Come tutti sappiamo, il problema della concorrenza sleale è vincolato ai limiti di una manchevole disciplina legale, caratterizzata dall’utilizzo di categorie giuridiche molto generiche. Per tale motivazione la questione è stata risolta con un taglio essenzialmente pratico da parte della giurisprudenza di merito che ha tentato di risolvere queste “lacune” attraverso la propria attività interpretativa.
Le condizioni di illiceità dello storno
In primo luogo, si deve considerare che lo storno di dipendenti o altri ausiliari e collaboratori di altra società concorrente non costituisce di per sé una condotta sleale vietata dalla legge. Il proselitismo realizzato dall’imprenditore concorrente che non sia connotato dagli elementi da cui la dottrina e la giurisprudenza variamente traggono la slealtà (e pertanto la illiceità) del comportamento costituisce attività di concorrenza lecita[1]. Infatti, trova spesso eco nelle pronunce dei giudici di legittimità e di merito l’affermazione per cui lo storno (lecito) consiste nell’espressione dei principi della libera circolazione del lavoro (art. 35 Cost.) e della libertà d’iniziativa economica (art. 40 Cost.) essendo interesse del lavoratore, da una parte, quello di migliorare la propria situazione lavorativa (in termini di retribuzione e condizioni di lavoro) ed interesse dell’imprenditore, dall’altra, quello di incrementare il profitto rafforzando la propria posizione concorrenziale sul mercato[2].
In via di principio non è affatto vietato all’imprenditore di ricercare nel mercato il miglior collaboratore, anche sottraendolo al concorrente attraverso una legittima e palese contrattazione facente leva sulla sua retribuzione. Ciò è fisiologico a un mercato concorrenziale[3].
Pertanto, bisogna trovare il giusto equilibrio tra due interessi contrastanti: se da una parte vi è la protezione incondizionata della concorrenza tra le imprese dall’altra rinveniamo il diritto dei lavoratori a cambiare la propria posizione ricercando impieghi più appaganti e remunerativi.
A causa dell’estrema genericità e sinteticità della norma, l’esplicitazione di tali limiti appare tutt’altro che semplice.
La norma di riferimento che disciplina la fattispecie dello storno dei dipendenti è l’art. 2958, n.3, c.c. secondo cui “compie atti di concorrenza sleale chiunque: […] si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.
Dall’interpretazione della disposizione si evince un duplice requisito che deve essere appurato affinché si possa parlare di atto di concorrenza sleale ossia:
- l’avvalersi di un mezzo contrario ai principi di correttezza professionale;
- l’idoneità di tale mezzo a recare danno all’altrui azienda.
La correttezza professionale viene quindi a rappresentare il metro di giudizio per stabilire la liceità comportamentale di un concorrente, si rinviene pertanto a un problema in merito all’identificazione di tale principio. Il tema è stato ampiamente dibattuto in dottrina[4].
Vi è chi ha pensato, richiamando espressamente l’art. 10 bis della Convenzione di Parigi secondo cui “costituisce un atto di concorrenza sleale ogni atto di concorrenza contrario agli usi onesti in materia industriale o commerciale”, che il termine “usi” debba essere inteso in senso tecnico, riflettendo condotte ordinariamente praticate in un determinato settore.
La seconda posizione deriva da pronunce della Corta di Cassazione, e farebbe riferimento “ad un principio etico universalmente seguito dalla categoria sì da diventare costume”, spostando l’attenzione dagli usi alla moralità imprenditoriale.
La scarsa chiarezza e contraddittorietà delle due teorie sopra esposte, ha portato la dottrina a una progressiva “oggettivazione” dei principi di correttezza identificandoli nei principi e regole di natura essenzialmente economica, stabilendo come parametro di giudizio l’art. 41 Cost. e in modo specifico il rispetto del principio di “utilità sociale”.
Un’altra accreditata tesi suggerisce che il giudizio di conformità di comportamento concorrenziale ai principi di correttezza professionale, debba tener conto di una valutazione di morale pubblica corrente, di cui il giudice è il principale interprete.
Non essendo possibile una denotazione univoca e precisa del termine, il problema dell’individuazione dei principi di correttezza professionale appare tutt’oggi ancora non risolta.
Avanziamo nell’analisi del secondo requisito dell’art. 2598 che si esprime sostanzialmente nell’idoneità della concorrenza sleale di danneggiare l’altrui azienda. Questo requisito rende irrisori quegli atti di concorrenza configurabili come innocui.
Si dice in generale, che lo storno di dipendenti sia illecito se attutato con l’intento di danneggiare o disaggregare l’azienda del concorrente, intenzione definita animus nocendi[5].
La prima pronuncia in tal senso, giunge da parte della Suprema Corte che avvia una sorta di “tipizzazione”[6] dei comportamenti illeciti stabilendo che l’animus nocendi si possa desumersi “dall’aver provocato lo storno di numerosi e qualificati collaboratori tecnici, ossia proprio di coloro sulla cui attività è prevalentemente fondata l’organizzazione del concorrente, l’idoneità di tale atto a determinare una grave disfunzione nello svolgimento dell’attività normale dell’azienda concorrente, per non essere tali collaboratori facilmente e tempestivamente sostituibili; l’essersi l’imprenditore avvalso, ai fini dello storno, dell’opera di dirigenti del concorrente, i quali unitamente ad altri dipendenti erano poi passati presso il primo; l’avere l’imprenditore portato a compimento la sua opera di indebolimento del concorrente prima ancora della propria costituzione; l’avere due dirigenti del concorrente, mentre erano ancora alle sue dipendenze, stipulato con altre persone una convenzione in cui si prevedeva che sarebbero diventati soci della costituenda società concorrente e uno di essi componente del consiglio di amministrazione”.
In tal senso, il reclutamento del personale dipendente si connoterà di intenzionale slealtà ogni qual volta che venga attuato con modalità abnormi (per numero e/o qualità dei prestatori d’opera distolti e assunti) sì da superare i limiti di tollerabilità del reclutamento medesimo che, nella sua normale estrinsecazione, è del tutto lecito[7].
I soggetti
L’orientamento dominante in dottrina considera soggetti attivi e passivi di concorrenza sleale coloro che rivestono la qualità di imprenditore ai sensi dell’art. 2082 c.c. e che si trovano in un rapporto concorrenziale fra di loro[8].
In particolare, può compiere atti di concorrenza sleale anche quell’imprenditore che si trovi in una fase organizzativa della propria attività e risulta ancora impossibilitato a svolgere concretamente attività di impresa[9].
Infine, può la condotta illecita può anche essere attribuibile a un terzo che abbia agito nell’interesse dell’imprenditore. Difatti, in mancanza di un rapporto di subordinazione o di mandato l’imprenditore può essere chiamato a rispondere dell’attività di concorrenza sleale svolta dai suoi collaboratori quando si fornisca la prova che costo abbiano agito su ispirazione dell’imprenditore e nell’interesse dello stesso e non per un proprio, autonomo interesse[10].
Tenuto conto di quanto evidenziato sopra, il cardine della questione diviene pertanto oltre all’individuazione del comportamento illecito anche la questione facente capo al rapporto di concorrenza. Ma come è possibile individuarlo? Secondo larga parte della giurisprudenza, risulta necessario e sufficiente la cd. “comunanza di mercato o di clientela”. A tale intento vengono indicate tre circostanze di possibile concorrenza:
- quando le imprese, in fase di organizzazione o di liquidazione, si apprestano a svolgere o a riprendere una certa attività in un futuro prossimo[11];
- quando le imprese non trattano beni o servizi uguali o simili o succedanei ma, con riguardo alle dimensioni ed altro tipo d’attività, esiste una concreta possibilità che inizieranno a trattarli nel futuro[12];
- quando le imprese operano su mercati territorialmente diversi e tuttavia esistono concrete possibilità di accesso, nel futuro prossimo ai medesimi mercati[13].
Infine, il rapporto di concorrenza esiste anche a tra imprenditori che operano a livelli differenti (es. produttore e rivenditore) qualora la loro attività incida in maniera considerevole sulla stessa categoria di consumatori[14].
Le situazioni “oggettive” di storno illecito
Definite le condizioni e i soggetti della fattispecie illecita, si viene a delineare la necessità di illustrare e comprendere le circostanze oggettive che parte della giurisprudenza considera veri e propri indici da cui desumere l’intento di un imprenditore di danneggiare un’azienda altrui.
Un primo importante parametro giurisprudenziale si fonda sulle particolari caratteristiche, qualità o rilevanza del soggetto stornato per l’impresa in cui quest’ultimo presta la propria opera[15].
In altre parole, il dipendente stornato deve essere altamente qualificato in modo da condizionare profondamente l’esistenza dell’azienda stessa. Questa particolare qualificazione ed utilità sono da intendersi non in senso assoluto, ma in funzione al concreto impiego del dipendente nell’impresa[16].
Anche in questo caso vengano a delinearsi concezioni contrastanti, difatti alcuni giudici di merito hanno richiesto che il dipendente sia “essenziale” nell’organizzazione aziendale[17], per altri invece è necessario quantomeno che il dipendente sia “utile al buon andamento dell’impresa”[18].
In altre occasioni i giudici si sono appellati anche alla condizione di “sostituibilità” del dipendente stesso, potendosi verificare, stornando posizioni di rilievo, un problema organizzativo per l’impresa che lo subisce[19].
Di converso, in assenza di una particolare qualificazione dei soggetti stornati l’impresa stornante non acquisirebbe un considerevole vantaggio concorrenziale a scapito della concorrente. In tal casi insomma, non si supera quella soglia di tollerabilità di pregiudizio che ad ogni imprenditore può derivare dalla perdita di dipendenti che scelgano di lavorare presso altra impresa[20].
Un secondo parametro di giudizio attiene il numero di dipendenti stornati. Il reclutamento di personale dipendente dell’imprenditore concorrente si connota di intenzionale slealtà ogni volta che venga attuato con modalità abnormi (per numero e/o qualità dei prestatori d’opera distolti e assunti) sì da superare i limiti di tollerabilità del reclutamento medesimo che, nella sua normale estrinsecazione, è del tutto lecito[21]. Da tale considerazione è facile comprendere come da solo il mero dato numerico dei dipendenti (o ausiliari) stornati, non attribuisce rilevanza all’illecito; proprio per tale ragione la valutazione viene effettuata tenendo conto del numero complessivo di personale addetto a un determinato settore o all’intera impresa[22].
In senso contrario, considerando irrilevante il numero dei dipendenti ai fini della configurazione di uno storno illecito, si rinviene la pronuncia del Tribunale di Napoli secondo cui “non è ingiusto e quindi non è risarcibile il danno subito da un imprenditore in ragione sia dello spostamento di un numero anche notevole di propri dipendenti, o anche di un intero staff, all’impresa di un concorrente, sia dell’acquisizione da parte di quest’ultimo di suoi clienti, sempre che ciò abbia avuto luogo con modalità obiettivamente corrette, a nulla rilevando l’atteggiamento soggettivo dell’agente, in quanto tali condotte non costituiscono concorrenza sleale per storno né di dipendenti né di clienti”[23].
Proseguendo nella nostra analisi, rinveniamo che un ulteriore elemento di valutazione dell’illeceità nello storno dei dipendenti si rinviene nel lasso temporale entro cui si verificano gli episodi di abbandoni dell’azienda stornata. La concentrazione nel tempo degli atti di storno comporta un “aumento rilevante degli stessi e la difficile loro giustificabilità se non con la sussistenza di un intento […] di danneggiare l’organizzazione imprenditoriale avversaria”[24].
Ulteriore modalità con la quale si può realizzare uno storno illecito di dipendenti consiste nella denigrazione del datore di lavoro del soggetto che si intende stornare. Rientra in tale casistica di denigrazione anche la diffusione di notizie allarmanti sulla situazione dello stesso[25].
Naturalmente nella prassi potrebbe verificarsi che siano gli stessi dipendenti di un’impresa a prendere iniziativa ed instaurare dei contratti con un’impresa concorrente. Con il verificarsi di tale casistica, larga parte della giurisprudenza ha identificato uno storno illecito laddove sull’iniziativa del lavoratore vengano a formarsi stimolanti proposte da parte dell’imprenditore concorrente[26].
Nel compiere la sua valutazione, il giudice dovrà a considerare tutte le circostanze del caso, non soffermandosi ad appurare l’integrazione dei parametri sopra illustrati per l’identificare di un illecito concorrenziale di storno di dipendenti.
Lo storno dei dipendenti e la violazione dei segreti aziendali
Solitamente correlato allo storno, vi è la fattispecie della violazione dei segreti aziendali.
La violazione del divieto di divulgazione di notizie segrete rappresenta un atto di concorrenza sleale qualora le informazioni possano essere impiegate da un concorrente per cagionare un danno al legittimo titolare.
Anche in questa casistica sorge un problema in merito all’identificazione dell’illecito concorrenziale derivante dallo stabilire se un’informazione possa ritenersi o meno un “segreto aziendale”.
Sicuramente non dovrà trattarsi di informazioni agevolmente reperibili, e che per escluderlo debbano risultar circondate da particolari cautele che ne precludano l’accessibilità ai terzi. A tale intento, la Suprema Corte ha esteso la nozione di “segreto industriale” oltre che alle informazioni “tutelate” anche alle “notizie che, pur senza essere dei veri e propri segreti, l’impresa concorrente non abbia messo, né ritenga di mettere a disposizione del pubblico[27]”.
Ma un problema sorge, specialmente nel caso in cui l’informazione venga rivelata da un ex dipendente, che l’abbia legittimamente acquisita nello svolgimento della sua attività lavorativa, presso l’ex datore di lavoro. In questo caso, l’esigenza di tutelare il segreto aziendale si scontra con il principio, secondo cui l’ex dipendente ed il suo eventuale nuovo datore di lavoro possono legittimamente utilizzare le esperienze e le cognizioni tecniche e di mercato acquisite dal primo, nell’esercizio delle sue precedenti mansioni[28].
Di conseguenza per appurare l’illecito le informazioni si dovranno contraddistinguere per un elevato grado di segretezza. Al riguardo, la giurisprudenza di merito ha definito un principio cardine secondo cui “le capacità professionali che il dipendente abbia acquisito o migliorato nel corso del pregresso rapporto di lavoro costituiscono un suo esclusivo patrimonio professionale liberamente utilizzabile, mentre le conoscenze specifiche attinenti all’ambito riservato dell’altrui impresa permangono riservate e inutilizzabili, in virtù delle regole di correttezza[29]”.
Generalmente le informazioni sottratte a un imprenditore assumono natura prettamente tecnica, riguardanti il mercato e i programmi messi in atto per raggiungere la clientela.
A livello normativo, l’ordinamento italiano dedica due norme alla specifica tutela di queste informazioni, gli artt. 98 e 99 del codice della proprietà industriale (c.p.i.). L’art. 98 c.p.i. dispone che “1) costituiscono oggetto di tutela i segreti commerciali. Per segreti commerciali si intendono le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni: a) siano segrete, nel senso che non siano nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore; b) abbiano valore economico in quanto segrete; c) siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete. 2) Costituiscono altresì oggetto di protezione i dati relativi a prove o altri dati segreti, la cui elaborazione comporti un considerevole impegno ed alla cui presentazione sia subordinata l’autorizzazione dell’immissione in commercio di prodotti chimici, farmaceutici o agricoli implicanti l’uso di nuove sostanze chimiche.”
Proseguendo l’art. 99 c.p.i. stabilisce “Ferma la disciplina della concorrenza sleale, il legittimo detentore dei segreti commerciali di cui all’articolo 98, ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di acquisire, rivelare a terzi od utilizzare, in modo abusivo, tali segreti, salvo il caso in cui essi siano stati conseguiti in modo indipendente dal terzo.”
Proprio con lo specifico richiamo alla disciplina della concorrenza, il Codice di p.i. lascia ipotizzare che la fattispecie disciplinata dell’art. 99 si applichi alla generalità dei consociati, trascurare la sussistenza di un rapporto di concorrenza. Il dovere di mantenimento del segreto si estenderebbe dunque anche al lavoratore infedele, che potrebbe essere convenuto in giudizio in proprio dal titolare del segreto[30].
[1] In tal senso Trib. Arezzo 8 agosto 2012, Cass. 25 luglio 1996, n. 6712; Cass., sez. un. 6 maggio 1980 n. 2995; Trib. Milano 24 marzo 2006; Trib. Bologna 12 ottobre 2005; App. Bologna 15 ottobre 2003.
[2] Cfr. A. Trotta, F. Romagnosi, Storno di dipendenti, Animus nocendi e condotte scorrette quali elementi essenziali per la sussistenza, Il diritto industriale 3/2013 p. 445.
[3] Cfr. Cassazione civile sez I, 8 giugno 2012, n. 9386.
[4] Si veda sul tema A. Vanzetti, V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, p. 26-30.
[5] Cass. 17 gennaio 1974, n. 125, in Giur. ann. dir. ind., 1974, p. 460. Cfr. anche Cass., 6 maggio 1980, n. 2296, in Foro.it, 1980, I c. 1888.
[6] Sul tema si veda anche Cass. 20 giugno 1996, n. 5718, in Diritto industriale, 1996, p. 932 ss., con nota di F. Pollettini, la qualificazione oggettiva dello storno.
[7] Cfr. A. Palazzo, A. Sassi, R. Cippitani, Diritto privato del mercato, Iseg Gioacchino Scaduto, 2007, p.382
[8] Si veda Digesto delle discipline privatistiche (Sezione commerciale), “concorrenza”; § 6, 315 e s.
[9] Cass. Sez. un. 6 maggio 1980, n. 2995 “la società posteriormente sorta è tenuta a rispondere degli atti di concorrenza sleale oggettivamente lesivi di un imprenditore concorrente, anche se realizzati durante la fase organizzativa, qualora gli stessi atti siano collegati con l’oggetto e l’interesse sociale, essendo necessario e sufficiente una potenziale comunanza di mercato o di clientela”.
[10] Cfr. Cassazione n. 2007/17459.
[11] Cfr. Cassazione n. 1994/10728; Cass. N. 1994/7577; Tribunale Torino 17 marzo 1998; Tribunale Milano 12 agosto 2005;
[12] Cfr. Tribunale Milano 18 settembre 1989.
[13] Cfr. Cass. N. 2009/17144; Cass. n. 1977/4458; Tribunale Torino 20 giugno 2008;
[14] Si veda Cassazione n. 2007/8215;
[15] Cassazione 19 novembre 1968, n. 3769 “è invero necessario non solo che si sottraggano al concorrente elementi indispensabili o quanto meno utili al buon andamento dell’azienda ma altresì che tale illecita sottrazione venga effettuata intenzionalmente, e cioè col deliberato proposito di trarne vantaggio con danno dell’azienda altrui”.
[16] Si veda Cass. sez. I, 20 giugno 1996, n. 5718 e Cass. sez. I, 6 maggio 1980, n. 2996.
[17] In tal senso Tribunale Milano 3 novembre 2004, Tribunale Bologna 23 luglio 1980.
[18] App. Milano 21 gennaio 1997.
[19] In tal senso Tribunale Verona 15 ottobre 1996 secondo cui “costituisce condotta concorrenziale illecita il sottrarre ed acquisire un complesso di dipendenti occupanti posti chiave nell’organizzazione aziendale di un concorrente, e difficilmente sostituibili, poiché la particolare importanza del personale sottratto consente di evidenziare oggettivamente la sussistenza di una manovra diretta a disorganizzare l’attività del concorrente”.
[20] Cfr. A. Trotta, F. Romagnosi, Storno di dipendenti, Animus nocendi e condotte scorrette quali elementi essenziali per la sussistenza, Il diritto industriale 3/2013 p. 453.
[21] Cfr. Cass. Sez. I, 20 giugno 1996, n. 57183
[22] In tal senso Tribunale di Milano 13 luglio 2004 nella fattispecie veniva dedotto uno storno di circa 30 dipendenti su un totale di 80 dimissionari: “nella concorrenza sleale per storno dei dipendenti, il mero dato numerico dei dipendenti che si assumono stornati deve essere valutato in rapporto al numero complessivo dei dipendenti nell’impresa asseritamente stornata e al numero complessivo dei dimissionari della stessa, così da escludere l’illiceità dello storno di un modesto numero di dipendenti rispetto al numero complessivo di dipendenti dell’impresa stessa”.
[23] Tribunale Napoli 10 settembre 2007.
[24] Tribunale Torino 8 settembre 2005.
[25] Tribunale di Monza 24 gennaio 2000.
[26] Cass. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13658 “la configurabilità̀ dello storno non è preclusa dal fatto che contatti per passare alle dipendenze dell’impresa concorrente o per iniziare con questa un rapporto collaborativo siano avviati per iniziativa degli stessi dipendenti o agenti successivamente ‘stornati’, sempre che su tale iniziativa venga poi ad inserirsi l’attività̀ dell’impresa concorrente sì da incidere casualmente (tramite, ad esempio, l’offerta di un migliore trattamento economico o di altri vantaggi) sulla decisione dei primi di inter- rompere il rapporto di lavoro con l’impresa in cui si trovano inseriti».
[27] Cass. 20.3.1991, n. 3011, in Giur. Ann. Dir. Ind., 1991, n. 2597.
[28] Cfr. A. Vanzetti, V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Giuffrè Editore, 2012 p. 118.
[29] Cass. 20.3.1991, n. 3011, in Giur. Ann. Dir. Ind., 1991, n. 2597.
[30] Cfr. A. Vanzetti, V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Giuffrè Editore, 2012 p. 120.