Normativa italiana ed effetto discriminatorio: l’esame della Corte di Cassazione

La sentenza n. 5967 del 2024, pronunciata dalla Sezione Lavoro, ha stabilito che l’interpretazione dell’art. 53 della L. n. 234 del 2012, insieme al precedente art. 14-bis, co. 2, della L. n. 11 del 2005, è fondamentale per definire le situazioni in cui le norme interne non si applicano. Questo principio si applica quando tali disposizioni causano un danno per il cittadino italiano e, contemporaneamente, un vantaggio per il cittadino dell’Unione Europea, generando così un effetto discriminatorio nei confronti del primo.

Corte di Cassazione-Sez. lav. sent. n. 5967 del 05-03-2024

La questione

Un medico specializzato in anestesia, precedentemente impiegato presso il Ministero della Difesa come medico militare, ha avviato una causa contro un’azienda sanitaria, sostenendo di non aver ottenuto il riconoscimento dell’anzianità pregressa al momento dell’assunzione nel 2007. Il medico ha richiesto il riconoscimento di tale anzianità, sostenendo che altri medici provenienti da paesi dell’UE che si trasferiscono in Italia hanno diritto a tale riconoscimento. Nonostante le argomentazioni, la richiesta è stata respinta tanto dal giudice di prime cure che in appello. Per questi motivi, il medico ha presentato un ricorso per cassazione.

I motivi del ricorso

Il primo motivo di ricorso rileva la presunta nullità della sentenza per la mancanza della firma del Presidente del collegio giudicante. Tuttavia, questa argomentazione è stata confutata poiché la copia autentica della sentenza presentata dalla parte contraria mostra chiaramente la firma del Presidente.
Il secondo motivo di ricorso contesta la violazione di norme europee e nazionali, in particolare, quelle che riguardano la libera circolazione dei lavoratori nell’UE.  In particolare, il ricorrente critica il fatto che la sentenza abbia richiesto la prova del riconoscimento del diritto negato in tutti gli altri paesi dell’UE. Egli sottolinea che la normativa antidiscriminatoria europea si applica a tutti i cittadini UE senza distinzioni tra status militare e civile.
Il terzo motivo critica il requisito imposto dalla sentenza per dimostrare l’esistenza di una normativa specifica per i medici militari che regoli il mantenimento dell’anzianità al momento del passaggio al servizio sanitario civile in diversi paesi dell’UE.
Il quarto motivo di ricorso critica la sentenza impugnata per aver richiesto una specifica allegazione riguardante il riconoscimento dei servizi medici prestati nell’ambito militare dagli altri Paesi dell’Unione Europea.

Le argomentazioni della Cassazione

I giudici di legittimità dichiarano che motivi di ricorso devono essere valutati insieme poiché sono tra di loro collegati in via sistematica e logica. In particolare, nel quarto motivo, il ricorrente ha argomentato in base all’art. 53 della L. n. 234/2012, il quale impedisce l’applicazione di norme che discriminino i cittadini italiani rispetto a quelli dell’UE.  Il ricorrente ha sottolineato che i medici provenienti da Paesi dell’UE hanno il diritto al riconoscimento dell’anzianità maturata presso le strutture sanitarie pubbliche del loro Paese di origine. Pertanto, nell’esame della questione ha chiesto che l’estensione in Italia dello stesso riconoscimento per evitare discriminazioni.
Per affrontare la questione delle discriminazioni inverse, è essenziale considerare anche altre normative, come l’articolo 2 della Legge n. 62 del 2005, che mira a garantire una parità di trattamento tra cittadini italiani e degli altri Stati membri dell’UE, evitando discriminazioni a danno dei cittadini italiani.
Successivamente, con la L. n. 88 del 2009, è stato introdotto l’articolo 14-bis nella Legge n. 11 del 2005, composto da due commi. Il primo comma assicura la parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri Stati membri dell’UE residenti o stabiliti nel territorio nazionale. Il secondo comma, invece, vieta l’applicazione di norme che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento dei cittadini comunitari residenti o stabiliti nel territorio nazionale. Mentre il primo comma si riferisce alle norme future di recepimento o adattamento in senso non discriminatorio, il secondo comma riguarda l’adattamento di norme preesistenti destinate a produrre effetti discriminatori. Pertanto, nel caso specifico, è rilevante solo il secondo comma, la cui formulazione è identica a quella dell’articolo 53 della Legge n. 234/2012.
Con l’entrata in vigore della Legge n. 234/2012, il sistema relativo al recepimento delle normative europee ha subito una revisione ulteriore, in coerenza con l’interpretazione delineata dell’articolo 14-bis. Questo principio sottolinea la necessità di garantire la parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri Stati membri dell’UE e a prevenire un trattamento sfavorevole nei confronti dei cittadini italiani.
I giudici ribadiscono che la disciplina antidiscriminatoria costituisce un insieme di norme progettate per prevenire qualsivoglia forma di discriminazione basata su caratteristiche personali o sociali, come la religione, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale. Queste norme mirano a garantire una parità di trattamento e a elidere eventuali svantaggi derivanti da tali condizioni.  Mentre la normativa europea mira a promuovere la libera circolazione delle persone tra Stati membri UE, estendere automaticamente gli stessi vantaggi agli italiani potrebbe compromettere la normativa interna che regola la materia in modo diverso. Ciò perché i cittadini italiani non sono considerati una categoria minoritaria o diversa rispetto alla popolazione generale, mentre gli stranieri che si spostano all’interno dell’Unione Europea godono di una protezione speciale per favorire la libera circolazione. Di conseguenza, estendere gli stessi vantaggi ai cittadini italiani potrebbe costituire un trattamento non equo.
La Corte Costituzionale ha sottolineato che gli Stati membri hanno il diritto di adottare norme volte a proteggere e promuovere la produzione nazionale o le tradizioni locali, anche se ciò comporta vantaggi per i cittadini stranieri che vanno oltre quanto necessario per garantire la salute pubblica.
In definitiva, la questione delle discriminazioni alla rovescia solleva importanti questioni di sovranità nazionale e di diritto interno degli Stati membri.
Le considerazioni emerse mettono in luce l’importanza dell’autonomia del diritto nazionale nell’affrontare le situazioni coinvolgenti i cittadini italiani, mantenendo, al contempo, il rispetto per la libera circolazione transfrontaliera.

Equilibrio tra norme interne e diritti dei cittadini

Non vi è dunque la necessità di uniformare in modo indiscriminato le leggi generali, poiché l’articolo 53 della legge chiede semplicemente di evitare discriminazioni nell’applicazione del diritto nazionale. Interpretare tale disposizione come una norma automatica di adattamento porterebbe piuttosto a una notevole incertezza giuridica. La Suprema Corte ribadisce che è compito del legislatore nazionale mantenere l’equilibrio tra le esigenze della libera circolazione e i diritti dei cittadini interni. Tuttavia, occorre considerare che le questioni di discriminazione e uguaglianza assumono una dimensione diversa quando le situazioni in conflitto entrano in gioco. Il trattamento preferenziale concesso agli stranieri potrebbe infatti pregiudicare i cittadini italiani, specialmente per quanto riguarda l’accesso a opportunità di carriera o benefici lavorativi. Ciò implica una delicata valutazione dei diritti e degli interessi coinvolti, affinché si possa garantire un equo trattamento per tutti i soggetti interessati, senza compromettere la coerenza e la stabilità del sistema giuridico nazionale.
Tale ragionamento richiama l’importanza di equilibrare il rispetto del diritto comunitario con la necessità di evitare discriminazioni nel contesto della concorrenza tra imprese sullo stesso mercato. La sentenza della Corte Costituzionale n. 443/1997 ha sottolineato come l’applicazione del diritto comunitario possa generare discriminazioni, specialmente quando si tratta di imprese che competono tra loro. In questa prospettiva, l’articolo 53 della legge in esame stabilisce che le norme interne che provocano discriminazioni non sono applicabili, consentendo di superare tali effetti discriminatori quando si confrontano cittadini italiani e stranieri che operano in ambito transfrontaliero. Ciò non significa che l’intero sistema interno debba essere considerato obsoleto, a meno che non vi sia un effettivo conflitto tra situazioni interne e transfrontaliere che richieda una soluzione diversa. In tal caso, potrebbe essere necessario ricorrere all’incidente di legittimità costituzionale o valutare la validità delle disposizioni della contrattazione collettiva alla luce del principio di uguaglianza.
La comprensione delle norme che facilitano la circolazione tra gli Stati membri implica, in maniera inevitabile, l’equiparazione del cittadino italiano a quello straniere. Si ritiene, infatti, che le disposizioni favorevoli per i cittadini transfrontalieri degli altri Stati membri debbano estendersi anche al cittadino italiano che ritorna dopo aver vissuto o lavorato in un altro Stato membro. Questa parificazione è già implicita nei casi come quello in esame, in cui sia per i medici transfrontalieri dell’UE sia per i medici italiani che tornano in Italia da strutture straniere, si applica la stessa disciplina prevista dalla legge n. 735 del 1960. Questa legge è richiamata per i cittadini dell’UE dall’articolo 5 del decreto legislativo n. 98/2008, integrato dall’art. 44, comma 1, del d. lgs. n. 69/2013.
Inoltre, la questione relativa all’indennità di esclusività è stata oggetto di valutazione da parte della Suprema Corte in diverse occasioni. Si è stabilito che l’art. 5 del CCNL per la dirigenza medica e veterinaria del 2000, interpretato in modo autentico dal successivo CCNL del 2002, prevede l’esclusione dell’anzianità di servizio maturata in istituti di cura scientifici o negli ospedali militari per i dirigenti assunti dopo l’entrata in vigore del CCNL del 1996. Questa interpretazione contrattuale ha prevalso sulla disposizione generale dell’art. 102 del D.P.R. del 1980, che equipara il trattamento economico dei docenti universitari a quello del personale delle unità sanitarie locali. La Corte ha difeso tale interpretazione per garantire una gestione coerente del servizio, in linea con le disposizioni legislative vigenti, valorizzando il servizio prestato negli enti di comparto o nei servizi equiparati dalla legge. Inoltre, per quanto riguarda la retribuzione di posizione, si è confermato che l’anzianità rilevante è quella maturata all’interno del comparto sanitario, indipendentemente dal tipo di contratto e dall’azienda in cui è stata svolta.
In conclusione, nell’ambito del diritto nazionale, la definizione dei vari aspetti retributivi non si basa esclusivamente sul tipo di mansione svolta, ma piuttosto sull’appartenenza al comparto o a sistemi analoghi. Tale scelta, frutto di una valutazione normativa discrezionale, punta a valorizzare l’esperienza maturata all’interno di strutture caratterizzate da una coerenza operativa, differenziate sia dal punto di vista strutturale che normativo rispetto ad altri ambiti come quello militare: questo criterio è stato confermato anche in situazioni analoghe, come nel riconoscimento dell’anzianità di servizio per il personale degli istituti di ricovero e cura scientifici.
Tuttavia, in casi in cui emergano conflitti tra cittadini italiani e cittadini di altri Stati membri dell’Unione Europea, con conseguenti discriminazioni a favore dei secondi, è richiesto il superamento delle normative interne che generano tale disparità, come sottolineato dall’art. 53 della legge n. 234 del 2012 e dall’art. 14-bis della legge n. 11 del 2005.

Principio di diritto

La Sezione Lavoro, pertanto, ha affermato il seguente principio di diritto:“L’art. 53 della L. n. 234 del 2012, come anche il previgente art. 14-bis, co. 2, della L. n. 11 del 2005, si interpreta nel senso che non trovano applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi interne quando, nella regolazione di medesimo caso, quelle disposizioni comportino al contempo un pregiudizio ai danni del cittadino italiano ed un vantaggio al cittadino dell’Unione Europea, in tal modo realizzando in concreto un effetto discriminatorio ai danni del primo”.

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