblighi, considerato anzitutto il dato letterale della norma, ove si parla di imprese clienti o tornitrici, con uso del termine cliente che non è presente altrove nel testo della l. n. 192 del 1998. Poiché l’abuso in questione si concretizza nell’eccessivo squilibrio di diritti e obblighi tra le parti nell’ambito di “rapporti commerciali”, esso presuppone che tali rapporti siano regolati da un contratto, tant’è che il comma terzo dell’art. 9 cit. statuisce la nullità del “patto che realizza l’abuso” di dipendenza economica. Questa soluzione di inquadramento contrattuale della responsabilità da abuso di dipendenza economica si pone in armonia con altri istituti elaborati dalla dottrina”[17].
La norma in esame ribadisce, quindi, la portata generale dell’art. 9 della legge n. 192/98, ossia una portata non limitata ai soli contratti di subfornitura in quanto espressione del principio di buona fede e correttezza contrattuale e perciò finalizzata all’individuazione dei limiti che l’ordinamento pone nei contratti di impresa a tutela di quella parte contrattuale che si trovi, rispetto all’altra, in posizione di dipendenza economica.
Sempre la Corte di cassazione in un altro caso, per quanto concerne l’abuso di dipendenza economica, ha disposto che “in primo luogo il divieto di abuso di dipendenza economica di cui alla legge sulla subfornitura costituisce peculiare applicazione di un principio generale che si vorrebbe caratterizzasse l’intero sistema dei rapporti di mercato. Non a caso il comma 3-bis, art. 9 richiama l’applicabilità della L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 3, per i casi in cui l’abuso di dipendenza economica assuma un rilievo che va oltre gli interessi coinvolti nel singolo rapporto contrattuale, mettendo in questione in termini più ampi le esigenze di tutela della concorrenza. L’abuso di dipendenza economica di cui alla L. n. 192 cit., art. 9 può quindi venire in considerazione in un ambito più ampio di quello formato dalle parti del singolo contratto, per estendersi al rapporto commerciale più complesso in cui esso si inserisca, qualora proprio tramite un tale rapporto si realizzi l’abuso”[18].
Anche in questa sentenza la Corte di Cassazione ha optato per l’interpretazione estensiva dell’istituto in esame, essendo lo stesso applicabile anche a fattispecie non rientranti strettamente nel contratto di subfornitura.
Passando alle sentenze di merito si segnala un’importante pronuncia del Tribunale di Roma ove si dispone che “il divieto di abuso di dipendenza economica è sancito dalla legge n. 192/1998, che disciplina la subfornitura nelle attività produttive. Il divieto in questione, in particolare, colpisce tutte le condizioni ingiustificatamente gravose cui è sottoposta un’impresa (cliente o fornitrice) che si trova in uno stato di dipendenza economica rispetto ad una impresa committente, la quale ultima impone condizioni eccessivamente squilibrate a proprio vantaggio”[19].
La sentenza in esame ritiene applicabile il divieto di abuso di dipendenza economica quando l’impresa committente impone condizioni eccessivamente gravose alla parte più debole. Le condizioni eccessivamente sbilanciate rendono poi attuale e quindi vietata la determinazione del contenuto vincolante nei confronti dell’altra parte. È opportuno precisare, infatti, che la condizione di dipendenza economica scaturisce proprio nel momento in cui l’impresa più debole viene privata dalla impresa dominante della sua indipendenza commerciale nello svolgimento delle sue attività, e ciò si può verificare ad esempio attraverso l’interruzione arbitraria dei rapporti commerciali, l’imposizione di condizioni contrattuali inique ecc.
Di recente anche il Tribunale di Milano ha ritenuto che “il recesso ad nutum, esercitato in difetto di specifica contestazione, senza un congruo termine che consenta di ricercare nuovi partner commerciali sul mercato e trattenendo una rilevante somma nell’esercizio di una forma di autotutela privata non contemplata dall’ordinamento, integra abuso del diritto e abuso di dipendenza economica, sotto forma di interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in corso”[20].
Si evidenzia, quindi, che solo un recesso ad nutum avvenuto in assenza di una particolare contestazione può dar luogo ad una dipendenza economica e non anche un recesso avvenuto in seguito ad una specifica comunicazione di reiterato addebito di inadempienze e ritardi. Si segnala, infatti, una sentenza del Tribunale di Bari in tal senso ove si è ritenuto che “non può accordarsi la tutela cautelare al subfornitore che lamenti l’abuso del proprio stato di dipendenza economica, in considerazione del recesso del committente, comunicato a seguito del reiterato addebito di inadempienze e ritardi nelle consegne”[21].
[1] F. Occelli, L’abuso di dipendenza economica come clausola generale, in Giurisprudenza Italiana, 2015 fasc. 12 pag. 2666-2669; F. Macario, Genesi, evoluzione e consolidamento di una nuova clausola generale: il divieto di abuso di dipendenza economica, in Giustizia Civile, 2016 fasc. 3 pag. 527-528.
[2] A. Bertolotti, Il contratto di subfornitura, Napoli, Utet, 2000, pp. 179-180.
[3] A. Frignani, La subfornitura internazionale. Profili di diritto della concorrenza, in Diritto del commercio internazionale, 2000, fasc. 3, p. 696.
[4] A. Musso, La subfornitura, Roma, Zanichelli Editore, 2003, pp. 490-491
[5] D. Arcidiacono, Abuso di dipendenza economica e mercato rilevante. Il caso della delocalizzazione produttiva, in Giurisprudenza commerciale, 2015 fasc. 4 pag. 786 -796
[6] A. R. Adiutori, Interessi protetti nella subfornitura, Milano, Giuffrè, 2010, p. 178.
[7] A. Musso, La subfornitura, Roma, Zanichelli Editore, 2003, pp. 521 ss
[8] Occelli Federico, L’abuso di dipendenza economica come clausola generale, in Giurisprudenza Italiana, 2015 fasc. 12 pag. 2666-2669.
[9] G. Ceridono, Legge 18 giugno 1998 n. 192. Disciplina della subfornitura nelle attività produttive, in Le nuove Leggi Civile Commentate, 2000, fasc. 1-2, pp. 445 ss
[10] Ibidem
[11] L’art. 2599 c.c., dispone infatti che “la sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminate gli effetti”.
[12] L’art.700 c.p.c., appena citato così recita: “Fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo siaminacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d’urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”
[13] Infatti le condotte sanzionate dall’art. 9 della legge 192/98 sono in parte sovrapponibili a quelle sanzionate dall’art. 3 della legge antitrust. La prima delle disposizioni citate, come si è visto, vieta con elencazione non esaustiva quelle condotte tra l’altro consistenti nel “rifiuto di vendere o di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali”, si tratta di ipotesi che sono state ampiamente esaminate nel corso del paragrafo in esame. A sua volta, a norma dell’art. 3 della legge 10 ottobre 1990 n. 287, “è vietato l’abuso da parte di una o più imprese di una posizione dominante all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, ed inoltre è vietato: a) imporre direttamente o indirettamente prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose; b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico, a danno dei consumatori; c) applicare nei rapporti commerciali con altri contraenti condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza; d) subordinare la conclusione dei contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per la loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l’oggetto dei contratti stessi”.
[14] Berti – B. Grazzini, La disciplina della subfornitura nelle attività produttive, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 177 ss.
[15] Per un dettagliato esame del suddetto provvedimento si veda C. Medici, Abuso di dipendenza economica: la prima volta dell’autorità, in Mercato concorrenza regole, 2016 fasc. 3 pag. 549-559.
[16] In particolare l’articolo 15 della legge n. 287 del 1990 summenzionato dispone che “se a seguito dell’istruttoria di cui all’art. 14 l’Autorità ravvisa infrazioni agli artt. 2 o 3, fissa alle imprese e agli enti interessati il termine per l’eliminazione delle infrazioni stesse. Nei casi di infrazioni gravi, tenuto conto della gravità e della durata dell’infrazione, dispone inoltre l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10% del fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente nell’ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida[…], determinando i termini entro i quali l’impresa deve procedere al pagamento della sanzione. In caso di inottemperanza alla diffida di cui al comma 1, l’Autorità applica la sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10% del fatturato ovvero, nei casi in cui sia stata applicata la sanzione di cui al comma 1, di importo minimo non inferiore al doppio della sanzione già applicata con un limite massimo del 10% del fatturato come individuato al comma 1, determinando altresì il termine entro il quale il pagamento della sanzione deve essere effettuato. Nei casi di reiterata inottemperanza l’Autorità può disporre la sospensione dell’attività d’impresa fino a trenta giorni. L’Autorità. In conformità all’ordinamento comunitario, definisce con proprio provvedimento generale i casi in cui, i virtù della qualificata collaborazione prestata dalle imprese nell’accertamento d infrazioni alle regole di concorrenza, la sanzione amministrativa pecuniaria può essere non applicata ovvero ridotta nelle fattispecie previste dal diritto comunitario”.
[17] Corte di Cassazione sentenza del 25/11/2011 n. 24906 in Giust. civ., 2013, 3-4, I, p. 739.
[18] Cassazione civile sez. III 23 luglio 2014 n. 16787 in De Jure
[19] Tribunale di Roma sez. X, sentenza del 24/01/2017 n. 1239 in Redazione Giuffrè 2017.
[20] Tribunale Milano sentenza del 17/06/2016 in Foro it. 2016, 11, I, 3636.
[21] Tribunale di Bari sentenza del 17/01/2005 in Foro, it., 2005, I, p. 1603.
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Tribunale Milano sentenza del 17/06/2016.
Tribunale di Bari sentenza del 17/01/2005.