Processo tributario: la responsabilità del funzionario che rigetta il reclamo e rifiuta la mediazione

in Giuricivile.it, 2022, 10 (ISSN 2532-201X)

Il presente lavoro si propone di esaminare la valenza degli strumenti deflattivi nella composizione della lite sorta tra contribuente e Amministrazione finanziaria; strumenti, quelli in oggetto, allineati rispetto alla generale tendenza del legislatore, volta a riconoscere sempre maggior rilievo a modelli fondati sulla ricerca di una soluzione quanto più condivisa tra le parti.

Affrontato l’inquadramento generale dei principi che contraddistinguono il processo tributario, infatti, si passano in rassegna le peculiarità che interessano gli istituti del reclamo e della mediazione; il tutto, alla luce della novità introdotta dalla L. n. 130/2022 che, per ciò che concerne i fini della presente trattazione, ha determinato l’inserimento del comma 9-bis all’interno dell’art. 17-bis D.lgs. n. 546/1992, aprendo all’imputazione della responsabilità amministrativa in capo al funzionario che “immotivatamente” rigetti il reclamo o rifiuti la proposta di mediazione.

Da ultimo, si espongono delle conclusioni tratte alla luce dell’analisi condotta nella parte precedente.

Natura giuridica e principi del processo tributario

Il processo tributario ha trovato compiuto inquadramento nel D.lgs. n. 546/1992 (oggi parzialmente riformato in forza dell’entrata in vigore della L. n. 130/2022[1]) il quale, a sua volta, è intervenuto per sostituire il precedente impianto normativo contrassegnato dalle disposizioni contenute nel D.P.R. n. 636/1972.

Le principali novità introdotte dal D.lgs. n. 546/1991 interessano:

  • l’articolazione del processo tributario in due gradi di giudizio di merito dinnanzi alla Commissione tributaria provinciale (oggi Corte di giustizia tributaria di primo grado) e, per l’appello, alla Commissione tributaria regionale (oggi Corte di giustizia tributaria di secondo grado), cui si addiziona il ricorso per Cassazione[2], al quale si applicano, per quanto compatibili, le norme dettate dal codice di procedura civile;
  • l’ampliamento della giurisdizione tributaria secondo quanto previsto dall’art. 2, D.lgs. n. 546/1992, alla lettera del quale “appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversia aventi ad oggetto tributi di ogni genere e specie comunque denominati”;
  • l’adozione di specifici istituiti del codice di procedura civile, in conformità a quanto disposto dall’art. 1 del presente decreto, secondo cui: “i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”;
  • la fruizione degli strumenti cautelari disciplinati agli artt. 47, 52 e 62-bis del decreto in oggetto;
  • l’istituzione dell’obbligo della difesa per le liti aventi un valore economico pari o superiore ad euro 3.000;
  • l’introduzione della condanna al pagamento delle spese di giudizio, a carico della parte risultante soccombente a conclusione del processo[3];
  • la previsione del giudizio di ottemperanza funzionale a rendere esecutive le pronunce, in cui risulti soccombente l’Amministrazione finanziaria;
  • la costituzione del Consiglio di Presidenza (a cui si aggiunge oggi la locuzione “della giustizia tributaria”), quale organo di autogoverno della magistratura tributaria.

Ciò detto, occorre precisare che se nessuna particolare difficoltà ha sollevato il riconoscimento della natura giurisdizionale (e non amministrativa)[4] alle Corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado (si ripete, ex Commissioni tributarie provinciali e regionali), lo stesso non è accaduto in riferimento alla determinazione della natura del processo tributario, considerati i due macro-orientamenti contrastanti in proposito.

Nello specifico, la tesi più risalente nel tempo (ma minoritaria) attribuisce al rito tributario “natura dichiarativa”, in relazione al quale l’atto impositivo costituirebbe soltanto un mezzo processuale funzionale ad introdurre un generico giudizio di cognizione. Il precipitato di quanto detto, allora, si sostanzierebbe nell’istaurazione del processo tributario volto, non tanto ad ottenere l’annullamento dell’atto impugnato, quanto piuttosto, all’ottenimento di una pronuncia di merito sostitutiva dell’atto dell’Ufficio.

Di segno diametralmente opposto, invece, è l’orientamento della dottrina prevalente che attribuisce al rito tributario “natura impugnatoria”, considerato che si tratta di un processo in cui si impugnano atti amministrativi, salvi i casi in cui il contribuente presenti istanza di rimborso oppure impugni il “silenzio-dissenso” manifestato dall’Amministrazione finanziaria.

Più nel dettaglio, il giudizio tributario è un giudizio di impugnazione-merito, piuttosto che impugnazione-annullamento[5]. Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale[6], infatti, l’impugnazione davanti al giudice tributario attribuisce a quest’ultimo non solo la cognizione dell’atto, ma anche del rapporto tributario, trattandosi di una cd. “impugnazione-merito”, in quanto diretta alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva dell’accertamento operato dall’Amministrazione finanziaria. Ne discende, “che il giudice che ritenga invalido l’avviso di accertamento non per motivi formali, ma di carattere sostanziale, non deve limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria, e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte”[7].

Dalla natura impugnatoria del rito tributario, si precisa, discendono i seguenti corollari:

  • l’inammissibilità delle azioni di accertamento negativo della pretesa erariale aventi carattere preventivo;
  • l’inammissibilità delle azioni cautelari ante causam, finalizzate ad inibire o sindacare un’attività amministrativa prima che questa si sia tradotta nell’emanazione di un atto impugnabile;
  • l’impossibilità per l’amministrazione finanziaria di fondare la propria pretesa su ragioni giuridiche diverse da quelle indicate nell’atto impugnato;
  • l’impossibilità per il ricorrente di sottoporre alla cognizione del giudice questioni estranee all’oggetto dell’impugnativa;
  • l’inammissibilità di proporre domande riconvenzionali.

Affrontando argomentazioni inerenti al rito tributario, poi, risulta tanto doveroso quanto necessario richiamare l’intervento di riforma costituzionale, avvenuto nel 1999, proteso a modificare l’art. 111 Cost. per recepire l’art. 6, par. 1 della CEDU[8], che ha incastonato nel nostro ordinamento il principio del giusto processo.

Nel dettaglio, mentre il primo comma dell’art. 111 Cost, riformulando la locuzione di “equo processo” contenuta all’art. 6 CEDU, statuisce che “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”, il secondo comma, invece, cristallizza il principio del contraddittorio tra le parti e di terzietà/imparzialità del giudice; infine, i commi sesto e settimo, già presenti nella precedente formula dispositiva, ribadiscono l’obbligo di motivazione che involge i provvedimenti giurisdizionale, oltreché prevedere l’impugnazione per violazione di legge per Cassazione.

Alla luce di quanto esposto se per un verso è possibile affermare che il valore “copernicano” dell’art.111 Cost. si estende, senza problematicità, anche dal rito tributario; per altro, invece, risulta oltremodo necessario mettere in evidenza le peculiarità del giudizio in oggetto, rilevando la non perfetta sovrapposizione con il principio in esame.

Ne è una dimostrazione quanto segue.

La locuzione “ragionevole durata del processo”, ad esempio, ha sollevato notevoli punti di frizione in rapporto alla condizione di una delle parti processuali e, di riflesso, rispetto alle istanze di risarcimento dell’altra. Invero, si potrebbe sostenere che il principio della “ragionevole durata del processo” possa applicarsi anche al rito tributario, in ragione del fatto che (come s’è anticipato) trovano applicazione gli stessi principi valevoli nel rito ordinario; sennonché la stessa Corte di Strasburgo ha affermato, con sentenza del 12 luglio (nota come caso Ferrazzini), l’impossibilità di applicare tale principio alle controversie di natura fiscale. Più nel dettaglio, prevalendo in questa tipologia di contenzioso la natura pubblica del rapporto, in ragione della particolare condizione di una delle parti necessarie (ovvero L’Amministrazione finanziaria), risulta difficile (se non del tutto erroneo) parlare di totale aderenza rispetto ai principi del rito ordinario. Tale impostazione, conclude la Corte, determina “un’esclusione a priori dei diritti ed obblighi di natura civile[9] dalla sfera tributaria dato che la relazione che si instaura tra contribuente e Fisco, ricade, appunto, nel nocciolo duro delle prerogative del potere di imperio”.

Contrassegnano, di contro, e senza ostruzionismi interpretativi, il processo tributario i seguenti principi:

  • il principio dispositivo: il quale vincola il giudice tributario a pronunciarsi nei limiti del contenuto della domanda posta in essere dalle parti, secondo la formula che impone la “corrispondenza tra chiesto e pronunciato”.
  • Il principio dell’impulso d’ufficio: in forza del quale i poteri istruttori del giudice tributario trovano enunciazione all’interno delle disposizioni generali contenute all’art. 7, D.lgs. n.546/1992. Si precisa che le facoltà declinate all’interno della disposizione sono attribuite al giudice “ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti”. Di conseguenza, i poteri integrativi sopracitati potranno essere esercitati solo nelle ipotesi in cui la carenza probatoria, non imputabile alla negligenza delle parti, debba essere necessariamente colmata per addivenire ad una decisione[10].
  • Il principio di concentrazione e di collegialità della trattazione: che contribuisce a segnare la distanza rispetto al rito ordinario, posto che il rito tributario risulta carente della separazione tra fase istruttoria e fase decisionale[11].
  • Il principio di documentalità: il quale conferisce ai documenti una posizione privilegiata rispetto agli altri strumenti probatori. L’operatività di questo principio, tuttavia, non deve indurre a pensare che l’oralità all’interno di questo rito sia inesistente. Essa, semplicemente, è solo ridotta, in ragione della natura e delle peculiarità di questo rito.

Strumenti deflattivi: la crisi del principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria?

Il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria può trovare una sua definizione nella “non attitudine di un diritto a subire atti di disposizione, in conseguenza della sua natura o di una espressa previsione legislativa”[12].

Partendo da questo enunciato, circoscrivendo l’ambito di applicazione alla tematica tributaria, risulta che il titolare del diritto di credito, ossia l’Amministrazione finanziaria, non possa disporre arbitrariamente di questo diritto, posto che lo stesso è inserito all’interno di una “cornice” che si cura di interessi generali, non riconducibili alla mera sfera privatistica.

Tuttavia, per comprendere la portata del principio in esame, è opportuno esaminare alcuni principi costituzionali, i quali sinergicamente cooperano nella determinazione del significato da attribuire alla indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

In primo luogo, si menziona il principio di riserva di legge ex art. 23 Cost, alla lettera del quale “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”. L’essenza di questo principio evidenzia come la disciplina tributaria sia oggetto esclusivo della potestà legislativa, con ciò sottraendo in capo all’Amministrazione finanziaria qualunque facoltà di disporne.

Pari collocazione costituzionale, inoltre, è riconosciuta al principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost, in base al quale “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. In forza di questo principio, il legislatore (non l’Amministrazione), bilancia l’imposizione erariale con la capacità contributiva facendo in modo che la pretesa erariale, per ogni soggetto passivo risulti calibrata con la propria capacità di generare ricchezza.

Infine, denominatore comune dei principi sopraelencati è l’art. 3 che custodendo in sé la bipartizione tra uguaglianza formale e sostanziale, obbliga l’Amministrazione a trattare in modo uguale situazioni uguali ed in modo differente situazioni dissimili.

Sulla scorta di quanto argomentato, emerge che il fine preminente del legislatore fosse quello di rendere inefficace ogni (eventuale) slancio arbitrario dell’Amministrazione finanziaria diretto modificare, motu proprio, non solo le procedure di riscossione, ma anche l’oggetto della pretesa erariale. Detto in altri termini, l’obbligazione tributaria sorge ogni qualvolta si realizzano i presupposti che il legislatore ha espressamente considerato. Di conseguenza, l’indisponibilità dell’obbligazione tributaria si traduce, ad esempio, nell’impossibilità, per l’Amministrazione finanziaria, di accordare esenzioni o agevolazioni (o peggio, modificare l’imposizione in forza di un accordo negoziale costituito con il contribuente), se non per dare esecuzione ad un dispositivo specifico.

Ma se così è, come si concilia l’indisponibilità con gli strumenti deflattivi?

Effettivamente, in forza di una visione approssimativa, gli strumenti in oggetto, potrebbero entrare in contrasto con il principio di cui sopra, considerata la loro natura transattiva-negoziale.

Per risolvere la questione, allora, occorre domandarsi se davvero ci si trovi nell’ambito dell’art. 1966 c.c. e dunque, se si tratti “concretamente” di diritti di cui le parti possono disporre liberamente per transigere.

Così, a ben guardare, la risposta non può che essere negativa.

Invero, strumenti quali reclamo-mediazione e conciliazione (fuori e dentro l’udienza) non subordinano la loro ragion d’essere alla facoltà contrattuale civilmente intesa, in primo luogo perché i soggetti in esame non si trovano in posizione di parità e, in secondo luogo, perché l’Ufficio (come spiegato precedentemente) non può disporre liberamente del diritto di credito vantato nei confronti del contribuente.

Per tale ragione, ogni qualvolta ci si accosti a questa tipologia di istituti, si deve abbandonare l’idea di un rapporto negoziale che sorge tra Amministrazione finanziaria e contribuente, perché dall’individuazione dei presupposti del tributo fino ad arrivare alla quantificazione/riduzione delle relative sanzioni, non si farà altro che percorrere rigorosamente il sentiero già tracciato dal legislatore, all’interno del quale non esiste margine alcuno per l’esercizio dell’autonomia contrattuale[13].

Il reclamo e la mediazione

Il legislatore, per mezzo delle modifiche apportate con la L. n.130/2022, è nuovamente intervenuto per affinare la disciplina concernente l’utilizzo degli strumenti deflattivi, in species reclamo-mediazione, nella dialettica tra Amministrazione e contribuente.

Quest’ultimo approdo legislativo, infatti, si inserisce all’interno di un iter normativo pregresso (si pensi all’art. 17-bis del D.lgs. n. 546/1992, introdotto dall’art. 9, comma 9 del D.l. n.98/2011, successivamente modificato dall’art. 9 del D.lgs. n. 516/2015 e da ultimo dall’art. 10 del D.l. n.50/2017) che esprime, in maniera limpida, il  fine del legislatore, ossia dotare i soggetti coinvolti di strumenti funzionali ad anticipare la risoluzione della controversia; altresì, collocando l’intervento del giudice tributario in una fase successiva e circoscritta alla mancata risoluzione della controversia, oppure alla mancata fruizione degli strumenti in esame.

Sulla scorta di quanto premesso, il presente elaborato procede lungo la disamina degli istituti deflattivi del reclamo e della mediazione.

L’art. 17-bis del D.lgs. n. 546/2017 non lascia alcun dubbio sul fatto che reclamo e ricorso debbano coincidere (sia nella forma che nella sostanza), non fosse altro che per il dato testuale della disposizione che, in apertura, recita “il ricorso produce anche gli effetti del reclamo”[14].

Questa analogia fa sì che gli elementi essenziali del ricorso debbano trovare manifestazione già all’interno del reclamo, giustificando, in caso di assenza, l’inammissibilità dell’atto proposto.

Nello specifico, a norma del secondo comma dell’art. 18 del D. lgs. n.546/1992: “Il ricorso deve contenere l’indicazione: a) della commissione (oggi Corte di giustizia tributaria) cui è diretto; b) del ricorrente e del suo legale rappresentante, della relativa residenza o sede legale o del domicilio eventualmente eletto nel territorio dello Stato, nonché del codice fiscale e dell’indirizzo di posta elettronica certificata; c) dell’ufficio nei cui confronti il ricorso è proposto; d) dell’atto impugnato e dell’oggetto della domanda; e) dei motivi”.

Ancora, proseguendo l’analisi dell’art. 18, il quarto comma dispone che “Il ricorso è inammissibile se manca o è assolutamente incerta una delle indicazioni di cui al comma 2, ad eccezione di quella relativa al codice fiscale e all’indirizzo di posta elettronica certificata, o non è sottoscritta a norma del comma precedente”.

Per attenuare la rigidità delle conseguenze previste dal precetto sopraesposto, nell’ipotesi in cui manchi uno dei requisiti indefettibili del ricorso, la dottrina prima e la giurisprudenza dopo hanno avanzato una soluzione più “elastica”, addivenendo ad escludere l’inammissibilità del reclamo/ricorso quando vi sia modo di accertare la sostanziale regolarità dell’atto e l’osservanza delle regole processuali. La bontà della risoluzione avanzata, poi, ha trovato accoglimento nella pronuncia n. 21170/2005 della Cassazione, attraverso la quale il Collegio ha stabilito che “l’irregolarità…resta sanata ogniqualvolta debba ritenersi raggiunto lo scopo del meccanismo processuale”[15].

Entrando nel merito degli elementi ritenuti essenziali del reclamo/ricorso, si torna al secondo comma dell’art. 18 D.lgs. n. 546/1992 e al requisito (tassativo) che si sostanzia nell’indicazione della Commissione tributaria a cui il soggetto passivo presenta istanza. In merito si precisa che determinerà l’inammissibilità del reclamo/ricorso solo l’omissione in toto dell’indicazione del giudice tributario; con la conseguenza che l’eventuale dichiarazione di incompetenza della Commissione individuata, determinerà, semplicemente, “la possibilità di riassumere il giudizio innanzi alla Commissione tributaria indicata come competente[16]”, senza determinare dunque ripercussioni nefaste sull’atto.

Il secondo requisito indifferibile sia del reclamo che del ricorso, è costituito dall’indicazione del ricorrente e del suo legale rappresentante. Sul punto il comma 7, dell’art. 12 del D.lgs. n. 546/1992 parla di “conferimento d’incarico” e non di procura ad litem secondo quanto previsto nel rito civile. Tuttavia, nel rito tributario, è pacificamente riconosciuta la sinonimia tra i due termini con la previsione, in aderenza a quanto disposto nel rito ordinario, che il conferimento dell’incarico possa distinguersi in generale e speciale.

La puntuale e attenta definizione dell’oggetto della domanda rappresenta il terzo elemento essenziale del reclamo/ricorso. Il petitum espresso in termini chiari e precisi, infatti, oltre ad assurgere ad elemento fondamentale dell’atto, rappresenta una considerevole occasione per far sì che si ottenga una pronuncia giudiziale favorevole; e ciò, in considerazione del fatto che l’oggetto del reclamo possiede proprio la funzione di circoscrivere il contesto (argomentativo) entro cui si svolgerà l’eventuale giudizio. Inoltre, proprio la necessità di una puntuale perimetrazione del petitum, considerati gli effetti che dallo stesso scaturiscono, ha indotto gli interpreti a prevedere l’inammissibilità del reclamo/ricorso tutte le volte in cui la domanda sia non solo assente, bensì anche solo incerta[17].

Infine, rende inammissibile il reclamo l’assenza dei motivi della domanda, anch’essi tesi a delimitare l’ambito cognitivo e di accertamento del giudice, nel solco di quanto tracciato del principio della “corrispondenza tra chiesto e domandato”. Come per il ricorso, anche per il reclamo, il contribuente è chiamato ad indicare tutti i motivi e le deduzioni che ritiene fondamentali sia in sede di reclamo che, eventualmente, in sede di istaurazione del contenzioso; il legislatore, infatti, non consente d proporre istanze di reclamo prive di motivazioni o con motivazioni oggettivamente carenti, che non consentono all’Ufficio di riesaminare correttamente l’atto oggetto di impugnazione. Resta salva, secondo quanto stabilito all’art 24 D.lgs. n. 546/1992, “l’integrazione dei motivi di ricorso, resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle parti o per ordine della commissione”.

Da ultimo, gli esiti della procedura di reclamo potranno consolidarsi in tre distinte direzioni.

In primo luogo, si avrà il raggiungimento dell’epilogo di maggior favore per il contribuente, se l’istanza contenuta nel reclamo verrà accolta nella sua totalità. Diversamente, nella seconda ipotesi si potrà avere un accoglimento parziale del reclamo ed infine, nella terza eventualità, il contribuente potrà essere travolto dagli effetti negativi del rigetto (o del silenzio) da parte dell’Ufficio. Ne deriva che, a fronte dei negativi esisti sopradescritti, l’ordinamento riconosce in capo al contribuente la facoltà di costituirsi in giudizio, istaurando la lite innanzi alla Commissione tributaria provinciale competente (oggi, Corte di giustizia di primo grado).

Esaminate le peculiarità che interessano il reclamo, si passa in rassegna il valore deflattivo della mediazione, partendo dal dato testuale inserito all’interno dell’art. 17-bis del D.lgs. n. 56471992 che riconosce al contribuente, per le controversie di valore non superiore a cinquantamila euro, la facoltà di proporre la rideterminazione dell’ammontare della pretesa.

L’istituto deflattivo disciplinato all’art. 17-bis non rappresenta un unicum nel panorama ordinamentale nazionale, coesistendo in esso anche la mediazione civile[18], la quale, quanto meno per le finalità perseguite, presenta punti di contatto con la mediazione tributaria. Difatti, così come la mediazione civile cerca di raccordare posizioni antagoniste, allo stesso modo, il fine della mediazione tributaria si sostanzia nella ricerca di punto “paretiano” tra la pretesa erariale dell’Amministrazione finanziaria e le esigenze del contribuente. Di contro, l’elemento che funge da spartiacque e che esclude qualunque commistione tra i due istituti, è costituito dall’assenza (nel rito tributario) della terzietà del soggetto che conduce la mediazione tra le parti. Invero, nella fase di proposizione del reclamo, l’eventuale proposta di mediazione sarà verificata sì da un organo “diverso ed autonomo” (rispetto a quello che ha emanato l’atto impugnato), che tuttavia è parte integrante della stessa Amministrazione finanziaria (quasi fosse l’oggettivizzazione di un’endiadi). L’assenza di una figura terza ed indipendente, inoltre, viene spiegata dall’Agenzia delle Entrate come esercizio di un potere prettamente amministrativo, sulla scorta del quale “in campo tributario l’istituto del reclamo/mediazione di configura maggiormente come espressione dell’esercizio di un potere di autotutela”[19].

Alla luce di quanto fin qui esposto, è necessario comprendere in che modo l’Ufficio procede alla valutazione della proposta di mediazione.

Ora, a sostegno dell’Ufficio interviene il comma 8 dell’art. 17-bis, che individua i presupposti per la mediazione stabilendo che “L’organo destinatario […] formula d’ufficio una proposta di mediazione avuto riguardo all’eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità dell’azione amministrativa[20].

Effettuate, con dovizia di particolari, le valutazioni di cui sopra ed appurato che sussistono margini per giungere ad un accordo, l’ufficio si troverà davanti a plurime opzioni, ovvero:

  • se il contribuente, congiuntamente al reclamo, aveva già formulato una proposta di mediazione completa anche della rideterminazione dell’ammontare della pretesa, l’ufficio lo può invitare a sottoscrivere l’accordo medesimo;
  • se il contribuente non aveva allegato una proposta di mediazione, l’ufficio può comunicare una propria proposta motivata;
  • inoltre, l’ufficio può invitare il contribuente al contraddittorio nel caso in cui non reputi possibile o opportuno formulare immediatamente una proposta. In questa fase il contribuente potrà partecipare personalmente o conferendo procura al proprio difensore; egli potrà, altresì, non presentarsi, sicché verrà annotata la mancata comparizione. Infine, si precisa che all’esito di questa procedura dovrà essere redatto apposito verbale, poi doverosamente sottoscritto dal contribuente, dal suo difensore e dal funzionario incaricato del contraddittorio.

Da ultimo, si puntualizza che l’accordo di mediazione si conclude al momento della sottoscrizione delle parti di un atto contenente: l’indicazione degli importi dovuti (tributo, interessi, sanzioni) e le modalità con cui procedere al versamento. Diversamente, la procedura di mediazione si perfeziona con il versamento dell’intero importo dovuto, o della prima rata in caso di pagamento rateale.

Si conclude, evidenziando che a seguito del perfezionamento dell’accordo, la pretesa tributaria (così come rideterminata) non è più contestabile, dunque l’accordo non sarà più impugnabile.

L’esposizione a responsabilità amministrativo-contabile del funzionario: disamina del neo-introdotto comma 9-bis con L. n.130/2022

Ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. e) L. n. 130/2022, l’art.17-bis è stato integrato con il comma 9-bis che, testualmente, recita: “In caso di rigetto del reclamo o di mancato accoglimento della proposta di mediazione formulata ai sensi del comma 5, la soccombenza di una delle parti, in accoglimento delle ragioni già espresse in sede di reclamo o mediazione, comporta, per la parte soccombente, la condanna al pagamento delle relative spese di giudizio. Tale condanna può rilevare ai fini dell’eventuale responsabilità amministrativa del funzionario che ha immotivatamente rigettato il reclamo o non accolto la proposta di mediazione”.

Si stabilisce, dunque, la possibile imputazione di responsabilità in capo al funzionario che, immotivatamente, rigetta il reclamo o rifiuta la proposta di mediazione.

Procedendo con ordine, allora, occorre, in primo luogo, capire a che tipologia di responsabilità si riferisce il comma sopra richiamato.

La risposta non può che rievocare il genus della responsabilità del pubblico dipendente, per poi riferirsi, in species, alla responsabilità amministrativo-contabile gravante sul medesimo.

La responsabilità del pubblico dipendente è disciplinata dall’art. 28 Cost. a mente del quale i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili ed amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi, prosegue il dettato costituzionale, la responsabilità si estende allo Stato e agli enti pubblici.

Appare evidente che si tratta di una responsabilità diretta e solidale, in forza della quale il terzo danneggiato ha facoltà di agire in via risarcitoria sia nei confronti del dipendente pubblico (che ha cagionato in concreto il danno ingiusto), sia nei confronti della pubblica amministrazione a cui il medesimo appartiene e a cui è strettamente legato in ragione del rapporto di immedesimazione organica che intercorre con la P.A. Quest’ultima, a sua volta, in un secondo momento, potrà rivalersi nei confronti dell’autore dell’illecito, incardinando un giudizio dinnanzi alla Corte dei Conti.

Il suddetto impianto è stato cristallizzato, altresì, in sede di legislazione ordinaria, negli artt. 22 e 23 del D.P.R. n. 3/1957 (Testo Unico Impiegati Civili dello Stato) secondo i quali l’obbligo risarcitorio, in capo al dipendente, sorge solo nell’eventualità in cui egli abbia arrecato il danno con dolo o colpa grave. Ne deriva che nell’ipotesi di colpa lieve, l’azione potrà essere esperita solo nei confronti della P.A. Si specifica, infine, che hai fini dell’imputazione della responsabilità non rileva necessariamente la finalità perseguita da parte del pubblico dipendente, né che sia sussistente un rapporto di impiego formalmente detto, considerato che sarà sufficiente che il soggetto agente abbia svolto una funzione pubblica tipica dell’amministrazione a cui appartiene[21].

Tanto doverosamente premesso, si passa in rassegna la responsabilità amministrativo-contabile.

Nel momento in cui, il dipendente, nell’inosservanza dolosa o gravemente colposa dei doveri di servizio, cagiona un pregiudizio alla P.A. di appartenenza, si configura un’ipotesi di responsabilità amministrativa definibile come danno erariale. Sottocategoria di quest’ultima voce di danno, invece, è il cd. danno contabile, che si configura solo nelle ipotesi in cui il dipendente è adibito alla mansione specifica del maneggio di denaro pubblico.

Questa peculiare forma di responsabilità, successivamente, ha trovato compiuta disciplina nel D.lgs. n. 174/2016, ossia nel Codice di giustizia contabile[22].

Passando ai tratti salienti della responsabilità erariale, si può osservare quanto segue.

Secondo l’art. 1 della L. n. 20/1994[23], la responsabilità amministrativa è personale, limitata a fatti od omissioni commessi con dolo o colpa grave. Ancora, i presupposti costitutivi della responsabilità in oggetto, che è devoluta alla giurisdizione della Corte dei Conti, sono:

  • la sussistenza di un vincolo funzionale tra P.A. e dipendente che arrecato il danno ingiusto;
  • imputabilità a titolo di dolo, colpa grave;
  • la sussistenza del pregiudizio economico subito dall’ente;
  • nesso di causalità da rinvenire tra la condotta del dipendente e il danno erariale realizzato.

È importante precisare che il danno erariale inferto alla P.A. non si riconduce solo alla perdita materiale oggettivamente intesa (il danno economico), ma anche alla perdita immateriale, eventualmente, connessa alla prima (come la perdita del prestigio dell’Amministrazione).

Infine, si rammenta che la responsabilità amministrativa e la responsabilità civile del dipendente rappresentano due strade alternative (ma distinte) per ottenere il risarcimento. Invero, come precisato dalle Sezioni Unite[24], l’azione proponibile dal Procuratore contabile non si indentifica con quella che l’Amministrazione può autonomamente esperire contro l’autore del danno, essendo notevole l’essenza distintiva dei due giudizi. Nello specifico, nel giudizio contabile, il Procuratore contabile non agisce quale rappresentante dell’Amministrazione danneggiata, bensì quale portatore di interessi pubblici (tra i quali capeggiano il buon andamento della P.A. ed il corretto impiego delle risorse pubbliche); di contro, nel giudizio civile, l’Amministrazione agisce per ottenere il pieno ristoro rispetto al danno subito, agendo a protezione di un interesse particolare, ossia il suo[25].

Brevi considerazioni conclusive

Il restyling operato al sistema tributario, ancora una volta parziale e non organico, se per un verso, manifesta l’attualità della “questione tributaria”, per altro, evidenzia l’impiego di strumenti inadatti anche a fronte delle più nobili intenzioni del legislatore.

Le perplessità, declinate in forma quanto più sintetica possibile, involgono almeno quattro macro-interrogativi.

La prima questione, attiene il sentiero “quasi obbligato” che il contribuente è chiamato a percorrere, una volta sollevata l’illegittimità dell’atto impositivo, attivando strumenti che perseguono (per natura) obiettivi differenti. Come noto, mentre il reclamo mira a far valere un vizio dell’atto, la mediazione, invece, tende alla risoluzione della controversia attraverso il meccanismo proposta/accettazione di un accordo. Se così è, rimane da chiedersi perché il contribuente, che parte per eccepire l’illegittimità dell’atto, presentando reclamo, debba essere messo nella condizione di smentire sé stesso proponendo, con la stessa azione, proposta di mediazione che, in quanto accordo, non fa che restituire valenza all’atto impugnato?

La seconda vicenda, riguarda il problema mai risolto della sostanziale/effettiva terzietà del soggetto che conduce la mediazione tributaria. La disposizione garantisce, al comma 4 dell’art. 17-bis, che provvederanno alla mediazione “apposite struttura diverse ed autonome” rispetto a quelle che hanno curato l’istruttoria dell’atto impositivo, ma dov’è la terzietà se gli uffici fanno capo alla medesima Amministrazione che ha emesso l’atto?

Il terzo problema, attiene proprio il tema della responsabilità amministrativo-contabile del funzionario. Difatti, l’assenza di chiarezza riferita agli elementi soggettivi dell’illecito (il funzionario risponde per dolo, colpa grave o colpa lieve?) ed il timore che anche l’errore possa fungere da presupposto per l’addebito di una responsabilità tanto gravosa, quale è quella amministrativo-contabile, rischia di riproporre lo scenario antecedente alla modifica del reato d’abuso d’ufficio ex 323 c.p. Nel dettaglio, andando aldilà dell’ opinione di chi scrive (secondo la quale, per riordinare un sistema, risultano inefficaci sia la bulimia normativa che l’isterismo da “caccia alle streghe”), è verosimile che si ritorni alla riesumazione della spiacevole prassi “della burocrazia difensiva”, in ragione del fatto che il funzionario, per timore d’esporsi ed essere coinvolto in procedimenti giudiziari, possa decidere d’astenersi tout court dall’invio dell’accertamento, precludendo all’Amministrazione di svolgere in modo analitico la sua funzione accertativo-impositiva e ledendo il principio generale di buon andamento dell’attività amministrativa.

A ciò si aggiunge che, se occorreva rendere espressa la formale/puntuale attenzione che il funzionario doveva riservare al reclamo-mediazione, forse, sarebbe bastato modificare il predicato presente al quinto comma dell’art. 17-bis, operando una variazione (da “formula” a “deve formulare”) che, verosimilmente, avrebbe contribuito ad arginare l’ipertrofia normativa in materia tributaria.

Concludendo, come quarto ed ultimo dilemma, non si comprende perché il richiamo alla possibile responsabilità del funzionario, involga solo reclamo-mediazione e non la conciliazione, se è vero (come è vero) che anche la stessa, risulta inserita nel novero degli strumenti deflattivi tesi a rendere meno conflittuale il dialogo tra soggetti le cui istanza, da sempre, risultano agli antipodi.


[1] Legge 31 agosto 2022, n. 130 recante “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari”. Tra le novità entrate in vigore a far data dal 16 settembre 2022, si segnalano: il mutamento di denominazione delle Commissioni tributarie provinciali-regionali che diventano “Corti di giustizia tributaria di primo grado” e “Corti di giustizia tributaria di secondo grado”; la giurisdizione tributaria verrà esercitata dai nuovi magistrati a tempo pieno, reclutati mediante procedura concorsuale; nel reclamo-mediazione la condanna al pagamento delle spese processuali rileva ai fini della responsabilità amministrativa del funzionario che “immotivatamente” abbia rigettato il reclamo o rifiutato la proposta di mediazione; viene introdotto il comma 5-bis all’interno dell’art.7 secondo cui il giudice, chiamato a fondare la decisione sugli elementi di prova che emergono in giudizio, procede all’annullamento dell’atto impositivo se manca la prova della sua fondatezza o la prova della sua fondatezza risulti contraddittoria o comunque insufficiente a dimostrare le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni; si riformula la sospensione dell’atto impugnato nel senso che l’udienza cautelare viene fissata nei trenta giorni successivi al relativo deposito, e non più entro la prima camera di consiglio utile; si riconosce in capo al giudice la facoltà di ammettere la prova testimoniale in forma scritta, se ritenuta necessaria a i fini della decisione ed anche senza accordo delle parti; per le controversie aventi un valore non superiore ad euro 50.000, assoggettate agli strumenti deflattivi del reclamo-mediazione, si riconosce in capo al giudice la possibilità di formulare una proposta conciliativa alle parti, la quale si perfeziona con la redazione del processo verbale che determina, a sua volta, l’estinzione del giudizio  per cessata materia del contendere; in relazione alle spese di giudizio da imputare alla parte soccombente si prevede una maggiorazione del 50% qualora una delle parti ovvero il giudice, abbia formulato una proposta conciliativa, non accettata dalla controparte senza giustificato motivo; infine, si prevede una definizione agevolata dei giudizi pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione di valore non superiore ad euro 50.000 oppure ad euro 100.000 (a seconda dell’esito dei giudizi precedenti); definizione, che si perfeziona con la tempestiva presentazione della domanda da parte dei soggetti legittimati e con il pagamento degli importi dovuti (in mancanza di importi da versare, la definizione si perfeziona con la sola presentazione della domanda).

[2] In ambito tributario, al ricorso per Cassazione e al relativo procedimento si applica, se compatibile, quanto disposto nel codice di rito civile. Per l’analisi della disciplina, si consultino rispettivamente gli artt: 62-62 -bis, 63, D.lgs. n. 546/1992.

[3] Art. 15, comma 1, D.lgs. n.546/1992: “La parte soccombente è condannata a rimborsare le spese di giudizio che sono liquidate con la sentenza”.

[4] In relazione alla natura giurisdizionale e non amministrativa delle ex Commissioni tributarie provinciali/regionali, cfr. Corte Cost. 27 dicembre 1974, n.287.

[5] D. STEVANATO, Introduzione al processo tributario, Padova, 2015: “Invero, l’impugnazione dell’atto impositivo costituisce il veicolo attraverso il quale il giudice tributario entra nel merito del rapporto tributario e si pronuncia sullo stesso. Ovviamente, occorre distinguere a seconda che l’atto risulti essere affetto da vizi formali o sostanziali. Nel primo caso, infatti, la cognizione del giudice non si estende al rapporto d’imposta ma si arresta al giudizio sull’atto. Nel secondo caso, invece, il giudice non può limitarsi all’annullamento dell’atto impugnato ma deve esaminare nel merito la pretesa erariale ed effettuare una propria motivata valutazione sostitutiva sulla base degli elementi in atti e sempre entro i limiti posti dalle domande di parte”.

[6] Cfr., ex multis, Corte di Cass. 24 settembre 2014, n. 20052; Corte di Cass. 9 ottobre 2013, n. 22937; Corte Cass. 25 giugno 2014, n.14421.

[7] Corte Cass. 24 settembre 2014, n. 20052.

[8] Art. 6, par. 1-Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo- “Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta”.

[9] Tra i quali certamente si annovera il diritto di chiedere il risarcimento conseguente al protrarsi della lite ex art. 6, par. 1, CEDU.

[10] A conferma di questo orientamento, si cfr. Corte di Cass. 4 maggio 2004, n.8439.

[11] Nel rito civile le parti possono eventualmente costituirsi tardivamente fino alla prima udienza di comparizione ex art. 171, comma 2, c.p.c. inoltre, le attività istruttorie riconosciute loro proseguono per tutta la durata del processo, o meglio, fino al deposito delle memorie istruttorie e fatte salve le preclusioni di legge. Ancora, sempre nel rito civile, trova riconoscimento l’istituto della contumacia dell’attore. Diversamente, nel rito tributario, la costituzione in giudizio del ricorrente non soltanto deve avvenire anteriormente alla prima udienza, ma deve essere effettuata a pena di inammissibilità del ricorso “entro il termine perentorio di 30 giorni dalla proposizione del ricorso”, ex art. 22, D.lgs. n. 546/1992. A ciò di aggiunge, sempre nel giudizio tributario, che la mancata costituzione del ricorrente preclude ogni azione al resistente; di contro, nei casi in cui si perfeziona la costituzione del primo, la costituzione del resistente si perfeziona “entro 60 giorni dal giorno in cui il ricorso è stato notificato”, attraverso il deposito del proprio fascicolo presso la segreteria della Corte di giustizia tributaria. Infine, per entrambi, è fatta salva la possibilità di procedere all’integrazione dei motivi del ricorso, quando la medesima è “resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della Commissione”, ex art 24, comma 2, D.lgs. n. 546/1992.

[12] Cfr. S. PUGLIATTI, L’atto di disposizione e il trasferimento dei diritti, in Diritto Civile, Metodo-Teoria-Pratica, Milano, 1951.

[13] Ad integrazione di quanto espresso, e per maggiori approfondimenti, si riporta una parte del parere, n. 140/2018, reso dalla Corte dei Conti sezione regionale Lombardia, alla lettera del quale: “Secondo l’impostazione dottrinale e giurisprudenziale  tradizionale, nel nostro ordinamento, vige il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in primo luogo quale corollario del principio di legalità, in connessione quindi alla natura vincolata dell’azione amministrativa in materia tributaria. Tale assunto si fonda sull’articolo 23 della Costituzione, secondo il quale nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge. Pertanto, secondo questa impostazione, la necessaria previsione dell’obbligazione tributaria in disposizioni imperative, vincolanti sia per i soggetti passivi del tributo che per l’Ente impositore, comporta il necessario esercizio, da parte di quest’ultimo, dei poteri conferitigli, senza esercizio alcuno di discrezionalità.”

[14] Art. 17-bis, comma 1, D.lgs. n. 546/1992: “Per e controversie di valore non superiore a cinquantamila euro, il ricorso produce anche gli effetti di un reclamo e può contenere una proposta di mediazione con rideterminazione dell’ammontare della pretesa. Il valore di cui al periodo precedente è determinato secondo le disposizioni di cui all’articolo 12, comma 2. Le controversie di valore indeterminabile non sono reclamabili, ad eccezione di quelle di cui all’articolo 2, comma 2, primo periodo”.

[15] Corte Cass. 31 ottobre 2005, n. 21170: “Le previsioni di inammissibilità, proprio per il loro rigore sanzionatorio, devono essere interpretate in senso restrittivo, limitandone  cioè l’operatività ai soli casi nei quali il rigore estremo è davvero giustificato; ciò anche tenendo presente l’insegnamento fornito dalla Corte Costituzionale, con particolare riguardo al processo tributario,  secondo il quale le disposizioni processuali tributarie devono essere lette in armonia con i valori della «tutela delle parti in posizione di parità», evitando irragionevoli sanzioni di inammissibilità”.

[16] S. D’ANDREA, Manuale del processo tributario, Pisa, 2020.

[17]In merito si riporta la sentenza della CTR per la Liguria del 24 marzo 2021, n. 248, dove di afferma che “L’assoluta incertezza sugli elementi costitutivi dell’atto impugnato rende il ricorso inammissibile”. A conclusione è pervenuta la CTR ligure recependo, in totalità, quanto deciso dalla CTP. Invero quest’ultima aveva precedentemente dichiarato l’inammissibilità del ricorso sulla scorta di ripetuti errori materiali che inficiavano la chiarezza dell’atto. Bene, nel caso di specie, risultava impossibile individuare il petitum a causa dei numerosi contenziosi pendenti in ordine alle questioni dedotte, ed essendo ipotizzabili ben tre iniziative processuali.

[18] D.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 “Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali (10G0050).

[19] Agenzia delle Entrate, circ. 38/E del 29 dicembre 2015.

[20] D. STEVANATO, op.cit. “In sede di valutazione l’ufficio dovrà considerare il rating della controversia: l’Agenzia delle Entrate dovrà infatti elaborare una scheda di valutazione di sostenibilità della pretesa, denominato “mediarating”, con cui sarà determinato il grado di probabilità della soccombenza – in alternativa di vittoria- basandosi sul grado di sostenibilità della prova in giudizio e sulla fondatezza degli elementi addotti dall’istante. Tale calcolo preventivo permetterà di ottenere una verosimile previsione circa l’eventuale sentenza di primo grado e in tal modo indirizzerà gli uffici a seguire il percorso più conveniente”.

[21] Tale ricostruzione è confluita nella sentenza n. 13246 del 2019, resa a Sezioni Unite dalla Corte di Cassazione. Nel dettaglio, la pronuncia in oggetto ha rivoluzionato il sistema della responsabilità della P.A. tracciando un regime cd. “a doppio binario”, all’interno del quale coesistono due forme di responsabilità che differiscono in base alla finalità perseguita dal dipendente. Così, si avrà responsabilità diretta della P.A. ex art. 2043 c.c. laddove vi sia un interesse istituzionale ed un rapporto di immedesimazione organica tra P.A. e dipendente; di contro, nelle ipotesi in cui l’agente sia sospinto da un interesse strettamente personale, la P.A. di appartenenza sarà chiamata a rispondere a titolo di responsabilità indiretta ex art. 2049 c.c.

[22] Decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124.

[23] Legge 14 gennaio 1994, n. 20 Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei Conti.

[24] Cass. SS. UU. 19 febbraio 2019, n. 4883.

[25] Cass. SS. UU. 1aprile 2020, n. 7645: “La responsabilità per danno erariale tutela l’interesse pubblico generale al buon andamento della p.a., mentre la responsabilità civile proposta dalla singola amministrazione tende infatti al pieno ristoro del danno, in funzione riparatoria e compensativa”.

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