La norma di riferimento dell’impresa familiare è l’art. 230 bis del codice civile. Essa costituisce una delle più significative novità introdotte con la riforma del diritto di famiglia del 1975. In principio, la disciplina era stata ideata dal legislatore, tenuto conto del clima culturale e politico del diritto di famiglia, per una rivalutazione del ruolo della donna che contribuiva attivamente nell’interesse della famiglia e dell’impresa.[1]
L’art. 230 bis c.c. si applica ove non sia configurabile un diverso rapporto. Dunque, l’istituto ha natura residuale e suppletiva, ed è finalizzato a creare un tessuto di tutele per il lavoratore, il quale potrebbe essere oggetto di sfruttamento nell’ambito della comunità familiare.[2]
La norma, di natura imperativa,[3] non ammette schemi peggiorativi della condizione del familiare.[4]
Il rapporto d’impresa familiare: elementi costitutivi
Gli elementi costitutivi del rapporto d’impresa familiare sono i seguenti: il vincolo familiare e la prestazione di lavoro. La fonte del rapporto di lavoro, pertanto, va individuata “in un fatto giuridico, vale a dire nella concreta esecuzione della prestazione di lavoro”.[6] L’attività lavorativa deve rivestire carattere di continuità, concetto strettamente legato a quello della prevalenza dell’attività lavorativa del familiare.[7] Giurisprudenza consolidata sulla ratio dell’indice della prevalenza dell’attività lavorativa del familiare, in antitesi con altra valutazione di legittimità, ritiene che il carattere di prevalenza non è previsto dalla norma. Esso, dunque, non può trovare applicazione sul piano esegetico, sicché – se così fosse – limiterebbe fortemente l’applicazione dell’istituto dell’impresa familiare.[8]
Il vincolo familiare deve sussistere e perdurare durante tutto il rapporto di lavoro. I familiari ammessi a godere dell’istituto in questione sono i seguenti: coniuge, parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo. Essi, come espressamente previsto, sono destinatari di diritti di natura patrimoniale e amministrativa.
I diritti spettanti al collaboratore familiare
I diritti che spettano, tanto per ribadirlo, al collaboratore familiare come sopra individuato, sono sintetizzabili nel seguente schema: diritto al mantenimento; diritto di partecipazione ai risultati d’impresa; diritto di partecipare ai beni acquistati; diritto agli incrementi dell’azienda; diritto a partecipare alle decisioni inerenti all’impiego degli utili e degli incrementi, nonché quelli riferiti alla gestione straordinaria; diritto alle decisioni attinenti alla cessazione dell’impresa.
Procediamo con ordine. Il diritto al mantenimento consiste nella somministrazione di quanto necessario a soddisfare le normali esigenze di vita del collaboratore familiare. Secondo parte della dottrina, le esigenze vanno relazionate non solo a quelle del singolo, ma anche a quelle della propria famiglia.[9]
Gli altri diritti di natura patrimoniale, di converso, vanno riconosciuti in ragione della quantità e della qualità del lavoro prestato da ciascun lavoratore familiare dell’impresa.[10]
I diritti di natura amministrativa devono essere presi a maggioranza dei familiari che partecipano all’impresa stessa. È discusso se l’imprenditore abbia diritto di voto.[11]
Il comma 4 della norma in commento prevede che il diritto di partecipazione non possa essere trasferito, salvo che ciò non avvenga con il consenso di tutti i compartecipi, e abbia luogo nei confronti di altro familiare avente titolo a partecipare all’impresa. Ne consegue che il trasferimento ad altro familiare avente titolo senza preventivo consenso dei compartecipi risulterà essere inefficace.[12]
Eventi particolari nell’impresa familiare
Meritano un cenno, infine, le ipotesi di estinzione dell’impresa, di esclusione del familiare, di trasferimento dell’azienda e di prelazione.
Partendo dall’estinzione d’impresa, è corretto affermare che essa si estingue per un duplice ordine di ragioni. In primis, l’impresa si estingue per fatti indipendenti rispetto alla volontà dell’imprenditore, ovvero per morte o fallimento. Ancora. L’impresa può estinguersi per decisione dell’imprenditore, cui può far seguito un’azione di risarcimento, qualora questi non abbia ottenuto il consenso della maggioranza.[13]
Inoltre, può verificarsi l’ipotesi che il prestatore receda dalla prestazione di lavoro, senza onere di preavviso qualora il predetto recesso sia conseguenza della condotta dell’imprenditore.[14]
Il collaboratore familiare in caso di cessazione, per qualsiasi causa, ha diritto alla liquidazione della sua quota di partecipazione.
In ordine alla prelazione, infine, vediamo come l’interesse del lavoro nell’impresa venga tutelato dalla fattispecie legale di presunzione, enucleata al comma 5, dell’art. 230 bis c.c., secondo la quale “in caso di divisione ereditaria o trasferimento dell’azienda i partecipi di cui al comma 1 (coniuge, parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo) hanno diritto di prelazione”. Si applica, altresì, in quanto compatibile, il disposto di cui all’art. 732 c.c., il quale stabilisce che i coeredi hanno diritto di prelazione sulla eventuale alienazione della quota, o parte di essa, di uno dei coeredi.
[1] Cfr. Giusti, Impresa e società nel regime patrimoniale legale della famiglia, FD 1996; per la giurisprudenza C. 19.11.2008, n. 27475
[2] C. 25.7.1992, n. 8959
[3] Dunque non derogabile ad opera delle parti.
[4] Cfr. C. 23.2.1995, n. 2060; C. 8.4.1981, n. 2012; C. 9.6.1983, n. 3948; C. 26.6.1984, n. 3722
[6] R. Del Punta, F. Scarpelli (a cura di), Codice commentato del lavoro, Wolters Kluwer, I edizione, 2019, pag. 281, cit.
[7] Per approfondimenti si rimanda agli orientamenti della seguente giurisprudenza: T. Roma 5.2.1990, GI 1990,691; P. Forlì 21.12.1994, DF 1995, 678.
[8] Cfr. C. 27.1.200, n. 901; C. 23.9.2002, n. 13849
[9] Cfr. Colussi, Voce Impresa familiare, NsDI-A,IV, Torino, 1980; Di Francia, Il rapporto di impresa familiare, Torino, 1991
[10] Ciò perfettamente in linea con quanto previsto dal comma 1 dell’art. 36 della Costituzione, il quale – pur non determinando una nozione legale di retribuzione – stabilisce che essa deve essere “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. L’art. 36 cella Costituzione deve intendersi riferito al solo lavoro subordinato.
[11] Cfr. Balestra, Origine della norma e derogabilità della relativi disciplina, in La famiglia a cura di Cendon, Padova 2004
[12] Cfr. Di Francia, Il rapporto di impresa familiare, Torino 1991; Balestra, Attività d’impresa e rapporti familiari, Padova 2009
[13] C. 20.6.2003, n. 9897
[14] C. 20.6.2003, n. 9897