L’abuso del diritto quale limite esterno all’autonomia contrattuale
La protezione accordata dall’ordinamento giuridico ad un determinato diritto soggettivo risulta preordinata all’esigenza di libertà nel suo esercizio ai fini del conseguimento della concreta soddisfazione dell’interesse che esso è in grado di realizzare.
Secondo quanto evidenziato da autorevole dottrina, il diritto soggettivo costituisce, in particolare, la sintesi di una posizione di forza, per cui una volta esercitato il potere attribuito dalla norma, il diritto è in grado di realizzare in maniera piena l’interesse e una posizione di libertà, in base alla quale, prima di tutto, il titolare può decidere se effettivamente avvalersi o meno di siffatto potere [1].
In via di estrema sintesi, dunque, la tutela che viene approntata in favore del diritto soggettivo risulta tendenzialmente piena e incondizionata, salvo il limite di non abusare dello stesso[2].
È vero, quindi, come è stato a più riprese osservato in materia, che il concetto di abuso del diritto indica un limite esterno al suo esercizio, tale per cui si ritiene che del diritto medesimo ci si debba servire allo scopo precipuo di realizzare l’interesse reale per la cui soddisfazione il potere viene giuridicamente attribuito[3].
Non emerge una meritevolezza di tutela, ma, al contrario, costituisce fonte di responsabilità il comportamento di chi nel far valere un proprio diritto, utilizza modalità tali per cui non persegue altro scopo se non quello di arrecare molestia o danno ad altri[4].
La giurisprudenza ha avuto modo di precisare, in proposito, come l’esercizio del diritto debba avvenire in modo tale da non recare danno ad altri, qualora non determini in concreto dei vantaggi in favore di chi lo rivendichi[5].
Eppure, nel panorama giuridico attuale, il legislatore non ha ritenuto di introdurre una norma che espressamente vieti in generale l’abuso del diritto, a differenza di quanto avviene in altri sistemi giuridici contemporanei.
In realtà, il progetto definitivo del codice civile del 1942 prevedeva che nessuno potesse esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale esso gli venisse riconosciuto[6].
Questa norma, tuttavia, non è stata riportata nella stesura codicistica definitiva, giacché il legislatore aveva chiarito come dovesse ritenersi all’uopo sufficiente il ricorso ai principi generali sanciti nel codice civile e valorizzando massimamente l’esigenza di certezza del diritto[7].
Anche anteriormente si era evidenziato come l’abuso del diritto, benché suscettibile di rimprovero dal punto di vista sociale e/o etico-morale, non risultasse, per contro, passibile di sanzione giuridica[8].
In altre parole, la considerazione per cui la scelta, da parte del titolare di diritto, tra le varie modalità di esercizio dello stesso, di quella che determina una sproporzione tra il proprio vantaggio e il sacrificio cui assoggetta l’altra parte contrattuale, al fine di conseguire uno o più obiettivi diversi e ulteriori rispetto a quelli per cui la norma ha attribuito il relativo potere configura un abuso di quel diritto non è sempre stata così scontata[9].
Peraltro, una parte della dottrina, pur ammettendo che l’uso non “normale” del diritto costituisse una forma di abuso, precisava che quest’ultimo poteva ritenersi configurabile solo nei casi espressamente previsti dalla legge, giacché, in assenza di un disposto normativo che vada a sanzionare in generale tale condotta o modalità della condotta, si segue quanto previsto dal brocardo in base al quale qui suo iure utitur neminem laedit[10].
Tale assunto si basava, quindi, su un’argomentazione rigorosamente letterale e mirava a soddisfare precipuamente l’esigenza di certezza del diritto.
Orbene, ritenere che certi comportamenti possano riguardarsi come abusivi e, quindi, fonte di responsabilità, significa muovere dalla considerazione per cui allora il concetto che ne è alla base assurga al rango di principio generale nell’ordinamento giuridico.
In effetti, di recente, dottrina e giurisprudenza si assestano nell’area della riconoscibilità dell’abuso del diritto come categoria generale avente la funzione di controllare e correggere, costituendone un limite, sebbene esterno, l’autonomia contrattuale che non può di per sé superare determinate barriere, allorquando si scelga di utilizzare uno strumento, ma non per perseguire quelle finalità che si pongano in linea a quanto concepito nella mente del legislatore che lo ha previsto.
A differenza di ciò che accade con riferimento alla diversa figura dell’eccesso del diritto, in questi casi è ravvisabile un’apparente conformità del comportamento tenuto dal suo titolare rispetto al contenuto del diritto, ma è lo scopo, la finalità dell’esercizio non prevista e voluta dalla legge a non risultare certamente meritevole di tutela[11].
Il fondamento del concetto di abuso del diritto
La mancata codificazione del divieto di abusare di un proprio diritto ha ingenerato la questione di quale ne sia il fondamento da un punto di vista normativo.
Secondo una prima ricostruzione, l’abuso sarebbe stato configurabile non già alla stregua di una categoria generale, ma solo in determinate ipotesi appositamente tipizzate dal legislatore, quali l’art. 833 c.c. che pone il divieto di atti emulativi che non abbiano altro scopo se non quello di arrecare molestia ad altri, l’art. 1438 c.c. afferente alla minaccia di far valere un diritto, l’art. 2598 c.c. in tema di concorrenza sleale, l’art. 330 c.c. circa il divieto di abuso della potestà genitoriale e, ancora, gli artt. 2793 c.c. e 1015 c.c. rispettivamente in punto di abuso della cosa ad opera del creditore pignoratizio e di abuso del diritto di usufrutto[12].
Peraltro, come osservato in dottrina, quanto all’applicazione dell’art. 833 c.c., non è sufficiente che la condotta del soggetto titolare del diritto arrechi nocumento o molestia ad altri, ma anche che essa sia stata posta in essere con questa esclusiva finalità senza che sia riscontrabile, per contro, una diversa giustificazione economica e sociale che stia alla base di un intento di perseguire un proprio vantaggio, un’utilità concreta[13].
La teoria in esame riteneva, in definitiva, che solo se il legislatore avesse specificato in quali ipotesi un abuso effettivamente potesse concretizzarsi, avrebbe potuto dirsi soddisfatta l’esigenza di certezza del diritto, oltre che, nelle ipotesi in cui ciò sia applicabile, anche il concetto di legittimo affidamento, evitando di generalizzare una figura dai contorni troppo incerti e dalla rilevantissima vis expansiva.
Con la valorizzazione progressivamente attribuita al ruolo della buona fede oggettivamente intesa e della correttezza, si è, invece, evidenziato come il principio di abuso del diritto ben possa desumersi dall’art. 2 Cost. che enuncia, fra le altre, una profonda istanza solidaristica, intesa come limite di qualsivoglia situazione giuridica soggettiva[14].
Così, ad esempio, in ossequio all’operatività del canone generale di buona fede oggettivamente intesa, ex artt. 1175 e 1375 c.c. il debitore potrà paralizzare l’azione del creditore, laddove con il proprio contegno tale ultimo soggetto attraverso alcune modalità di esercizio del proprio diritto, intenda perseguire uno scopo diverso rispetto a quello previsto dalla norma[15].
La tematica in esame non involge, peraltro, solo il diritto interno, giacché nella Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea si prevede che il ruolo attribuito alla buona fede vada oltre la mera valutazione della condotta delle parti e costituisca, altresì, uno strumento limitativo del potere attribuito al titolare del diritto, al fine di evitare di porre in essere condotte che sconfinino nel concetto di abuso del diritto, inteso anche in chiave processuale, ovverosia come utilizzo dello strumento in esame per uno scopo diverso e ulteriore rispetto a quello avuto originariamente in mente dal legislatore[16].
Ipotesi applicative nella recente giurisprudenza
In siffatto contesto, la giurisprudenza ha avuto modo, analizzando svariate situazioni concrete, di ritenere sussistenti condotte di vero e proprio abuso del diritto, con particolare riguardo al frazionamento da parte del creditore di una somma derivante dall’adempimento di un rapporto obbligatorio unitario che richieda giudizialmente un adempimento parziale al debitore, con riserva di azione per l’importo residuo.
In un primo momento in via pretoria il contrasto insorto era stato composto nel senso di ritenere legittimo tale comportamento, giacché il debitore avrebbe pur sempre potuto offrire di adempiere per intero, o chiedere l’accertamento negativo circa la sussistenza del credito, essendo, peraltro, ammissibile una domanda di adempimento parziale, così come l’identica facoltà di accettarlo risulta già prevista dall’art. 1181 c.c.
Tuttavia, in un secondo momento, la Suprema Corte a Sezioni Unite[17] ha evidenziato come una condotta di tal fatta posta in essere dal creditore debba a rigore considerarsi inammissibile per contrasto con il dovere di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost. e con i suoi corollari di buona fede oggettiva e correttezza.
Il divieto di abusare del diritto ha, quindi, trovato riconoscimento quale principio generale dell’ordinamento allo scopo di sanzionare quei comportamenti nei confronti della controparte che impongano un sacrificio eccessivo dell’interesse di cui si fa portatrice, senza essere, di contro, sorretti da un’apprezzabile ragione giustificatrice dal punto di vista giuridico- economico.
La condotta in esame tenuta dal creditore finisce inevitabilmente per comportare un aggravio di spese processuali per il debitore che resterebbe esposto indefinitamente al vincolo coattivo, in aggiunta al rischio di contrasti di giudicato, con duplicazione dell’attività istruttoria in relazione alla medesima vicenda sostanziale.
Pertanto, le relative domande potrebbero essere proposte in giudizi separati solo qualora fosse riscontrabile un interesse oggettivo, obiettivamente apprezzabile in capo al creditore in ordine alla tutela frazionata.
Così, di recente, la Suprema Corte ha evidenziato, in riferimento al frazionamento della domanda risarcitoria relativa alle conseguenze derivanti dal medesimo fatto storico proposta davanti a due diversi giudici, l’una con riguardo alla richiesta di risarcimento dei danni alle cose in seguito a sinistro, l’altra ai danni alla persona, che siffatta condotta tenuta dal soggetto danneggiato deve considerarsi alla stregua di abuso del diritto, sub specie di abuso dello strumento processuale[18].
Riprendendo la tematica di abuso del diritto in caso di frazionamento, qui dell’azione extracontrattuale, con conseguente disarticolazione di un unico rapporto sostanziale, si è sottolineato come non sia attribuibile tutela in ipotesi di utilizzo dello strumento processuale effettuato oltre i limiti della funzionalizzazione al perseguimento del diritto per cui è stato conferito.
Secondo quanto sostenuto dalla giurisprudenza, una condotta può qualificarsi come “abusiva” se l’operazione economica viene posta in essere anche ad un precipuo scopo fiscalmente elusivo, sicché il divieto opera se e solo se i comportamenti in esame non possano spiegarsi altrimenti e trovare altrove una propria ratio giustificatrice[19].
Sempre in materia tributaria, si è ritenuto che, quanto al riparto dell’onus probandi, spetti all’Amministrazione Finanziaria comprovare il disegno elusivo, nonché le modalità di manipolazione o alterazione degli schemi negoziali classici, dovendo, altresì, fornire la prova del vantaggio fiscale conseguito[20].
Viene, quindi, valutata l’operazione economica che, tenuto conto della volontà delle parti e del contesto fattuale e giuridico, sia effettuata al solo scopo di ottenere determinati vantaggi fiscali contrari alla ratio delle norme tributarie eluse con strumenti utilizzati in difetto di valide ragioni economiche che ne giustifichino il ricorso[21].
Ancora, con riferimento all’utilizzo del contratto di sale and lease- back da parte dell’imprenditore, al fine di verificare se possa riscontrarsi una condotta abusiva e, quindi, emerga lo scopo di perseguire una finalità diversa rispetto a quella per cui il legislatore ha previsto il relativo strumento contrattuale, è necessario analizzare siffatto scopo, nel mentre, qualora sussista una valida e apprezzabile giustificazione di stampo economico o giuridico, l’operazione sarà lecita, giacché anche il libero esercizio dell’attività economica e imprenditoriale viene costituzionalmente protetto, in particolare all’art. 41 Cost.[22]
Non sempre, dunque, sarà configurabile una situazione di abuso del diritto, così come non è stata riscontrata dalla giurisprudenza nella riorganizzazione societaria allorquando si persegua e ottenga esattamente il vantaggio voluto dal legislatore[23].
A livello di diritto dell’Unione Europea, si è di recente evidenziata l’applicabilità del principio dell’abuso del diritto nel settore dell’imposta sul Valore Aggiunto.
La questione che si è posta all’attenzione della Corte di Giustizia atteneva all’applicabilità o meno nei confronti del singolo di siffatto principio, in assenza di un provvedimento nazionale legislativo o giudiziario attuativo del principio di abuso del diritto in tale ambito, sì come indicato nella sentenza Halifax, venendo in rilievo anche, di contro, questioni di certezza del diritto e di legittimo affidamento.
In tale occasione, si è precisato che il principio in esame ben possa rivestire carattere e portata generale rientrando nella costante giurisprudenza e avendo trovato rilievo in numerose ipotesi applicative dall’ambito societario a quello relativo alle politiche agricole.
Se, dunque, il divieto di abuso in esame riveste carattere generale, ciò significa che qualora le condizioni giuridiche non siano soddisfatte, in quanto si pieghi uno strumento previsto dalla legge a fini diversi ed ultronei, allora il divieto potrà considerarsi operante, non necessitando, per contro, di una specifica base giuridica, e ciò anche per quanto attiene ai rapporti pregressi[24].
Così, a prescindere dalla sussistenza di una misura nazionale che vi dia attuazione, il divieto in esame deve ritenersi direttamente operante.
[1] Cfr. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, XVII edizione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2015,p. 57.
[2] Ibidem.
[3] Cfr. G. Chinè, M. Fratini, A. Zoppini, Manuale di diritto civile, IX edizione, 2017/2018, Nel diritto Editore, Molfetta, 2017, p. 795.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Cass. Civ. 6.02.1982, n. 688 in Giust. Civ. , 1983,I, 1577 apud Giurisprudenza civile, a cura di S. Ruscica, Giuffrè Editore, Milano, 2017- A. Buzzanca, Mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale e abuso del diritto: orientamento della Cassazione, p. 158.
[6] Cfr. G. Chinè, M. Fratini, A. Zoppini, op. cit., p.794.
[7] A. Buzzanca, op. cit., p. 157.
[8] Cfr. G. Chinè, M. Fratini, A. Zoppini, op. cit., p.794.
[9] Cfr. F. Gazzoni, op. cit., p. 57.
[10] Cfr. G. Chinè, M. Fratini, A. Zoppini, op. cit., p.794.
[11] Ibidem, p. 808.
[12] Cfr. A. Buzzanca, op. cit., p. 158.
[13] Cfr. G. Chinè, M. Fratini, A. Zoppini, op. cit., p.796.
[14] Cfr. F. Gazzoni, op. cit., p. 57.
[15] Cfr. A. Buzzanca, op. cit., p. 158
[16] Ibidem., p. 159.
[17] Cfr. SS. UU. Corte di Cassazione, sent. n. 23726 del 15.11.2007.
[18] Cfr. Cassazione Civile, sent. n. 21318 del 21.10.2015.
[19] Cfr. Cassazione Civile, sez. VI-T, sent. n. 9771 del 18.04.2017.
[20] Cfr. Cassazione Civile, sez. VI-T, ordinanza n. 9610 del 25.05.2017.
[21] Cfr. Cass. Civile, sez. Tributaria,, sent. n. 16675 del 09.08.2016.
[22] Cfr. Cassazione Civile, sez. V, sent. n. 4715 del 26.08.2015.
[23] Cfr. Cassazione Civile, sent. n. 5973 del 08.03.2017.
[24] Cfr. CGUE 22.11.2017 C-251/16.