In una prima fase, riconducibile intorno agli anni ’60, gli interventi del legislatore sono stati caratterizzati dall’obiettivo di riequilibrare lo squilibrio di potere intercorrente tra il lavoratore e il datore di lavoro.
Basti pensare, a titolo esemplificativo e non esaustivo, alla L. n. 604/1966, alla L. n. 108/1990 o allo stesso Statuto dei lavoratori (L. 300/70), noti capisaldi della materia lavoristica e accumunati dal medesimo scopo: fornire un adeguato sistema di tutele per il lavoratore, in quanto soggetto contrattualmente debole.
Tale visione legislativa, tuttavia, è cambiata radicalmente nell’ultimo ventennio: gli obiettivi di tutela del lavoratore, difatti, sono stati sostituiti da interventi volti a favorire una maggiore flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro.
La motivazione di fondo, sottesa a tali interventi, poggia sull’assunto secondo cui ad un ridimensionamento delle tutele lavorative può conseguire un notevole incremento dei livelli di occupazione.
Gli attuali provvedimenti, dunque, hanno risentito notevolmente di quest’orientamento (sposato anche a livello comunitario e denominato “flexicurity”, cioè il risultato della fusione dei termini “flexibility” e “security”), volto, per l’appunto, ad accrescere la flessibilità del mercato del lavoro: si pensi ad es. alla L. n. 183/2010, c.d. “Collegato Lavoro”, il quale ha introdotto, tra le varie modifiche, delle diminuzioni dei termini di impugnazione del licenziamento e dei termini per agire in giudizio o alla più recente L. n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero), tutt’ora applicabile per i lavoratori assunti precedentemente al 7 marzo del 2015.
Gli obiettivi di “flexicurity” del legislatore hanno trovato però la loro definitiva consacrazione nel D.lgs.23/2015, introduttivo del c.d. contratto a tutele crescenti. Tale provvedimento, ha introdotto sostanzialmente un meccanismo di determinazione dell’indennità (spettante al lavoratore a seguito del licenziamento illegittimo) basato sul parametro della sola anzianità di servizio: inoltre, il suddetto decreto si caratterizza per la limitazione della reintegrazione ai soli licenziamenti nulli o discriminatori, ed escludendola del tutto per quelli c.d. economici.
Il D.lgs. 23/2015, in verità, ha suscitato sin da subito dei sospetti di incostituzionalità (culminati nella nota sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018), soprattutto per quanto riguarda il criterio di calcolo dell’indennità spettante al lavoratore e per il totale ridimensionamento della tutela reintegratoria, limitata oramai, come detto, ai soli licenziamenti nulli o discriminatori.
La legittimità di un meccanismo di tutela risarcitorio-monetario.
Ci si chiede, pertanto, se tale evidente affievolimento delle tutele (seppur motivato dall’obiettivo di aumentare i livelli occupazionali) sia legittimo.
La Corte Costituzionale, sul punto, ha accolto parzialmente le doglianze prospettate dal giudice a quo, dichiarando (con la sentenza n. 194/2018 precedentemente indicata) l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, d.lgs. 23/2015, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
Pertanto, il suddetto meccanismo di determinazione dell’indennità “non costituisce né un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente”.
L’escalation di affievolimento delle tutele, dunque, viene frenata dalla Corte Costituzionale, che ritiene tra l’altro irrilevante l’aumento delle soglie minime e massime dell’indennità previste dal D.L. 87/2018, c.d. Decreto Dignità (elevate da un minimo di sei sino ad un massimo di trentasei mensilità).
E la tutela reintegratoria?
Sul punto, la Consulta ha statuito (richiamando in proposito altresì un suo illustre precedente, vale a dire la sentenza n. 303/2011) che “il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario, purchè un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza”.
Alla luce di tali considerazioni, pertanto, può concludersi che la quasi totale eliminazione della tutela reintegratoria (rimasta, come detto, per i soli licenziamenti discriminatori o nulli) non è di per sè illegittima, ma deve essere accompagnata dalla previsione di una tutela indennitaria congrua al pregiudizio subito dal lavoratore.
Il ridimensionamento della tutela reintegratoria.
Pare dunque pacifico che l’orientamento seguito dal legislatore e dalla giurisprudenza sia ormai quello di ridimensionare la tutela reintegratoria a favore della tutela meramente indennitaria.
La stessa sentenza n. 194/2018 pone fine alle speranze di quella parte della dottrina che addirittura pronosticava un ritorno al sistema di tutele delineato dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Del resto, una volta acclarata la legittimità di un meccanismo di tutela meramente risarcitorio-monetario, non spetta alla Consulta valutare le scelte politiche concretamente perseguite dal legislatore per incrementare i livelli occupazionali.
Resta dunque molto probabile, alla luce della linea sin qui seguita, che il legislatore continuerà, in ottica comunitaria, a porre in essere manovre occupazionali ispirate al regime di “flexicurity”, precedentemente esposto.
Ad ogni modo, non sono esclusi ulteriori sviluppi futuri in merito, che potrebbero portare ad un nuovo capovolgimento della tendenza sin qui seguita.
Da ultimo, ad esempio, sia il Tribunale di Milano (ordinanza del 5 agosto 2019) che la Corte di Appello di Napoli (ordinanza del 18 settembre 2019) hanno nuovamente sollevato questione di legittimità costituzionale relativamente al sistema di tutele delineato dal D.lgs. 23/2015: la questione dunque, pare tutt’altro che definita e non è detto che con le successive pronunce della Consulta la tutela reintegratoria non possa nuovamente riacquisire il ruolo prioritario assunto in passato.